domenica 28 febbraio 2016

Room


104 - Room (febbraio 2016)




È la storia di Joy e Jack, madre e figlio, che vivono nella Stanza, un infimo spazio di pochi metri quadrati in cui si svolge la loro intera vita da anni, ormai.

L'evoluzione graduale, e naturale, di questo spunto iniziale è lasciata al punto di vista del piccolo Jack, che ha 5 anni e non conosce niente del mondo esterno (come noi non sappiamo niente di quello che si trova oltre) ed è attraverso i suoi pensieri e le sue emozioni che la brillante sceneggiatura di Emma Donoghue scrive informazioni, aggiunge dettagli, svela pian piano l'incredibile forza narrativa di cui è capace.
La sua rivoluzionarietà, il fatto che abbia molto da dire non sta soltanto nel capovolgimento prospettico (non è il primo esperimento fatto in tal senso e l'uso del monologo interiore fanciullesco era già stato impiegato con finalità analoghe anche in Beasts of the Southern Wild) o, più che altro, descrittivo (la storia si sviluppa da un suo nucleo centrale per poi volgere verso gli strati più esterni che lo nascondono, come fosse soggetto ad una forza centrifuga), ma nel fatto che paradossalmente dopo uno sviluppo così forte ed originale, mostri di sapere quel che intende dire, di non fermarsi al fascino della sua "Stanza"; d'altra parte, non è esente da difetti di rinnovamento o fluidità nei passaggi intermedi ma rende la traumaticità ancora più autentica.

Un film assolutamente sconvolgente, firmato dall'emergente Lenny Abrahamson alla regia e che ha tanto da insegnare sulla magia che il cinema conserva nel raccontare storie potenti e radicate nel fondo della società in cui viviamo, con questa sua atavica dicotomia fra realtà e finzione di cui ha spesso omaggiato se stesso e che si presta molte volte alla lettura della quotidianità e dei suoi mezzi comunicativi (emblematica la funzione della TV nella storia); così il mondo finto di Jack può diventare vero solo a condizione che rimetta in discussione tutto ciò che ha sempre preso per certo e similmente anche noi dobbiamo riconoscere la verità di qualcosa di cui fino a quel momento potevamo solo postulare l'esistenza.
Il ragionamento si estende anche al confronto fra piccolo fantastico (non a caso il narratore è Jack, mente più plasmabile e impressionabile; oltre alla limitatezza fisica della Stanza) e il grande ignoto, che ha qui una funzione di dolorosa elaborazione legata al tempo che si è fermato ma che non si è esattamente fermato; dell'isolamento che è sì cattività ma esercita ancora una malsana attrazione perché, irrazionalmente, è "prigione" ed insieme anche "casa"; tramanda alla mente i momenti perduti, il tempo di cui non si ha più ripetizione, lo strato di rimpianti ed anche le allettanti promesse di un riparo dall'immensità del mondo.

Questa linea (già evidenziata in parte nel precedente Frank) della sconnessione dalla realtà di una vita spezzata o interrotta, è portata avanti da Abrahamson scegliendo nella voce narrante quella tenera ingenuità che è poi lui a mettere in evidenza alleggerendola con un circostante alone di stupore, di scoperta, e naturalmente di crescita; perché Jack ovviamente cresce, e la madre diventa adulta: è il tempo, di nuovo un'astrazione dell'Uomo, a creare l'innesco decisivo. Il regista sembra vegliare sui suoi compassionevoli personaggi con trasporto, rimuovendo ogni tipo di distanza con loro (e di finzione, questa volta) finché anche in lui non si fa strada la maturità necessaria a lasciarli andare, innalzandosi sopra di loro e rimanendo a guardarli mentre scompaiono come puntini nella spaventosa infinità che li ha inghiottiti.

Un film che ha cuore, ottima scrittura, questa patina intimistica che ne "smaschera" i tratti di film indipendente costruita intorno a due grandi interpretazioni (ogni elogio per Brie Larson è già stato sprecato, ma la complessità che è in grado di portare al personaggio è qualcosa di indelebile), capace di fotografare gli highlights con delicatezza ma senza per questo rinunciare a porre (porci) domande scomode, con qualche passaggio incerto che comunque al giovane e promettente Abrahamson si può perdonare tranquillamente.
Specie se continuerà a fare film come questi, che sono quelli che lasciano un solco nell'idea di un cinema necessario, terapeutico, diretto verso un mondo nuovo che deve imparare a conoscere il proprio coraggio e allo stesso tempo a dubitare di tutto.

Scena scelta










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