martedì 23 febbraio 2016

Spotlight


98 - Spotlight (febbraio 2016)




La vera storia e cronaca di come nel 2001, la neo-creata squadra Spotlight del Boston Globe, scontrandosi contro un muro di omertà risalì, indizio dopo indizio, allo scandalo che investì la Chiesa sia nella notevole parte dei suoi sacerdoti colpevoli di abuso di minori che nelle sue alte sfere, inchiesta che valse alla redazione il Premio Pulitzer.

La sceneggiatura di Tom McCarthy, regista (e anche co-sceneggiatore) non molto prolifico ma con già qualche precedente collaborazione a film di natura politica così come prettamente politico è questo film di denuncia, è di quelle in grado di attanagliare cuore e cervello con le mani sottili ma decise di un giornalismo che è quello vero, quello cui chiunque dovrebbe realmente aspirare; e forse proprio in quanto mosca bianca, esempio così puro e perfetto di aderenza alla propria coscienza, è ancora più difficile assistervi retroattivamente senza subire rimescolamenti interni.

Se i significati emozionali (nelle tracce di empatia naturale con le vittime) inclusi nella storia sono piuttosto espliciti e se la scrittura pur caotica che sia (perché caotico è ciò con cui ha a che fare) si mostra metodica nella sua ricerca di schemi in grado di mostrare la verità, è al ruolo di paladina della verità, di luce nell'oscurità (appunto "spotlight") assolto dalla funzione giornalistica che si devono le ribalte del film, e dunque l'uomo nei suoi meccanismi sociali, di come la sua cattiva natura possa contaminare gli altri nascondendovisi all'interno, ma anche di come talvolta sia possibile fare il contrario e rimuovere quel velo. Quasi un inno, allora, a quella fiaccola di speranza coraggiosa che sembra diventare imprescindibile di fronte a un'evidenza di questo tipo (scindendo, qui sì, fra fede e speranza, fra il velo corrotto del potere organizzato e la fiducia nelle migliori intenzioni di cui è capace la natura umana).

La variegata coralità (per usare un gioco di parole, "dalle molte anime") ricercata da McCarthy è quantomai ben diretta nella sua formazione attoriale e interpretativa e, se da una parte il fatto che nessuno risalti realmente sugli altri mancando di un'interpretazione madre lo penalizza un po' nella drammaticità, dall'altra è anche vero che il contributo commisurato di ciascuno, con i propri toni e colori (si pensi all'approccio più misurato e meno autoindulgente di Keaton e alla prova invece più viscerale e ostinata di Ruffalo) parificano e livellano il cast equiparandolo propriamente ad un team; ma non solo: rendendoli metaforicamente tutti uguali, o comunque parimenti vulnerabili davanti alle proporzioni del terribile segreto che si va via via disvelandosi sotto i loro occhi.

Quel che è poco ma certo è che il film ha questa confezionatura di fondo che la rende davvero molto appetibile e un contenitore adatto al tipo di storia dai connotati molto emotivi ma che non scalfisce il tessuto interno composto di strati su altri strati da cui emerge chiaramente un'opinione di parte nella visione del suo regista che giustamente non si limita a raccontare una storia, ma lo fa declinandola nella prospettiva dei suoi protagonisti e quindi di chi non riusciva e ancora non riesce, totalmente, ad accettare quel genere di sconforto che ci accompagna anche molto oltre il nero dei crediti finali: quando ci rendiamo conto che non è stato solo un film e che, fuori dagli abiti che portiamo (inclusi giornalisti e artisti) il nostro resta un mondo popolato da lupi travestiti da agnelli per riconoscere i quali occorre fare molta attenzione.


Scena scelta









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