venerdì 22 febbraio 2019

Vice

138 - Vice (febbraio 2019)





Vice ripercorre le tappe dell'oscura ascesa al (silenzioso) potere di Dick Cheney culminato nell'amministrazione Bush con uno dei periodi più delicati della storia americana contemporanea. L'idea è quella di un biopic (idea molto in voga quest'anno) ma sempre senza perdere di vista, dal punto di vista di McKay, l'appuntamento con il sarcasmo e la mordace sottolineatura di colore, che come nel precedente The Big Short non mancano di far aprire mascelle (che sia per indignazione o per le risate, o magari entrambe le cose).

La vena satirica di McKay, infatti, pompa incessantemente quasi quanto il cuore dello sfortunato protagonista (e l'ironia nell'ironia è che il regista dipinge il ritratto di un uomo con emozioni e cuore difettosi che resta aggrappato alla ricerca di un trapianto di cuore) e, se da una parte riesce nell'intento di delineare una personalità complessa senza cadere nella caricatura (merito anche e soprattutto dell'ennesima prova di spessore di un Christian Bale nuovamente sotto metamorfosi fisica per adattarsi al phisique du role richiesto) dall'altro riesce anche a restituire il fitto di oltre trent'anni di fatti, relazioni, documentazioni, segreti, bugie, manipolazioni, confronti.

È vero che, come nel film precedente, l'opinione del regista è evidentemente parziale (del resto la satira chiama a prendere una posizione, in funzione comunque dei fatti e non del tifo cieco) ma è anche vero che stando "ai fatti" resta difficile non condividerne la conclusione. E gli ultimi minuti sono tutti per chi, troppo facilmente, sia disposto al tentativo di smontare questa tesi. E comunque dal film emerge, distintamente, un Cheney calcolatore, cinico stratega e opportunista ed un Cheney uomo, che non è poi molto differente dall'uomo comune soggetto a pressioni familiari e bisognoso di dare un senso alla propria natura.

Sono infatti le motivazioni, oltre ai fatti e ai collegamenti che intercorrono fra di essi, che convincono particolarmente nel tessuto ordito da McKay, con il solito lavoro di rilievo in fase di montaggio che ancora una volta (anche senza l'enfasi e il ritmo impazzito di The Big Short) si dimostra strumentale all'interesse del racconto; la sperimentazione continua del regista rende un ottimo servizio alla delicatezza del soggetto nonché all'irriverenza con cui è trattato nel film, così intriso di arguzie, perentori cambi di tono e registro, sottigliezze e metafore che dimostrano quasi irrequietezza. Ci sono certi punti del film, con quella voce fuori campo estranea e improvvisa in cui sembra di guardare un documentario. E poi diventa fiction, e poi, ancora, il grottesco cresce e diventa talmente palese da spezzare gli argini del genere precedentemente inquadrato.
È quasi un collage, un flusso di coscienza; l'insieme di più voci narranti, l'uso dei tagli di montaggio per rovesciare l'etica del film, gli inserti di commento, i contrappunti, i ritmi, tutto è mescolato insieme per creare un effetto destabilizzante sullo spettatore incauto, chiamato a pesare il valore di quello che guarda, a paragonarlo con quello che sa essere vero.

Molta parte del cast si distingue: l'interpretazione di sottrazione di Bale è enorme, non sale mai sopra le righe ma è tanto densa la sua presenza che riempie tutto il film; Amy Adams una fantastica comprimaria che dà il senso del riflesso dell'anima più sincera e torbida che non riusciamo a scorgere nel Cheney di Bale. Si potrebbero citare anche tutti gli altri, compreso Steve Carell (attore di contorno ma sempre valore aggiunto), ma la verità è che è difficile pensare alla recitazione di un film di McKay in termini convenzionali, serve quasi coniare un nuovo termine, uno in cui possano convivere uno sguardo sul mondo di chi da esso si sente tradito e la voglia, se non proprio la necessità, di dargli un senso per provare a raccontarlo per spiegarselo.

La funzione pedagogica di McKay non si esaurisce nelle informazioni riassuntive con cui scandisce le scene o affolla i titoli finali che scorrono sullo schermo a ricordare le conseguenze di questo "gioco politico e di potere" che Washington (come Wall Street) conosce tanto bene da averlo marchiato a fuoco sull'America dei risparmiatori defraudati, della working class che tira a campare o dei soldati mandati a morire senza una ragione plausibile, ma è anche diretta a ricordare e a ricordarsi prima di ogni altra considerazione che i Cheney, su quel "trono" Macbethiano non ci si sono messi da solo, e c'è voluto molto di più di una piccola spinta da parte di una bella moglie machiavellica: è la stessa gente che ora sta guardando ad aver volto il capo dall'altra parte. Ridere adesso significa ridere un po' anche della propria insufficienza.

Perché in fondo abbiamo tutti una famiglia, un'esistenza cui dare un senso e un vuoto da riempire. Comprendere le ragioni significa allargare i confini dell'inquietudine che nasce dallo stesso suono del silenzio, quello che inghiotte non appena lo si sottovaluta.

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