sabato 27 febbraio 2016

The Revenant


103 - The Revenant (febbraio 2016)




Il cacciatore di pelli Hugh Glass viene lasciato indietro dai suoi compagni dopo le gravi ferite riportate in uno scontro con un grizzly, da qui inizierà la sua battaglia per la sopravvivenza e, in qualche modo, la redenzione spirituale.

Iñárritu sembra voler celare fra gli epici echi delle regioni fluviali delimitate dagli immensi boschi del North Dakota (in realtà riprese in Canada) il segreto di un film che si trova all'interno di un personaggio (quello di Di Caprio) che ci viene presentato già tormentato, taciturno, con un vissuto e che viene messo poi di fronte ad una serie di sfide, naturali ma non solo, come in un lungo travaglio ordalico che sembra quasi volerne solo indagare la resistenza, chiedersi: "quante ne potrà sopportare ancora?"

Il Revenant, "redivivo" di Di Caprio è al suo ultimo stadio un'astrazione, una finzione: tutto quello che lo compenetra nel processo è assolutamente straordinario, portato fuori dalla severa razionalità del contesto; è all'inizio un semplice uomo ma si plasma, si trasforma in quella metafora, quell'insegnamento morale, quel principio secondo cui non finisce finché non lo decidiamo noi, dominando il nostro destino.
A questo vale la considerazione dialettica del film di Iñárritu, una considerazione che mutua diversi elementi presenti già in Birdman (questo doppio fondo in cui non è sempre facile riconoscere la trappola), come il realismo teatrale, come il cinema del surreale e dell'onirico qua declinato nel mistico e nel realismo magico che ci introducono all'interiorizzazione totale della vicenda che abbiamo davanti. L'inferno che tempra il carattere del suo protagonista è per davvero così impossibile da recepire con l'ausilio della sola nostra esperienza che occorre trasportarlo in un'altra dimensione, quella ignota e inesprimibile a parole (rare, infatti) delle visioni, della poetica del subconscio, dell'immortalità.

A questa missione il regista messicano dedica un'ambizione che addirittura sconfina rispetto alla sua portata, seppellendo in una tragedia dai canoni classicheggianti raccontata per mezzo di personaggi molto letterari (si pensi soltanto al Fitzgerald di Hardy: avido, lurido, meschino, come se fosse uscito da un romanzo d'avventura di Stevenson o la fuga nei boschi prima della resa dei conti dal richiamo molto Omerico) un retrogusto di realtà che riesce ad emergere soltanto in certi casi, quando la verità storica (il soggetto da cui è tratta la sceneggiatura, ispirato al vero Hugh Glass) riaffiora alla mente.

La straordinaria intensità della regia guarda in faccia quella solipsistica della prova di Di Caprio, restituendo un viluppo di immagini continuamente sorprendenti, agitate dal pericolo inaspettato (i piani sequenza, specie quello dell'incipit) della prova successiva, del volerla rendere avventata, selvaggia, estrema in ogni sua parte e conseguenza; Iñárritu insegue il suo protagonista (long takes, panoramiche, steadycam, carrellate; tutto con l'effetto coinvolgente dell'obiettivo grandangolare) lungo il suo viaggio filmico vivendo, in prima persona e nella realtà, le estreme condizioni climatiche della località, come a prendere la faccenda piuttosto seriamente, a voler provare a comprendere con i fatti prima di poterlo spiegare.
Ne esce qualcosa che forse non ha la sagacia o il design fascinoso delle riprese di Birdman ma vive di sussulti, di costanti accelerazioni mozzafiato, momenti che presi singolarmente sono ben più formidabili. La sua grammatica è parzialmente rivoltata, strumentale a quella missione originale, ed a seguire sono una moltitudine di diapositive del paesaggio (la tela fosca della fotografia di Lubezki in campo larghissimo che ce ne ricorda l'imponenza) che si dividono perfettamente a metà con le angolazioni visuali del protagonista il senso del logos ritratto dal suo regista, con questa tendenza a deviare dalla strada tracciata: comincia il vero viaggio, che in quanto tale, è sempre ignoto. Non riducibile quindi solo alla razionalizzazione.

Se in Birdman il raccordo era praticamente inesistente (comunque invisibile) come per formare un lungo indivisibile unicum, qui Iñárritu prendendo per vere e necessarie quelle sofferenze attribuite a Glass, individua come il solo modo per riprodurne l'idea sia quello di dilatare tempo e spazio e costringere il suo attore a lunghe soggettive, insidiandone la finalmente raggiunta calma e la sensazione di sicurezza con detonazioni improvvise che tornano ad infiammare il ritmo, a ricordarci che siamo ancora vivi lì con lui, complici della sua esperienza: ma è un attimo, quello dopo è di nuovo coronato da quest'esigenza di racconto che oltre ad essere motivata da fattori biografici sta lì a ricordarci che per dare credibilità a tutta l'impalcatura serve necessariamente essersi ricordati prima di che cosa significhi essere un uomo, solo, a cui è stato tolto tutto, e dopo aver assaggiato la morte, tornare dall'oltretomba per farcene memento, intercedendo in quel piano duale (realtà/finzione) che diventa poi uno e uno soltanto.

Scena scelta









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