mercoledì 24 febbraio 2016

The big short


99 - The big short (febbraio 2016)




2005, dall'osservazione dello scenario economico in evoluzione l'eccentrico ma apparentemente geniale Michael Burry effettua una previsione catastrofica riguardo al mercato immobiliare americano, prevedendone il crollo concretizzatosi nel giro di qualche anno, e cominciando a scommettervi contro. Sulla sua scia altri faranno lo stesso lucrando sull'enorme bolla creata.

Con in mente questa (tutto sommato semplice) premessa, il film di McKay si avventura ben presto in una selva oscura di terminologie, tecnicismi e in tutti gli (oscuri) meccanismi alla base del ragionamento, quasi volesse un po' riprendere il discorso lì dove appena un anno fa lo aveva lasciato The Wolf of Wall Street, ricalcandone il senso di indignazione, il ritmo impetuoso, l'opulenta sfacciataggine dei suoi attori e senza lesinare piccole battute d'arresto lungo il cammino in grado di far risaltare, assieme all'eccesso immorale e alla connivenza d'interessi anche una grossa fetta di stupidità sistemica, appositamente legata a doppio filo con la sensazione che avvolge lo spettatore, mentre tenta di stabilire un legame con gli speculatori che occupano lo schermo, abilissimi nel padroneggiare concetti che sfuggono alle menti più a digiuno di nozioni finanziarie.

L'effetto prevedibile è di suscitare, a catena, domande su domande, un po' come quelle che prendono in ostaggio il film lungo questa ricostruzione scenica del "come" sia stato possibile tutto quello che abbiamo vissuto, e tutte quante risalenti alla stessa (amaramente) ironica risposta, quella di un sistema che si autorigenera per questa forza inerziale.

Con una lunga carriera comica alle spalle (fra le altre cose fu regista del SNL), McKay applica il suo stile anche a questo film, creandone rilievi umoristici (e a tratti demenziali per sottolinearne il parossismo) anche dove la storia lo permetterebbe meno, sospendendola in uno scenario quasi fantastico, tragicomico nelle sue implicazioni. Lo fa per mezzo di una scomposizione narrativa che vuol essere funzionale al racconto su larga scala cui ambisce e probabilmente intende in buona fede aiutare lo spettatore ad addentrarsi meglio nelle sue logiche perverse ma il risultato, in conseguenza all'uso scriteriato del gergo tecnico, al montaggio serrato e al ritmo vertiginoso della recitazione è quello disorientante di una dimensione in cui non ci si può che perdere infinite volte prima di giungere alla sensazione che poteva comunque essere conservata dall'ignoranza precedente al film.


La regia di McKay, così divertente, energica e sempre sorprendente nella combinazione ed alternanza di elementi più classici del genere con quelli di una commedia stilosa fatta anche di ammiccamenti (grafici e non) alla cultura pop, riesce comunque a rendere accattivante un prodotto che non fa niente per non rendersi simpatico e genuino al 100%, sublimato in quel suo vizio di accelerare quando intende quasi sorvolare su ciò che costituirebbe dato sensibile per l'ingranaggio ma che in sostanza è invece lasciato fuori dal messaggio.

Uno sforzo che va lodato nella sua complessità (se non altro per l'originale caratterizzazione "for-the-masses" della vicenda, il taglio satirico e l'intento critico finale) specialmente in virtù di una qualità di storytelling e interpretazione così elevate (Christian Bale ma soprattutto Steve Carell), entrambe brillanti nel rendere l'eccesso ancora più eccessivo e la follia ancora più drammaticamente assurda, ma il giudizio finale del film risente un po' di questa grave inintelligibilità al fine di una sua completa fruibilità che nega per gran parte del tempo una reale possibilità di un legame con esso che non sia quello di un vago sentimento oppressivo contro le istituzioni che ci governano ed il loro potere.


Scena scelta










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