domenica 25 aprile 2021

Minari

  160 - Minari (Aprile 2021)






Una famiglia Koreana emigra in Arkansas per coltivare la terra di un grosso appezzamento e il sogno americano, rivoluzionando così gli equilibri interni della famiglia.

Piccolo film intimista, il lavoro di Chung che parla al cuore delle proprie origini di figlio di immigrati cresciuto negli stessi luoghi di cui racconta nel suo film, è un tentativo delicato di sondare le difficoltà di far coesistere l’affermazione individuale (sono gli anni ‘80, di Reagan e dell’individualismo) e la famiglia; la terra, eterna metafora più e più volte riproposta dal cinema americano, che rappresenta sia il suolo su cui costruire il proprio futuro sia il senso di appartenenza e il legame con le proprie radici. Quelle stesse radici che la famiglia Yi ha estirpato per trapiantarle in un paese alieno e straniero, che opera una netta divisione (l’altra metafora stringente dei pulcini) fra il ruolo dell’uomo e quello della donna.

Soon-ja (la nonna, l’elemento di disturbo, l’outsider) entra in questo quadro silenziosamente, spiata e osteggiata dal piccolo David (suo il punto di vista principale) che impara lentamente ad amarla, e ad amare insieme a lei le sue origini dimenticate o forse mai conosciute, rappresentate così elegantemente dalla pianta Minari, che rappresenta la fertilità e quindi l’ottimismo nel futuro, ma anche la fedeltà dei valori tradizionali, la capacità di reagire alle difficoltà.

È lei la vera chiave della storia: suoi gli occhi del piccolo David disorientato e angosciato dall’incertezza di quello che lo attende mentre il padre è troppo impegnato per badare a lui e la madre attanagliata dalle preoccupazioni, è lei la nutrice, la semente, il legame fra i due mondi, lo spirito di quella Korea che vive sottaciuto nel cuore della famiglia e il corpo instabile e anziano che occorre proteggere e preservare. 

Chung è particolarmente bravo a cogliere con lirismo e semplicità la fusione fra l’uomo e la natura, il personalismo dei desideri e delle angosce catturati nei primissimi piani (quasi Bergmaniani, quelli di David), la lotta tanto interiore quanto simbolica fra ciò che si può ereditare e ciò che invece deve essere duramente conquistato attraverso il lavoro e la fatica.

In una fotografia dai toni caldi e avvolgenti, le immagini sembrano quasi sfuggire via dall’occhio inquieto dei protagonisti sotto le note di una colonna sonora idillica e vibrante. Il verde, la luce dei grandi spazi dominano il primo segmento; il rosso distruttivo della seconda parte fa da contraltare e rinnova la necessità di quel ciclo vitale che è nucleo fondante dell’esistenza.

Il naturalismo del film di Chung possiede entrambe le cose: le palpitanti profondità dell’infanzia e la fedeltà, la disillusione degli anziani; il sacrificio del lavoro e il rigoglio dei frutti della terra; la consapevolezza che un mondo migliore esiste e la fede necessaria a costruirlo è tutta racchiusa in quel miracolo che non può derivare mai dall’esterno ma solo da un sentito riconoscimento del proprio posto nel mondo, delle proprie radici.

 


 


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