sabato 24 aprile 2021

Mank

157 - Mank (Aprile 2021)






Mank, ovvero Herman Mankiewicz, storico sceneggiatore hollywoodiano, nella complessa interpretazione di Gary Oldman, secondo David Fincher, sullo sfondo della Grande Depressione e della Hollywood degli anni ‘30 in piena rivoluzione fra l’avvento dei talkies, la pioggia di soldi delle grandi case cinematografiche che dominavano il mercato e la trasformazione del linguaggio cinematografico.

Questa è in parte la storia di come si è giunti a concepire in particolare un film che ha rappresentato un momento di svolta dal punto di vista tecnico e artistico, ossia Citizen Kane (Quarto Potere).

 

Fincher concepisce questo biopic come qualcosa di più di un tuffo da cinefili in un passato sognante (colto in uno splendido bianco&nero che omaggia il film preso a riferimento): è allo stesso tempo uno studio sul personaggio “Mankiewicz” e un’inchiesta sullo spirito di un’America che, seppur rinnovata di forma, esiste ancora nelle stesse logiche industriali e produttive; un sofisticato intermezzo contenuto all’interno di un momento particolarmente politico e sociale rappresentato dall’urgenza di un paese sull’orlo della bancarotta e desideroso di un rilancio, e l’espressione di un genio creativo e produttivo (Mankiewicz, Welles, Mayer, Thalberg: ovvero un pezzo della storia del cinema) che brillava con tutta la sua vitalità alimentandosi proprio di quelle difficoltà.

Fincher prende questi personaggi “larger-than-life” e ne compie un ritratto teatrale, sospendendoli in una cornice di allegro scetticismo e imbevendoli di un significato affidato ai dialoghi e alle interpretazioni che è solo preceduto dal nome ingombrante: come in ogni film artisticamente riuscito, accanto al talento vediamo gli uomini per quello che erano, come se fossero loro a scrivere non solo la sceneggiatura dei film omaggiati, ma la sceneggiatura del film stesso. 

La brillantezza della messa in scena è sottolineata attraverso la ricercatezza di scenografie e costumi, dai ritmi scanditi dal solito montaggio perfetto dei film di Fincher, da una fotografia tutta divisa tra luci e ombre che vuole mettere in evidenza la duplicità umana ma anche suggerire la spaccatura tra l’idealismo di Hollywood (le luci e i lustrini, il fascino dei divi, l'invidiabile stile di vita) e la cruda realtà americana in cui convivevano affaristi senza scrupolo e geniali personalità in cerca di espressione, fra pionieri in rampa di lancio e un sistema di ruoli ritagliato sulla formula felicemente irresponsabile della macchina capitalista.

È un film-nel-film che lentamente si disvela raccontandoci la nostalgia di un’epoca chiusa per sempre in cui l’ingegno e la creatività potevano trovare i mezzi per eludere, a volte elevare e, spesso, artefare la realtà senza venire meno alla sua verità più essenziale. L’alcolismo, il sordido, la depressione, gli scandali: tutte quelle cose che furono spaccato di un’epoca tanto quanto il successo e le patine non sono qui in secondo piano né vogliono prendere un posto diverso da quello che spetta loro: sono il racconto del quotidiano messo a disposizione di un pubblico assetato di novità, deluso dalla vita, spietatamente incline all’evasione dalla mediocrità. Così anche Mankievicz, ovvero Mank, che andrà a firmare uno dei film (se non il film) più importanti di sempre traendo spunto dall’insulso teatrino della bassezza umana che gli sfila davanti.

 



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