domenica 4 marzo 2018

Lady Bird

134 - Lady Bird (febbraio 2018)





È la storia di Christine, o Lady Bird, del suo rapporto complicato con la madre che è all'origine di un desiderio di indipendenza che la spinge a fare domanda per i college della costa americana opposta a quella della cattolica Sacramento in cui vive e si sente ingabbiata, e quindi del suo bildungsroman che si consuma nell'arco di un anno in attesa di quel momento.

Greta Gerwig, dieci anni davanti la macchina da presa (nonostante la giovane età), fa il grande salto e dirige il suo primo film e fa subito il botto: il suo film, largamente celebrato dalla critica, è la naturale conseguenza di uno stile che si è andato rafforzando negli anni di collaborazioni nel circuito meno esposto del cinema indipendente (Baumbach, Mike Mills, Solondz...) che ne ha messo alla prova sia l'efficacia come commediografa che la sensibilità come autrice.

Se la sua Lady Bird - che non ha nulla di autobiografico, come si è affrettata a precisare nelle interviste - è quindi la somma delle esperienze di una normale adolescente la cui vita non è più particolare di tante altre, è però il taglio e l'incisività che l'autrice sa dargli a far funzionare un film il cui segreto non è comunque solo nella sceneggiatura e nella prova recitativa della sua protagonista, ma soprattutto nelle piccole cose.

La sceneggiatura, il punto forte del film, spaziando in quella gamma di sfumature che va da drama a comedy cui del resto si fanno risalire le origini della Gerwig, tocca un'infinità di temi essenziali: la crescita, il rapporto difficile figli-genitori, le amicizie vere e presunte, la sessualità, l'omosessualità, l'aborto, il razzismo, la depressione, la politica, la religione, i problemi socio-economici, l'emarginazione, ecc; ma più di quello che tocca è importante come lo fa: in generale, le qualità di regia e montaggio sono al servizio della vena più comedy, perché è qui che il film è più a suo agio, la Gerwig può sdrammatizzare facendo ricorso a quell'aria di eterna "crescita problematica" che, alle prese con i drammi più o meno grandi della vita come quella che racconta, presentano un'ironia o una satira spontanea, che si risolve da sola in punchline e scappatoie per situazioni disperate.
Qui l'essenziale lavoro "touch&run" fatto in fase di stesura paga i suoi frutti e l'intelligente scelta di giocare sulle giustapposizioni e sui salti temporali riempiendo di dialoghi il film hanno un effetto vincente e brillante.

Il film dà un'idea come di densità, di estrema sintesi; come se ci scivolasse da fra le mani. È vero che tutto sembra più significativo e che ogni breve scenetta aggiunge una pennellata al murales della giovane Lady Bird consegnandocela alla fine presumibilmente più matura, disillusa e cresciuta, ma il tutto così scandito, se da una parte incrementa il potenziale della scrittura quasi-nichilista e anticlimatica della Gerwig, dall'altra ha il vantaggio/svantaggio di lasciarsi pesare poco per quelli che sono i suoi contenuti, come se una piccola parte della regista volesse evitare i giudizi, o volesse evitare speculazioni. Come se fuggisse, di continuo.

Saoirse Ronan aggiunge un sottile, intelligente strato di teenage angst che non va mai sopra le righe (a conferma di come il film proceda secondo il doppio binario) e che vale da valvola di sfogo incastrandosi nell'insoddisfacente rapporto con la madre (l'ottima Laurie Metcalf) che si nutre di una vicendevole e naturalissima disapprovazione, ma che è evidentemente tenuto insieme da emozioni oneste che sono quelle che la Gerwig è attenta ad osservare.

In generale, in quest'irrequietezza che dà anima e corpo ad un film come se ne sono visti tanti altri (in termini di contenuti) e che è quella tipica di chi vede passare in un attimo uno dei periodi più memorabili della propria vita come il passaggio all'età adulta, si può dire che la più grande scommessa sia la visione della regista di farne un lavoro di collage, uno di quelli su cui l'occhio si posa attratto non tanto da questo o quell'altro ritaglio ma dal suo senso di insieme, dalle sensazioni che emana, dal grado con cui, soltanto guardandolo, riusciamo a farci un'idea di chi è la persona a cui appartiene.

La Gerwig ha scritto una bella storia e le è rimasta fedele sempre; allo stesso tempo, nonostante la sincerità drammatica prenda il sopravvento nelle scene più evocative del film, il suo tocco è sempre commisurato a quello che racconta, impedendosi di deragliare, sempre in perfetto equilibrio sia nel ritmo che nel mix dei toni, e lo spirito di fondo che sa trovare la verità anche nei contesti meno verosimili non fa che risplendere un piccolo (per budget) ottimo film che esce da una scuola che quest'anno ha particolarmente brillato per originalità.


sabato 3 marzo 2018

Phantom Thread

133 - Phantom Thread (febbraio 2018)





L'ultimo Paul Thomas Anderson è un regista che, al di là dell'ermetismo che riflette da sempre una sua condizione indissolubilmente autobiografica e che recentemente si è fatta sempre più accanita e solipsistica, sa ancora come incantare, ammaliare, e colpire inaspettatamente macerandosi all'interno di una materia organica in continua evoluzione come i suoi personaggi.

Le interpretazioni che sa ottenere, del resto, parlano da sé: questo suo film non fa eccezione; due candidature e altrettante collaborazioni con Daniel Day Lewis - dopo il magnifico There will be blood - cementano un'intesa autoriale fra due pesi massimi dei rispettivi campi artistici che riconoscono per simbiosi lo stimolo ulteriore dello sperimentalismo, dell'ambizione di una verità che deve ancora essere raccontata.

Phantom Thread è un film che vive ancora dei riflessi luminosi della Los Angeles dagli incontri misteriosi di Inherent Vice e dei dualismi violenti di Punch Drunk Love e soprattutto The Master: Woodcock è il prestigioso e controverso sarto proprietario di un atelier di alta moda nella Londra aristocratica del dopoguerra il cui intuito si posa su una dolce e malleabile cameriera di carattere semplice ma orgoglioso.

È sempre interessante in un film di PTA stabilire in quale punto due personaggi si vengano a trovare nella loro interazione per poi vedere in che cosa si sono trasformati, quali reciproci cambiamenti ne hanno tratto. Woodcock è un personaggio che nelle mani da demiurgo di D.D.Lewis acquista un fascino come di un Pigmalione e sono proprio le sue mani, quelle che studiano, prendono appunti, cuciono, tessono, a modellare come seta o pizzo la sua "Eliza", fino a controbilanciarne la personalità.

Woodcock è un personaggio enigmatico, che rasenta la perfezione maniacale delle forme e dello stile, che insegue un assoluto, che veste le apparenze e stratifica le esteriorità delle persone intorno a lui perché calzino nelle sue rigide e schematiche definizioni umane; è un personaggio di rabbia e depressione che reprime le innervature psicologiche di un ego violentato dalla perdita della madre - verso cui tutto tende. Anderson coglie queste sfumature come se utilizzasse una nuova serie di accenti e toni, o di colori, per permettere ai suoi due personaggi di accedere a un nuovo registro di sensazioni; il suo film non è sempre evidente nel suo linguaggio, ma affiora tuttavia una consapevolezza evidente di reciproca necessità, come di un ideale artistico che alimenti la metafora attraverso la sua ricerca.

Supponendo che nel lavoro di Lewis si trovi un'estensione simbolica di quello del regista, si potrebbe quasi affermare un audace parallelo: è come se PTA si riconoscesse in questo mostruoso, impermeabile, imperscrutabile maestro tanto prevedibile nella perfezione tecnica quanto incapace di sostenerne il genio, di darne conto a se stesso. Si trova in questo limbo emotivo, perennemente bloccato nella catatonia di una memoria traumatizzata, e trova questo solidale sostegno in una donna che d'altra parte non ha altro che gli interessi se non l'amore inspiegabile, a tratti unilaterale, per quello che è un uomo drogato dai demoni interiori, troppo assuefatto all'idea di sé per restituire qualcosa che non sia una distanza ponderata.

Non si arriva mai veramente a un punto in questa perversa relazione che procede nel senso di una regressione infantile e mutuamente sadica, ma c'è tuttavia da parte dei personaggi un profondo senso di smarrimento l'uno nell'altro, una assurda - ma non per questo meno bella - edificazione di fiducia reciproca che conforta il fondo acquitrinoso del discorso di Anderson: questo è il solo modo in cui può funzionare, in cui tutto assume un senso, ogni pezzo trova il suo posto.

Il rigido contegno che accompagna tutta la lenta costruzione del film - dalle raffinate soluzioni visive al linguaggio del corpo estremamente affettato, ricercato - si placa solo davanti all'imprevisto, mai così inviso come quando si pone tra l'Artista e la sua creazione mettendone in risalto le insicurezze, e quindi interrompendone il flusso dei pensieri, minandone la rigidità della forma. È il "fanciullo interiore", quello mai dimenticato ma abbandonato nel subconscio all'ombra di chi ora fa luce, a dover uscire per trarre via da sé quel controllo che va necessariamente allentato; è un film sulle vulnerabilità di un amore che richiede una calma contemplazione interiore e un lungo e paziente lavoro di intaglio, in cui la convenzione è derisa in un impeto di ribelle autoflagellazione per esplorare la dinamica del processo umano: dal Freddie Quell di J. Phoenix, reduce traumatizzato dalla guerra e afflitto dal ricordo deluso della ragazza amata, che si sottoponeva alla terapia di regressione del Master Lancaster Dodd, al Maestro che deve egli stesso ritrovare quella voce interna e per guarirsi deve stare male e quindi autorigenerarsi.

Il ruolo sacrificale di Alma sarà, ancora una volta, quello di completare l'uomo ma soprattutto di integrare la visione dell'Artista perché questi possa riconoscersi nella sua stessa arte; il segreto sarà, da parte di quella donna, diventare essa stessa non tanto la Musa, quanto effettivamente la creazione, farsi plasmare nell'immagine materna così che l'artista possa amare la propria creazione, amare e ricongiungersi con quella parte di sé che crea e che giace, quiescente, nell'oblio doloroso per poi inevitabilmente risalire come un fiotto di bile. Il suo ruolo sarà salvarlo da se stesso.

Non è un film facile, quello di PTA, né un film in cui sia emotivamente semplice penetrare, ma parla con gli occhi dei suoi attori e possiede una semplicità intrinseca nelle sue inquadrature che parla più di mille parole; meno sofisticato (ma anche meno ironico) certamente del precedente Inherent Vice, il rapporto duale torna al centro del discorso come lo era stato più o meno in tutti i film precedenti da Magnolia (escluso) in poi. Dove andrà da qui in poi, il multiforme genio di PTA non è dato saperlo, ma sarà un piacere come sempre essere lì ad aspettarlo.


The Shape of Water

132 - The Shape of Water (febbraio 2018)





Dire che Del Toro ama raccontare storie grottesche e straordinarie sembra un eufemismo (del resto è sua la frase «mi piacciono i mostri, mi identifico in loro»), come d'altra parte superfluo sarebbe rimarcare il suo feticismo per il cinema in quanto tale, specialmente horror, e il suo legame con il simbolismo che trascende la vicenda di carattere storico; e così non sorprende molto che la sua nuova fatica sia una rilettura fantasiosa del periodo culminante della guerra fredda (la corsa allo spazio) in cui il cinema era fortemente caratterizzato dalle escrescenze mutagene che la bomba atomica aveva fatto ramificare nel subconscio collettivo, provocando una ridondanza (per lo più dozzinale) dei cosiddetti monster movies.

La creatura che viene dall'acqua e ne simboleggia la vaga, confusa forma, il suo significato allegorico, porta in effetti le sembianze di quell'altra Creatura, quella della laguna nera (datata 1954): se quella, mutazione mostruosa da abbattere a vista poiché aberrazione di una scienza mortificata dal senso di colpa per il disastro guerrafondaio, si nascondeva fra le profondità acquatiche e rapiva la ragazza, qui con un risvolto ironico è la ragazza a "rapire" il mostro, un mostro marino che sa adattarsi all'ambiente terrestre ma che lentamente soffoca in un lamento di schiavitù.

Se lo scenario anni '50, con i suoi complotti spionistici fra agenti segreti, le elaborate scenografie, gli oggetti di scena, la grafica pubblicitaria, la televisione, i musical, il razzismo e le altre piaghe sociali, la repressione sessuale... è la tela, Del Toro agita poi il pennello della sua fantasia per dipingere una storia d'amore che concentra i suoi più ampi sforzi nel film così come in Pan's Labyrinth la dissociazione mentale della piccola protagonista era al centro del discorso, dove Del Toro è sicuro di trovare il suo cuore pulsante.
Riesce a metà nel suo intento visionario e dopo averci fatto immergere nelle bellissime e calme atmosfere del film, fallisce nel dargli una vera e profonda sostanza, con questa storia che è un po' favoletta furbetta alla Spielberg e un po' favoletta sotterranea alla Jeunet-Caro (forse il debito più ovvio); una storia fra due persone "mute", sole, estranee che riescono a trovare un loro linguaggio unico e personale nella mimesi di un amore che possiede la forza vitale dell'acqua, talmente abbondante, talmente ubiqua che la sua pressione deve in qualche modo farla affiorare.

Questa forma è la forma umana, quella che in noi si afferma quando "sentiamo" e non ci limitiamo a sopprimere il diverso, quando gli impulsi naturali (come il risveglio erotico) trovano sfogo, quando il vero amore sconfigge, insomma, il male di un'umanità negletta e isolata in compartimenti stagni.
Ma per dirla tutta, è una fin troppo facile operazione commerciale quella che Del Toro compie sul proprio materiale, rivisitando ogni possibile cliché cui peraltro fa riferimento diretto solo per ribadire un'ovvietà di troppo in un contesto che forse, da artista messicano, conosce troppo superficialmente per essere interessato ad elaborarne una versione più approfondita del semplicistico "buoni buonissimi e cattivi cattivissimi".

In questo sogno acqueo che scorre e sfugge all'analisi della realtà, alimentando le venature porose dell'amore e lasciando letteralmente marcire i tessuti di chi si fa dominare dall'odio, si riafferma il senso di una parabola manichea stracolma di metafore stilizzate e di facile assimilazione per le masse generaliste che vogliono qualcosa che confermi le loro aspettative più scialbe, mentre pur non scontentando i cinefili (un film di Del Toro non può farlo per definizione) limita questi ultimi ad una superficie affascinante ma alla lunga opprimente, abbandonandoli ad un lento annegamento nell'oceano della retorica sentimentalista.

Visivamente ipnotico, con quel suo ricorso manifesto e ossessivo per il color "foglia di tè" che riempie lo schermo fino a farne una sorta di acquario umano, quasi un tableu vivant, Del Toro utilizza assai bene la regia per spostarci all'interno di queste dimensioni originate dalla sua fervida immaginazione riuscendo al contempo, come sempre, a teletrasportarsi fra i passaggi che solo lui vede fra sogno e realtà, ma gli va dato soprattutto il merito di aver creato nel laboratorio delle immagini che fanno di lui lo scienziato post-moderno del monster movie del nuovo millennio, una delle creature più "umane" e veritiere si potessero ottenere dall'integrazione ineluttabile fra computer grafica e film che il progresso ci mette davanti: la sua creazione ci restituisce lo sguardo alieno e ferito che troppo spesso vorremmo dimenticare ma che dice di noi, come razza, più di quanto vorremmo ammettere su noi stessi, di chi viene lasciato indietro per colmare pseudo-illusioni collettive intercettate da chi le strumentalizza per mantenere il potere.

Sally Hawkins, muta come la sirenetta di Christensen, si staglia nei contrasti tagliati con la scure del film con le movenze dolci e aggressive di una novella eroina di genere, ricorrendo a tutta la sua espressività per dare anima ad un personaggio che è come la proiezione della "sua" creatura, anche lei così bisognosa di identificare se stessa con una forma che le dia la consapevolezza di quello che scorre nelle sue vene. Del Toro non fa molto per renderla psicologicamente più interessante di così e in sostanza, la sensazione conclusiva è quella di un film che non conosce via di mezzo: o lo senti oppure no; o lo ami o lo odi.



venerdì 2 marzo 2018

Call me by your name

131 - Call me by your name (febbraio 2018)





Elio è il figlio di un professore accademico e cresce in una famiglia ebraica cosmopolita e aperta alla multiculturalità della riviera ligure dei primi anni '80; naviga in questa specie di Torre di Babele in cui non ci si scambia più di una frase nella stessa lingua alla volta, dove i tabù sono caduti insieme a quelli dell'Arte che li circonda completamente formando un tuttuno con la Natura, dove si discute di tutto, dalla politica al sesso, dove la musica pop (Psychedelic Furs, Talkin Heads, Battiato) convive con la musica classica.

Il viaggio di formazione di Elio si consuma in una classica estate fatta di avventure accolte con la mente aperta e quindi quantomai confusa di chi, ovunque si guardi intorno, scorge il favore della diversità, delle occasioni da non sprecare e dei confusi modelli a cui rifarsi nel tentativo di creare la propria, di identità.

In questa insistita allusione che Guadagnino protrae in un desiderio tanto romantico quanto proibito nel momento in cui fa entrare in scena Oliver, uno studente in visita presso la famiglia che ricambia l'interesse di Elio nonostante sia molto più grande di lui, il film si sposta sempre più sottilmente e inesorabilmente dal chiuso ombroso degli interni (che conservano il cuore delle discussioni, delle intellettualizzazioni, del "sapere" che però è, appunto, "all'oscuro" di cosa esso significhi concretamente) alle tentazioni e ai colori caldi del giardino estivo, pieno di luce e fitto di una prosperità naturale, giunonica, che lo fanno sembrare l'Eden biblico.

E il film è veramente tutto qui, nella sua massima semplicità naïf: Guadagnino ottiene dalla sua coppia di protagonisti una serie di understatement che si legano bene alla delicatezza delle musiche, ai toni morbidi della fotografia e ai silenzi della regia che inframezzano gli atti di voluttà e realizzano il desiderio logorante dell'attesa, ma (o forse "quindi") non c'è praticamente alcuna tensione se non quella legata allo spontaneo valutarsi di due poli che si attraggono proprio perché diversi e intangibili se non fosse per quel piccolo segreto, quel mistero che entrambi portano con sé.

In quest'idea minima e minimale, in cui i gesti d'amore si specchiano sulle immagini di adoniche sculture greche e i libri avidamente ingialliti vengono ammucchiati davanti al "peccato" originale del coming out (difficile psicologicamente perfino in una famiglia così liberale e progressista), l'atto vero e proprio non è che una rivoluzione liberatoria esplosa in un risveglio di vita, perciò anti-intellettuale, e distaccante dal resto del mondo che infatti, dopo, sfiorisce di tutta la sua importanza, impallidisce letteralmente, e prende lo sfondo dell'immagine con quella finestra che rivela l'inverno di neve ed Elio, in primo piano, che deve elemosinare la luce del camino, ormai troppo consapevole del frutto della verità per potersene liberare come fosse stata tutta una semplice fantasia ad occhi aperti.

Nel titolo si cela la sua più simmetrica (e quindi una volta di più "Greca" nel senso antico e classico) rivelazione: Elio diventa Oliver e viceversa dando vita a una confusione-ordine di identità sottolineata da Guadagnino attraverso la posizione della macchina, i cangianti schemi cromatici e l'uso degli spazi negativi.

Il film procede come un sogno di mezz'estate, Puck assume le fattezze di quest'illusione tanto irresistibile da guardare quanto, appunto, fatta della stessa concretezza di ciò che è ideale e impossibile. Anche Guadagnino riesce in buona parte a camuffare le sembianze del suo film mantenendo una distanza rispettosa ancorché impalpabile, finché non si fa anche lui tentare dal finirci dentro spiegando ciò che non richiede di essere spiegato. Il suo lungometraggio, frutto di una produzione internazionale, sa di una commistione calcolata che possiede la stessa enigmaticità delle facce dell'Arte ma a cui manca, forse, un elemento veramente innovativo e coraggioso per dirsi tale.


giovedì 1 marzo 2018

Three Billboards outside Ebbing, Missouri

130 - Three Billboards outside Ebbing, Missouri (febbraio 2018)





McDonagh sa come prendere il suo pubblico. Sa cosa dargli in pasto, sa come manovrarne le emozioni, raramente si prende troppo sul serio e consapevole che niente è solo bianco o solo nero sa tuttavia farne convivere gli estremi in modo più che complementare.
In questo suo film gargantuesco e quasi dantesco, dove al contraltare dei toni fa da eterno sfondo una tragedia privata fin troppo drammatica e realistica per non catturarci nelle sue viscere, che poi ne precede o ne causa altre come in un domino surreale e incontrollabile, a svettare, più su ancora della formidabile recitazione (McDormand su tutti) e dell'inventiva/invettiva della scrittura, è l'alchimia che si crea da qualche parte in questa combinazione e ci restituisce dei personaggi talmente assurdi da non poter essere che veri.

Non importa quanto meschini o spregevoli, i personaggi di questo film sono tutti gloriosi. Li vediamo per quello che realmente sono, questo è il più grande miracolo di McDonagh in un film miracoloso di per sé: potremmo non condividere, diciamo, il 95% di quello che dicono o fanno, ma quando lo dicono o lo fanno sappiamo al 100% che le loro motivazioni sono reali, autentiche, e tragiche; sappiamo che in un qualche modo, difficile per noi da ammettere, le loro azioni hanno un fondamento non solo logico ma di ragione. Lo intuiamo al primo colpo e ce lo conferma quello che perdono per strada. E allora ci spingiamo ancora più in là e ci facciamo attraversare da questo agglomerato di rabbia, risentimento, ingiustizia, violenza, vendetta; amore e distruzione.

Sono personaggi inconsolabili e feriti che non si piangono addosso ma tentano di reagire (come diceva Richard Bach: «le cose brutte non sono le cose peggiori che possono capitarti, il nulla lo è») e lo fanno ovviamente nei toni farseschi e irrimediabili del black humour, come se le conseguenze fisiche non facessero poi tanto male o lasciassero segni tangibili di sofferenza... la sofferenza è infatti interiore e restituisce la misura di un'impotenza che è così emblematicamente, beffardamente, provocatoriamente rappresentata da quei tre manifesti allineati in fila in una stradina ormai "solo per idioti o ciechi" (tale è chi crede ancora alla giustizia) a Ebbing, Missouri; manifesti che nessuno vuole ma che tutti finiscono in qualche modo per salvare dalle fiamme dell'inferno, perché nessuno vuole veramente dimenticare e allo stesso tempo nessuno sa, con lucidità, che cosa fare. E sottopelle si cela una profonda connivenza, come se nella piccola comunità tutto fosse saldamente annodato assieme.

Questo film è puro istinto, sregolatezza, è il movimento e l'azione da cui scaturiscono conseguenze con cui, anche se a fatica, ci si può regolare - mentre il vuoto dell'inazione si allarga e cancella le persone da dentro piano piano.
Eppure lo vediamo, lo vediamo che guardando nel fondo delle loro anime, non ci sono solo le maschere apatiche, violente, menefreghiste, idiote, razziste che ci appaiono davanti agli occhi, ma che in loro brilla la luce di un'intelligenza umana che li riscatta e che li muove verso una rassegnazione più tenue, anche se non meno precaria. Che li spinge, più importante di ogni altra cosa, nelle braccia dell'altro come atomi impazziti bruciati da troppa pressione; finché il peso da portare non viene distribuito meglio.

Il film parla del rancore nei confronti delle ingiustizie della vita, quelle che non hanno colpevoli (o che hanno colpevoli assenti) ma che proprio per questo hanno bisogno di trovarne uno... e parla di amore e perdita, di un'indifferenza che esige di essere sanata frenando il cuore e azionando i recessi più remoti del nostro cervello, di fare leva sulle emozioni più viscerali... è un film che si sente vivo perché è dannatamente vivo, che deve ricordarsi di quanto è vivo dal momento che tutto quello che c'è intorno sono silenzio e strade deserte.
Ma allo stesso tempo è un grido di allarme, un appello alla ragione: se qualcuno che vive fra noi sta male dovremmo anche noi stare male; dovremmo sentire qualcosa, un senso di colpa se non di responsabilità e aiutare; la campana suona per noi.

Mildred Hayes, la madre della ragazza violentata e uccisa, apre questo teatro di (spettacolarizzata) violenza additando le forze dell'ordine (mentre sfrutta una compagnia pubblicitaria e la TV); queste ultime si rifanno sugli impresari pubblicitari. Proprio mentre la logica del prevedibile processo si mette in moto, il genio di McDonagh è quello di imitare la vita e ridefinire la nostra presunzione, è quello di trovare nell'imprevisto dell'imprevisto il fondamento tautologico della condizione umana di fronte all'ignoto.
È anche un film che spiega cosa significhi giudicare ed essere a propria volta giudicati, di come affrontandone le complesse implicazioni, possiamo smettere di esserne ossessionati e arrivare a una sensazione il più vicina possibile a un surrogato senso religioso di conforto.

Il microcosmo della polizia di provincia che sorveglia strade in disuso, fra incompetenza e umorismo grottesco ma capace anche di slancio emotivo; il divario fra cittadino e senso di giustizia, fra cittadino e figure d'autorità (o presunte tali) e all'interno della famiglia stessa; fra persone che si sentono diverse fra loro e quindi ostili... sono tematiche qui così scrupolosamente scandagliate, percorse da un'elettrica ilarità, che non puoi fare a meno di chiederti: cosa li tiene insieme? Perché questa gente non si ammazza veramente, anziché limitarsi a provarci di continuo?
Perché hanno così bisogno l'uno dell'altro?
A volte una lettera, una semplice lettera cambia tutto.

La sceneggiatura, oltre che brillante ed eccentrica come tutta la produzione di McDonagh, ha dei picchi di assoluta, stupefacente perfezione, come se le improbabili giocate che estrae dal cilindro fossero matematicamente esatte, al posto giusto, dove altro non si potrebbero immaginare.

Parlando della colonna sonora: Burwell è un vecchio lupo di mare che non delude mai, e sembra solo un altro dei tanti grandissimi Coeniani di lunga data in quello che è un film che ha molto in sé dell'epopea Coeniana (il paragone ultimativo con "Not a country for old men" è quello più pertinente), ma la cucitura dei pezzi recuperati come in un pastiche dalla pop culture da parte di McDonagh per asservire l'impatto emotivo devastante delle scene madri a cui dà vita (su tutte quella in steadicam con Rockwell) è, semplicemente, da mettere i brividi.

Il finale è poi intelligente, sensibile: senza mancare di rispetto, rinnegarsi o dare prova di cancellare il dolore, riconcilia con l'inizio di un lungo dimenticare e spezza maledettamente il cuore il modo in cui quell'auto scivola via lentamente lontano dalle nostre vite.
La prossima fermata sarà forse l'Iowa o probabilmente il nulla, ma una cosa qui è certa: il cinema non è morto e Three Billboards è lì a provarlo.




mercoledì 28 febbraio 2018

Get Out

129 - Get Out (febbraio 2018)





Chris è un ragazzo di colore che frequenta Rose, una ragazza bianca. Tutto sembra essere perfettamente normale e "moderno", finché quest'ultima non lo invita a conoscere i suoi genitori.

Ammiccando in chiave parodistica a "Guess who's coming to dinner" (il padre della ragazza è talmente speculare a quello dell'altro film da ostentarne peraltro l'evidenza attraverso le sembianze così simili a quelle di Spencer Tracy) da cui riprende l'idea centrale per farne il padre di tutti i pregiudizi più o meno sottilmente presi di mira per tutto il film, nel suo melange tragicomico, Jordan Peele fa il suo esordio registico con quello che è, nella sua facciata esteriore, un Horror vero e proprio, con tutti i punti narrativi e gli stilemi al posto giusto, ma che, forse per sfida intellettuale forse per provocazione divertita, vuole in realtà farsi misurare dallo spettatore, essere decifrato per tenere un punto socialmente rilevante.

Se da un lato Peele costruisce una prima parte che scava nella paranoia del "maschio bianco" ancora così radicata nella mentalità afroamericana (l'idea di conoscere i genitori della ragazza, il poliziotto sospettoso), sembrando indulgere in senso ironico sulla facciata superficiale che ancora governa la questione del razzismo nell'ovvia America (ma non solo) in cui camminare nel posto sbagliato ha ancora delle conseguenze quando si tratta di giustizia sociale e uguaglianza sostanziale, fino a raggiungere un parossismo di inquietudine che, mediata dagli occhi critici e scettici di Chris, sfocia nel delirio di un incubo allegorico rivisitato dai fantasmi di quegli stessi anni '60 (di Guess who's coming to dinner) in cui nel pieno dei civil right movements si diffondeva l'usanza nei circoli borghesi progressisti dei bianchi di accompagnarsi a persone di colore solo per sfoggiare uno status symbol, fino a raggiungere i giorni nostri della diversity e del politically correct, dall'altro invece Peele ci porta nella astratta concretezza che quei gangli apportano alla mente del suo protagonista "fuori posto", figurativamente e letteralmente plagiata, quindi (quasi) asportata, quindi tenuta a bagno nella ridotta coscienza che vuole il Nero come osservatore esterno della realtà creata da altri (il bianco suprematista che nel suo delirio di onnipotenza superomistico vuole farsi impiantare il cervello del ragazzo per vedere attraverso i suoi occhi) e mai come persona nel vero senso della parola.

Chris è infatti molte cose: lo stereotipato feticcio sessuale della ragazza bianca; un potenziale criminale agli occhi della polizia; il trofeo da esibire da parte della famiglia benpensante e bigotta e con cui potersi vantare di "aver votato per Obama" mentre ci si fa assistere da una servitù di colore; l'estensione di un capriccio genetico che lo vuole più dotato del maschio bianco che per questo gliene chiede conto, eccitato dalla curiosità; un trait d'union di immediatezza dialogica fra il Domus e la sua attrazione (Tiger Woods-Golf), e via dicendo. Non esistono altri tipi di contatto.
Ciò che invece contraddistingue Chris come una persona più ampia della serie di stereotipi cuciti sul suo colore della pelle, ovvero l'hobby della fotografia (che somiglia molto a un'estensione del lavoro di J. Peele), è proprio quello che risveglia attraverso i suoi flash dei barlumi di coscienza (in lui e nei neri ancora "schiavi" di quella condizione passiva, succube). Similmente infatti, Peele fotografa la sua realtà vista dal punto di vista di Chris, la voce interna del suo film: poiché le due visioni sono incompatibili, è Chris, e quindi i suoi occhi, e quindi la soggettiva del film a soccombere davanti al tentativo di manipolazione (la TV è qui il medium borghese, il Cinema implica un atto riflessivo e forse rivoluzionario).

Se, quindi, al termine di questa sottile, sarcastica, satira politica che rivolge contro il classismo dei white liberals i loro stessi preconcetti smascherandoli della loro ipocrisia (ovvero: dietro a ogni bianco con il potere - soldi, posizione, fama - che si mostra tollerante si cela un potenziale pericolo di razzismo), Chris è colui che viene riscattato non tanto dall'intervento salvifico di una pattuglia, espressione della Legge (che, se fosse stata quella precedente, avrebbe comportato e in effetti comporta un altro pre-giudizio secco, del tipo: "secondo voi, vedendo quel ragazzo di colore fra una scia di cadaveri, a chi avrebbero creduto?") ma dalla consapevolezza unica di poter uscire da questo cortocircuito soltanto attraverso l'abluzione dalle fonti di inquinamento che continuano a sporcare, a intercettare il pensiero di un vero progressismo, che non si limiti ad un lavaggio del cervello come quello operato dall'immondizia che la TV "progressista" spaccia ad uso e consumo popolare, dal giornalismo e dalla politica, formalmente diversi ma sostanzialmente uguali una volta chiamati alla sbarra degli imputati.
E allora, allo stesso modo, formalmente e sostanzialmente, Tragicommedia, Orrore e Dramma diventano ugualmente colpevoli di coesistere nel sistema USA.

Chris trova (e cerca) assistenza solo fra i "fratelli", perché solo di loro capisce di potersi fidare, finché l'amico Rod, comicamente relegato alla macchietta di un agente antiterrorismo di poco conto che si improvvisa detective e accorre in un ironico last minute rescue come la cavalleria di The Birth of a Nation, non lo salva dalla prospettiva di finire come gli altri personaggi di colore che vengono "attivati" per ribellarsi contro di lui come cani (a conferma di un White Power ormai giunto alla tracimazione di un sentimento più o meno clandestino e cucito fra le pieghe del sistema di pensiero dominante).

Se il Nero da una parte è ipnotizzato (letteralmente dalla madre psicologa, e per via astratta dalla TV, per poi finire lobotomizzato, numero da circo) e dall'altra è nel suo "Sunken Place" (idiomatico per indicare uno stato di torpore rispetto a una generalizzata condizione di iniquità), il Bianco è invece ben consapevole di quello che fa anche (apparentemente) quando non lo sa, nella lezione di Peele, e in un modo o nell'altro esiste una qualche oscura intersezione fra chi "means well" (ha buone intenzioni) e chi, meno velatamente, vuole controllare e manipolare quelli che non ha mai smesso di considerare i suoi schiavetti neri a tal punto da trapiantare parti di essi per rinnovare l'inclinazione colonizzatrice; niente più di una semplice curiosità morbosa da esaltati, quindi, è quella che lega il Bianco omertoso e connivente, dignitoso ma che non vede al di là del proprio naso e non muove un dito per cambiare la situazione al Bianco suprematista che con il tacito consenso del primo amministra il sistema a proprio intendimento, educa e manipola le coscienze con il suo predicozzo, cieco davanti a quel che è diverso da lui; mantiene i suoi privilegi con il fine non troppo sottile di eliminare le minoranze una ad una rendendoli meri oggetti d'arredamento, come è destinato a fare anche il primo se non esce da quella colpevole oggettivazione.

Se sei uno spettatore passivo sei colpevole, se ti poni delle domande forse hai qualche speranza; intanto, però, l'unico bianco buono è un bianco morto, pressappoco.

Esistono, cioè, cinquanta sfumature di razzismo, ma sempre razzismo si chiama: «It's not what he said, it's how..."», come dice Chris, a poco a poco alienato dal senso di panico che si fa strada dalla premessa di una razionalizzazione concettuale mutuata dall'espressione dominante di un razzismo che ha smesso di chiamare le cose con il proprio nome solo per alludervi in codice (e senza affatto rimuovere il problema semantico) e che si conclude con una destabilizzante esclamazione: "Get Out!", il richiamo finto-ironico ultimo di una lezioncina troppo didattica per essere digerita insieme anche alla sua scorza orrorifica e allo stesso tempo non abbastanza perspicace da sostenere l'originalità del suo impianto; un film che, nel nobile tentativo di far riflettere (e insieme ridere in modo intelligente) su ciò che ancora ci separa da una coscienza comune e condivisa sul razzismo, finisce per inciampare accidentalmente su un'angolazione tanto manichea e vittimistica che svilisce il suo stesso punto argomentativo.



martedì 27 febbraio 2018

Dunkirk

128 - Dunkirk (febbraio 2018)





Dunkerque, l'operazione di salvataggio "Dynamo" delle truppe britanniche bloccate sulla costa francese sulla Manica entrata nel vivo nel maggio 1940, narrata da Christopher Nolan (per la prima volta anche alla sceneggiatura solista, senza il fratello Jonathan), si trasforma in un'operazione altrettanto colossale fra le mani del regista inglese, che come di consueto intreccia più linee narrative per dare quel senso di tridimensionalità, di spazialità che è comune a tutte le sue opere più titaniche.
Qui seguiamo le vicende su tre piani: il Molo (dove i soldati attendono il loro turno), il Cielo (i piloti di caccia che ostacolano i bombardamenti dell'aviazione tedesca), e il Mare (dove le imbarcazioni stanno cercando di trarre in salvo i soldati).

Strano a dirsi, ma nonostante questo film dica molto più con l'"arsenale" tecnico a sua disposizione, con montaggio, sonoro e musiche (che dominano ampiamente su tutto il resto) di quanto non facciano i suoi stessi personaggi, questo film smussa però i toni - se non trionfalistici, dal momento che qui è naturalmente impossibile trovarne - sopra le righe che normalmente i film di guerra ricevono.

Perché è in effetti un film di sopravvivenza, quello di Nolan, ed è uno strano film di guerra: i ragazzi di cui narra sono pedine in uno scacchiere più grande e lo sono in almeno due sensi (quello più ovvio e secolarizzato, ma anche quello che fa riferimento al disegno politico per il rilancio dell'ottimismo in patria); sono fin dall'inizio esuli in terra straniera, in lenta fila per una ritirata che è dipinta di vergogna e umiliazione. Non c'è fra loro alcuna traccia di spirito di fratellanza o cameratismo (anche fra soldato francese e inglese c'è una distanza insanabile); una desolante rassegnazione li spinge a individualismi egoistici; una sensazione di pericolo costante che, dall'alto del cielo dominato dai caccia che si neutralizzano nella più completa inespressività si estende fino alle profondità silenti del mare minacciato dai sottomarini, aleggia per la sua intera durata; i toni grigio-bluastri della fotografia immortalano una specie di maelström, sovrastato da uno scenario offuscato in una coltre di fumo, nebbia, bombardamenti; dalle coste Francesi è visibile, come un punticino in lontananza, la costa Britannica, e le speranze sono legate anche all'aiuto disperato di soccorritori civili per portare a termine l'evacuazione.

Nolan racconta una serie di episodi che, più che come un film, sono legati fra loro da un'idea prospettica, quasi geometrica o matematica, la cui freddezza glaciale, a differenza dei suoi film precedenti, si accorda con una certa onestà alla materia narrativa e al modo in cui le viene data forma, ma a torto o ragione propone solo uno sguardo osservatore e nulla più. È un film quasi impenetrabile, in cui i soldati (completamente de-umanizzati, anti-eroici, in un film antimilitarista) non possono fare altro che compattarsi, aspettare e sperare, bloccati nello spazio dei loro abitacoli, nel tempo della loro attesa, e nel vuoto emotivo che li spinge più di una volta a mettere il proprio interesse davanti a quello dei fratelli in armi.
Il regista combina questi due elementi, sospingendo silenziosamente la materia drammatica sotto il tappeto formalista della regia, pregando che la sensibilità dello spettatore (se pure a Nolan interessa) ne venga in qualche modo toccata, che qualcuno riesca ad annodare le opacizzate vicende personali con le precisissime acrobazie della battaglia.

Nolan spiega nei crediti conclusivi di aver dedicato il film a coloro la cui vita fu segnata da quegli eventi. Appena prima, il contrappunto finale, quando i soldati umiliati vengono accolti in tono trionfale nei postumi del celebre discorso patriottico di Churchill, è il sigillo naturale di un film che ha rifiutato per tutto il tempo una retorica stantia che non fosse quella di chi è qui per Nolan il vero eroe della situazione (chi prestò il proprio aiuto senza averne un obbligo che non fosse quello prodotto dalla coscienza - la vicenda del ragazzo e del padre a bordo dello yacht) e che continua a opporre il suo sguardo tetro, crudo, dallo spettro esistenzialista ad ogni altra sovrastruttura moralistica o, peggio, militarista.

Le musiche del solito Zimmer, scarne e minimali, ancorché onnipresenti e orientate a una tensione altrimenti irraggiungibile con i soli mezzi della regia, si incollano alla fotografia gelida di Van Hoytema (Interstellar, Let the right one in) e cementano un consorzio di intenzioni che restituisce una visione tanto sinistramente spettacolare nel processo quanto apatica, vuota nella sostanza; probabilmente quello che la guerra, vista dal vivo, davvero è.

Nolan rifiuta determinati cliché da Melò, ma ne impone di propri (come il ricorrente e qui del tutto inutile ricorso alle linee temporali, la finta partecipazione e il patetismo nei confronti di personaggi mal costruiti, la prospettiva multipla, la lotta interiore per capire cosa è vero e cosa non lo è...) che producono uno strano film, che non è né il Nolan classico fra azione e intrattenimento i cui personaggi, pur bidimensionali e cupi, offrono un esplicito territorio di empatia, né un Nolan che voglia definirsi sulla base di un ipotetico e rispettoso neorealismo poiché trucca e stordisce qualche volta di troppo, assorbito più dalle dinamiche della battaglia per occuparsi degli effetti sui suoi personaggi, alienato egli stesso, incapace di estrarre dal cilindro alcuna immagine di vero impatto da ricordare dopo il film, e per un film di guerra o contro la guerra (specialmente in quest'ultimo caso) è abbastanza grave.

Quasi come se il film, in sintonia con il suo contenuto, tentasse di salvare se stesso in extremis, è in parte il finale che lo riscatta da una lunga e lenta catalessi, appunto un tipico sogno Nolaniano, per trovare al risveglio una stordente, sfocata satira della condizione del soldato, un'indolente presa di coscienza scavata nei toni pseudo-umanitari del messaggio; ma un film di guerra (per definizione un genere che apre infinite parentesi metaforiche e critiche) che deve ricorrere a questo espediente, sostenendo una morale abbastanza stiracchiata per far filtrare nell'opera qualcosa di umano, è per davvero un film che spera in un miracolo: che ce lo si faccia bastare.

lunedì 26 febbraio 2018

Darkest Hour

127 - Darkest Hour (febbraio 2018)





Uscito curiosamente nell'anno in cui anche un film come il "Dunkirk" di Nolan tratta di uno dei temi storici della seconda guerra mondiale che videro per protagonista la fondamentale mediazione strategica di Churchill, The Darkest Hour si può però difficilmente considerare un film "sulla" guerra; è piuttosto un film su un uomo che si ritrovò a dirigere quella guerra perché finalmente nel suo elemento naturale, in quello che è un primo segno quasi metatestuale del film.

Proprio nel momento in cui l'esercito alleato è messo alle corde dai tedeschi che lo spinge verso la costa francese e l'invasione nazista a Francia e Gran Bretagna si profila nella sua concretezza, il paese è immobile nella sua ingovernabilità interna, debole e vulnerabile ma anche determinato a reagire.

Un po' thriller politico ma soprattutto un grande studio sul personaggio, il film segue le convulse ore di quei giorni decisivi del 1940 che divisero l'Impero Britannico fra l'idea di una stolta e tenace resistenza contro una capitolazione che sembrava inevitabile e la resa condizionata. È la voce di quell'ora più buia, di quel paese, e insieme di quel blocco mondiale che si oppose all'avanzata delle forze dell'Asse di Hitler a trovare se stessa, identificandosi nella voce di un altro uomo forse a ben vedere non poi così tanto diverso da Hitler stesso: entrambi più personaggi che persone, entrambi largamente osteggiati e temuti, entrambi così caparbi nel muovere all'azione le folle, entrambi così orgogliosi e riverenti del proprio ego e tetragoni alla voce della ragione.

Questa contrapposizione resta, per via figurata, nella mente durante tutto il film anche se tutto quello che vediamo è più che altro lo "one man show" di un uomo che è per lo più in guerra con se stesso; Oldman si prende il film e lo plasma fra i balbettii, le esitazioni, i suoni gutturali, i repentini cambi di umore e dei toni di voce, alternando i chiaroscuri e fornendo i connotati quasi bipolari di un personaggio che sa anche uscire dalla caricaturale immagine che la cultura popolare ci ha restituito per farne un uomo, con le proprie gravi incertezze e la propria implacabile, ostinata capacità di persuasione, con gli scoperti fasci di nervosismo ma anche l'inaspettato, sottile, a tratti fuori luogo senso dello humour. Un eccentrico predicatore in tempo di dubbio.

Guerra o pace, speranza o rassegnazione, perdizione o libertà. Wright cattura lo spirito di un intero paese in bilico (risolvendolo comunque in un finale un po' deludente che non possiede la freschezza della premessa) nella sua massima personificazione politica, patriottica e conflittuale, quella di un uomo incapace di capire se stesso fino in fondo, ma vincolato da un indissolubile bisogno infantile di essere accettato, e al contempo da un segno di maturo pragmatismo in un mondo aperto in due da teorizzazioni e sofismi.

Il film di Wright è una delizia per gli occhi ed appare tanto vivido, con le sue scenografie e le ricercatezze di una fotografia tutta luci e ombre, da galleggiare nella sospensione narrativa e nei ritmi di una regia scostante; le sue scelte registiche non sono sempre azzeccate e il film paga lungaggini e superfluità didascaliche che sembrano fare più male che bene al film e al lavoro di scalpello di Oldman, ma nella conduzione degli attori e nella messa in scena il definitivo occhio attento del regista fa la differenza nel permettere al suo protagonista di fare la differenza, in positivo e in negativo... non tanto per raccontare l'ovvio ma per rendergli in qualche modo una qualche giustizia.

Wright dirige il film con una devozione ipnotica per il suo protagonista, nei suoi primi piani invasivi e inquisitori che ne violano lo spazio vitale, nei profili accennati in controluce che lo ammantano di un alone di leggenda, nel creargli intorno distanze e spaziature visive insormontabili perfino nel chiuso degli angusti interni in cui il film è quasi interamente girato, e che riflettono quell'idea di un uomo comunque isolato dal comando, solo e solipsistico, refrattario e stagno a qualunque autocritica, e che tuttavia trova dentro di sé una vitalità carismatica che man mano riempie quegli stessi vuoti, unificando e riducendo le distanze, sostituendo l'amore con una cieca obbedienza.

Se il contesto storico fornisce un saldo sfondo entro cui muoversi per non deragliare troppo (ma l'incertezza dei confini in tempo di guerra genera a sua volta confuse coordinate all'esplorazione biografica), è anche vero però che i momenti migliori il film se li prende uscendo dal copione, disegnandogli percorsi alternativi, non senza cadere talvolta da un estremo all'altro, ma cercando almeno di rendere interessante la luce in cui ce lo propone, e in questo senso si può dire un film riuscito.



sabato 24 febbraio 2018

The Post

126 - The Post (febbraio 2018)




«L'unico modo di dimostrare il diritto di pubblicare è pubblicare»: dalle parole di Ben Bradlee (Tom Hanks), caporedattore del Washington Post, Steven Spielberg torna sulla storia americana, questa volta per prendere di petto lo scandalo del Watergate in quello che è un momento epocale per il paese, paralizzato dal dibattito interno sulla guerra del Vietnam e spaccato fra la sfiducia nel potere istituzionale e la battaglia per il diritto di stampa e quindi di espressione.

Dall'intenzione all'azione, dunque, come è prerogativa positiva dell'eroe dei diritti civili americano che Spielberg non può fare a meno di raccontare, lungo un processo che deve però scontare il superamento di diversi comprensibili ostacoli politici e giudiziari. A Spielberg più che l'approfondimento su un piano tecnico-documentaristico interessa il quadro generale, il lato più emotivo della ragnatela umana dalle cui mani passarono i delicatissimi dossier prodotti da una fonte che potremmo definire una figura antesignana di quello che sta accadendo ai giorni nostri.
Perché come quasi tutti i film di Spielberg, specialmente quelli più patriottici, le sfaccettature sono tali da rivestirsi immediatamente di metafora senza tempo, da fungere da ipertesto per leggere anche la situazione odierna: e allora non è tanto grande il salto d'immaginazione che porta da un Presidente che riuscì a corrompere e manovrare la stampa a uno che la schernisce e la intimidisce; o quello fra un culto della personalità (il riferimento a Luigi XIV) e un altro.

Il fatto è che Spielberg, che dirige un film tutto sommato abbastanza monotòno e privo di sorprese fino in fondo, lasciandosi attrarre dal fascino invecchiato della storia non tanto per un riesame di grande respiro quanto per riviverne i momenti cruciali (sottolineati dalla sua macchina da presa instancabile) nella speranza che non sfugga, più che la serie di eventi in sé, l'immortalità del principio fondamentale che è universale e che deve essere di insegnamento (qui forse parte del problema, la pedanteria didascalica), per quanto tenti di corroborare con elementi veri e realistici l'apparato del suo film, non riesce a fare a meno di dare una certa prevedibile impronta a quello che lo tiene insieme; non c'è niente di calcolato, è il suo spontaneo atteggiamento culturale a portarlo a credere in questo tipo di storia, in questo tipo di personaggi.
Ma allo stesso tempo, pur rinunciando a vedere questi stessi personaggi in una luce che non sia solo quella dei suoi occhi ammirati, dona loro una leggerezza partecipata quasi ironica e particolarmente umana che fa qualche concessione alla retorica ma sostiene l'empatia dello spettatore, come l'incredulità che accompagna alcuni passaggi ed ha apogeo nel racconto di come la questione più importante della moderna storia americana passi dalla decisione di una donna insicura e fuori posto finita per caso a dirigere un giornale di modesta rilevanza e in crisi economica, ad esempio.


Come molto spesso fa, Spielberg gioca sul contrasto prospettico: il piccolo spaccato della storia del Post, passato da giornale di famiglia a grande giornale vincitore di Pulitzer nelle mani di Kay Graham (Meryl Streep) e il più vasto interesse nazionale; il dettaglio della macchina da presa che segue le vicende dentro gli spazietti degli uffici della redazione giornalistica (l'obiettivo entra letteralmente dentro alle parole dei documenti, agli ingranaggi delle macchine da scrivere, alle rotative che annunciano le stampe) e il campo lunghissimo che inquadra un Nixon come una sagoma minuscola al centro di un immenso vuoto oscuro e silenzioso mentre va fuoricampo la voce delle registrazioni che inchiodarono l'ex presidente degli States al suo destino. Storie di uomini e donne rinchiusi nella propria dimensione, nella solitudine delle proprie scelte fondamentali, al muro delle conseguenze delle loro azioni, che si intrecciano e vanno al proprio posto come tessere di un mosaico, o meglio di una partita a scacchi.

Sebbene lo sguardo sia agevole e quasi al limite dell'inevitabile (necessariamente il punto di vista di chi conosce già l'esito finale), non manca al film una certa inquietudine paranoica, un'agitazione e un confuso dinamismo che si sovrappongono all'immobilismo delle riprese della Casa Bianca e in senso allegorico della situazione Americana. Se il vero eroismo si misura non già dall'assenza di paura ma dalla sua sconfitta, di eroico in questo film c'è poco perché non troppo calcato è il tasto della stessa; c'è più come un senso di pericolo, di indecisione, ma si perde quasi impercettibilmente nella fluidità dello spirito d'iniziativa e del senso di responsabilità che si lega a una santa vocazione e che come tale, non può mai essere sconfitta. Un'ingenuità romantica di cui il cinema Spielbergiano del resto è pieno.

Spielberg si avvale di un cast notevole, tutto particolarmente selezionato e variegato quel tanto che basta a dare al suo film accenti e toni naturali, una intensa multipersonalità che risponde a quell'eccitamento e quella sensazione di engagement vissuta dal paese alla metà degli anni '60 che volgeva al culmine dei movimenti per i diritti civili: le performance sono tutte molto buone, ma fra di esse quelle che spiccano di più e meno allo stesso tempo sono quelle femminili (Streep a parte): anche il ruolo della donna è infatti sotto esame, per quello che significava ieri e per quello che significa ancora oggi, là dove ogni singola figura femminile del film trova sistematicamente un ruolo marginale (la moglie di Bradlee, a casa ad aspettare mentre il marito fa la storia; la giornalista Meg Greenfield fuori da ogni discussione seria di una redazione in cui è l'unica giornalista donna e a cui sarà concessa la ribalta solo nel rileggere lo storico pronunciamento della Corte Suprema; la stessa Kay Graham che viene pungolata sull'orgoglio in ragione della sua inadeguatezza al ruolo, ecc.) che poi invece si rivela per qualche motivo centrale o funzionale al processo stesso (erano anche gli anni del femminismo).

Un affresco in stile period drama con cui Spielberg riafferma il potere della verità e della verità intrinseca della lotta per il diritto di conoscere la verità, e quindi della sopravvivenza ontologica del giornalista in una società che dipende, oggi più che allora, da un'informazione libera e affidabile, e che sembra voler seguire nel suo speciale mirino (la macchina da presa come un'arma di verità) coloro che cercano di impedirlo; con un ghigno retrospettivamente soddisfatto, fino all'ultimo fotogramma. Bye, Tricky Dicky.

domenica 21 gennaio 2018

IT


125 - IT (gennaio 2018)




In un momento storico come quello attuale, un film che richiama una grossa fetta di pubblico nelle sale è una rarità. Chi ci è riuscito di recente tende a sfruttare l'effetto domino creando franchise e/o allungando il brodo oltre la misura, più spesso confidando su nicchie su cui è sicuro puntare perché tanto i loro adepti sono già "fidelizzati" in partenza e accomunati da un sottinteso culto originato, come in questo e più casi, da un libro, quello di Stephen King.

Il romanzo che King scrisse nel 1986, un classico e un capolavoro del romanzo americano di formazione, che è al suo interno molte più cose di quanto la superficie orrorifica non rifletta, è da allora rimasto cucito in milioni di menti prima di approdare alla TV (con la miniserie del 1990) e poi sul grande schermo, e come tanti romanzi di King considerato a lungo non perfettamente traducibile. Ma occorre innanzitutto provarci.

Un primo appunto al film verte sull'opportunità di spezzarlo in due parti (presumibilmente) di oltre due ore quando poi, in quelle due ore, non si sa nemmeno raccontare la più sentimentalmente banale delle storie. Eppure è, e doveva per forza, essere questo il senso di una tale dilatazione: permettere al pubblico di addentrarsi nella vicenda e nello spaccato delle vite dei personaggi, che invece vengono presentati frettolosamente da un particolare aneddoto legato all'incontro con IT e sviliti da dialoghi che non riflettono la profondità del romanzo. King li introduceva in un'ottica stereotipata per renderli subito riconoscibili ad un giovane pubblico desideroso di immedesimarsi ma per poi inquadrarli nella loro, disagiante, marginalizzante unicità che non fosse fine a se stessa, ad evidenziarne la stravaganza; ma di quell'unicità resta pochissimo, negli attributi fisici autoevidenti o della parola (coprolalia, balbuzie, logorrea, ecc.), senza la piena disponibilità emotiva di un contesto che li sappia sottilizzare.

Venendo alla logica più meccanica del film, sembra chiaro che il motto, come ormai è di moda, sia stato "aggiornare": così la scelta incomprensibile di adattare la storia degli anni '50 agli anni '80 (poiché chi leggeva il romanzo lo faceva quando era ragazzo negli anni '80 ma qui ovviamente occorre stare attenti a non ferire i sentimenti di millennials e nostalgici dell'ultima ora che vorrebbero tutto delimitato dai propri riferimenti generazionali), così la scelta di arruolare attori a caso solo perché provengono dal successo di serie come Stranger Things (il peggior Richie che potesse mai venire in mente e le cui "battute" erano addirittura improvvisate), così un IT modificato quel tanto che basta da somigliare alla congerie di clown che affollano (contrariamente ad allora) moltissimi horror, un clown che non fa paura e viene imbottito di effettistica facendo leva sempre e solo sullo spavento "di pancia" e mai sulle corde emotive o psicologiche che tra parentesi erano proprio il senso del romanzo, così il mastodontico impiego di grafica computerizzata e montaggio (visivo e sonoro) che lo appiattisce di molto perché chiaramente riempie tutto il prezioso silenzio necessario ad entrare in sintonia con i drammi dei personaggi al fine di venire incontro al gusto di oggi e specialmente di chi ama gli horror di oggi, quelli che cercano solo il richiamo di un'immagine e un suono come tanti altri che si legano assieme come in una catena di montaggio e un grosso mal di testa alla fine.

Duole dirlo: la miniserie TV tanto vituperata, pur nella limitatezza dei suoi mezzi tecnici, o forse grazie a questo, ha saputo coglierne lo spirito molto meglio, sintetizzando in scene significative (senza dilungarsi) quelle code di immagini mentali che il libro ha cercato di imprimere per centinaia di pagine, quindi non stupisce troppo che le due scene più riuscite - o se vogliamo dire meglio, le uniche - del nuovo IT siano scopiazzate pari pari (scena d'apertura e Bev nel bagno, la quale in particolare racchiude un senso che il film eclissa a favore di una svolta narrativa).

È stato un agevole compitino con cui ci si è limitati a riprodurre la patina di un romanzo che del "facile", di ciò che "appare" è tutto l'opposto, con cui ci si è seduti sulla comodità di avere per le mani un prodotto già così noto e apprezzato al punto di avere una propria cerchia di fan senza provare a infondergli niente di coraggioso, innovativo, o anche semplicemente sentito, in cui si è dato troppo peso a certi personaggi e troppo poco ad altri o al loro background, in cui non ci si è resi conto che un buon casting è il 50% della buona riuscita di un film del genere (e invece la sola ottima scelta è quella di "Bev", per quanto diretta approssimativamente) e così via.

Mentre il comparto visivo fa affidamento esclusivamente su una fotografia seducente e sull'effetto sorpresa, quello sonoro è davvero soltanto scadente, mai in grado di evocare mistero o inquietudine perché tutto il film è tetragono al concetto di climax e perfino incapace di alleggerire, proprio come la sceneggiatura, quei momenti in cui veniva fuori tutta la sostanza indistricabile dell'amicizia, del vivere la giornata sapendo di non essere più soli (vedi Barrens), del lato positivo dell'infanzia (già, perché questa sarebbe una storia di crescita, nel caso qualcuno non l'avesse notato) di cui sono rimaste solo le fastidiose biciclettine, gli zainetti, gli occasionali abbracci finti; e perfino le battute sconce di Richie, che in origine ne insinuavano le insicurezze e la solitudine e trovavano un posto ben preciso nello schema del gruppo, diventano solo imbarazzante cacofonico sottofondo, materiale fotocopiato e serializzato, infilato a casaccio senza il minimo tatto o comprensione del momentum del film.

Un film diretto da e rivolto a chi il romanzo non lo ha amato, al contrario della scarna miniserie, e che probabilmente verrà ricordato solo per l'epico finale che la miniserie ovviamente non poteva riprodurre con i mezzi di cui all'epoca disponeva, e cui invece questo film nella sua seconda parte voterà ogni cosa, perché si è appreso che i contenuti diventano secondari davanti al passaparola e il passaparola funziona finché regge il contagio dato dall'immaginazione, sia quella prodotta dalla nostalgia sia quella vacua delle cose fatte in grande.

Quanto al personaggio centrale, IT (che rientra in quel discorso sul "50%" del casting), oltre a dover essere giudicato immediatamente più debole di quello memorabile di Tim Curry, viene spontaneo chiedersi se il problema non sia prettamente storico: dopotutto quanti horror sui clown esistevano nei primi anni '90 e quanti adesso? Forse più che sull'impatto visivo, allora, giustificato in epoca pre-digitalizzata quando si poteva ancora genuinamente sobbalzare davanti a una maschera, sarebbe stato il caso di entrare nel fitto delle perversioni psicologiche che governano il rapporto unico fra ogni personaggio e i suoi demoni metaforizzato proprio in IT.
Il film però si ferma a un livello diverso, e di tutto quel potenziale subconscio non resta altro se non visioni mostruose che ammiccano pericolosamente a fenomeni mediatici come The Walking Dead e furiosi stacchi di montaggio in linea con i canoni dell'Horror impersonale contemporaneo che permettono allo spettatore di mettere a fuoco l'inconsistenza del clown il meno possibile. L'interpretazione di Skarsgård è poi quanto più lontana potrebbe essere rispetto sia a quella di Curry che rispetto alla tratteggiatura complessa che se ne dà nel romanzo, e fallisce in realtà proprio nelle sue basi, lì dove non trasmette mai nulla di equivoco se non una sensazione viscida, che fa ritrarre d'istinto, priva di quel gioco di emozioni e suggestioni che avrebbe dovuto far esplodere nella mente dei ragazzini capitatigli a tiro.
E sperabilmente in quella degli spettatori.