venerdì 8 novembre 2019

Flashbacks: Vampyr (C. Th. Dreyer, 1932)




Dreyer è uno di quegli enormi maestri del Cinema Muto che ha fatto grande l'Europa dell'avanguardia, quella che poi sarebbe inevitabilmente confluita con le sue più grandi personalità (registi, attori, fotografi, scenografi) nella Hollywood che tutto poteva e tutto attirava verso di sé.

Altri scandinavi avevano in precedenza compiuto un percorso migratorio che li vide prestare la propria opera all’industria o cedere ai richiami a stelle e strisce, trovando lì successo, come Sjöstrom o Stiller, ma le cose andarono diversamente per il grande drammaturgo danese, caposcuola del cinema realista nordico, che solo quattro anni prima aveva talmente impressionato il giovane mondo cinematografico con il suo capolavoro "Il processo di Giovanna d'Arco" da guadagnarsi immenso rispetto a livello mondiale, e una grande chance per il suo progetto successivo, il secondo consecutivo girato in suolo francese, nel 1932, con le case di produzione europee nel caos provocato dall’introduzione delle nuove tecnologie del suono. "Vampyr", appunto.

Solo l'anno prima la Universal aveva dato il via alla sua saga dei "Mostri", inaugurando il ciclo proprio con il vampiro di Bram Stoker Dracula, diretto dal grande Tod Browning (film ricordabile per lo più solo per l'interpretazione di Lugosi e per il lavoro del grande direttore della fotografia espressionista Karl Freund - per il resto incline alle attese mediodimensionate di un pubblico che si faceva andare bene più o meno qualsiasi cosa), seguito a stretto giro di posta da Frankenstein.

Qui Dreyer sale invece di diversi gradini nelle pretese che rivolge al suo pubblico. Comincia con il prendere a soggetto il materiale ben più arduo da trasporre come quello di LeFanu e dà immediatamente un indirizzo estremamente astratto ed evanescente al suo film, non rinunciando mai a quella spietatezza che aveva condito l'impostazione stilistica di "Giovanna D'Arco" ma diluendolo piuttosto nelle inebrianti ed angoscianti atmosfere figlie di un felice mix di espressionismo e surrealismo in cui si muove il protagonista, atterrito in un'avventura quasi Kafkiana, sconcertante ed insondabile, che sembra non avere canali di comunicazione con la nostra realtà ma allo stesso tempo talmente urgente e misteriosa da richiedere una risoluzione.







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Gran parte del fascino della pellicola risiede nel tono minaccioso che sembra riempire ogni fotogramma già in apertura di film. Ogni inquadratura sembra studiata nel minimo dettaglio e giustapposta fino a creare come un momento di enfasi, di pieno e incomprensibile terrore per qualcosa che deve ancora mostrarsi. Tutto è sfocato, o avvolto nell’ombra, o nascosto alla nostra prospettiva visiva. Difficile parlare di un qualsiasi film horror senza passare da questo film, prima.


Sorprende quindi relativamente che il film, così audace e anticonvenzionale per l'epoca, quasi del tutto privato di un riscontro coerente, risultò in un tale flop commerciale; si racconta di tutto: proteste, gente che pretese il rimborso del biglietto, sommosse, eccetera. Il film fu proiettato per essere distribuito in più paesi e prevedeva originariamente tre lingue di doppiaggio (inglese, francese, tedesco), ma ovunque fu un disastro. Alla proiezione a Copenaghen, nella sua Danimarca, il regista neanche presenziò, fu colto da un esaurimento nervoso e questo rimase per molto tempo il suo ultimo film, peraltro a lungo rimaneggiato e lontano dalla versione oggi restaurata e più fedele alla sua visione, prima di fare ritorno a casa, dove avrebbe continuato la sua opera.





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Il simbolismo è usato con molta parsimonia, in questo film. Dreyer sembra non voler dare ovvi riferimenti visuali e lasciare lo spettatore nella condizione di dover decifrare o interpretare il significato di quello che sta guardando. La famosa immagine del teschio animato, che probabilmente deve aver esercitato una potente influenza almeno visiva sullo Psycho di Hitchcock, è una delle rare eccezioni. Similmente a quello che avviene nel Nosferatu di Murnau, il climax è costruito sull’onirismo inquietante dei frammenti visivi e sull’ambiguità della letteratura mitica che accompagna le didascalie e gli inserti fra di esse.


Fu anche il primo film sonoro di Dreyer, sebbene risenta ancora chiaramente degli sforzi dell’epoca di familiarizzare con i nuovi strumenti tecnologici e fosse di conseguenza ancora sotto l’influenza dei fortissimi legami con la tradizione del muto: le pochissime linee di dialogo e il montaggio lo dimostrano e richiamano proprio il Dreyer migliore, quello che non ha bisogno di parole perché fa parlare i suoi film tramite le immagini, le angolazioni distorte, la doppia esposizione, gli ingegnosi trucchi come la garza posta davanti all'obiettivo per confondere e togliere lucidità alla dimensione visiva del film.





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I temi dell’allucinazione sensoriale e dello sdoppiamento della personalità sono da sempre legati alle leggende vampiriche e sovrannaturali in generale, a partire dalla tradizione gotica. Esiste un mondo ulteriore che Dreyer accenna, ma non svela mai del tutto. Insieme al suo protagonista, ci lasciamo sedurre dai segni di questa impotenza, in un regno dove le ombre si staccano dai muri e diventano reali almeno quanto i vivi, fino al punto che, sempre dalla soggettiva del protagonista, non riusciamo più a distinguere cosa sia reale e cosa no, precipitando in un’inerzia ferale.


Vampyr è un film sicuramente singolare. La prima impressione che può generare, guardandolo con gli occhi di oggi, è quella di un film sinistro, stordente, meravigliosamente sfuggente, e che abbia forse potuto provocare nel pubblico di allora qualcosa di simile all'effetto che in tempi più recenti dobbiamo a film come Eraserhead o Shining: il paragone viaggia sottile lungo le luci e ombre del bianco e nero di un incubo che ha cittadinanza nel reale quanto nel regno dell'astrazione, in cui verosimiglianza e leggenda si contaminano a vicenda, e il loro sperduto protagonista è come trascinato dalle forze inerziali di un'ambientazione viva che lo trattiene a mezz'aria tenendolo a distanza, ma che vuole anche lasciarsi esplorare, conoscere, sfidare, dissacrare.






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I due momenti più iconici di tutto il film: la tumulazione prematura e la morte per soffocamento. Dreyer riempie il finale di una catarsi funesta che rivaleggia in asprezza soltanto con l’austerità de “Il Processo di Giovanna d’Arco”: i personaggi sono vittime del loro fragile stato mentale, portati a confondere bugie e verità, e il mondo non ha alcuna clemenza per loro. Una lezione che un adepto di Dreyer come Lars von Trier deve aver imparato fin troppo bene.


Un film da guardare al buio, di notte, rinserrati fra le pareti di una stanza il più stretta possibile, per godersi il finale con la giusta disposizione d’animo.




Immagini da Film-Grab.com

domenica 24 febbraio 2019

The Favourite

142 - The Favourite (febbraio 2019)





'700, mentre Inghilterra e Francia sono impegnate sul fronte di guerra, la corte è retta dalla Regina Anna (Olivia Colman), eccentrica donna all'ombra della quale si nasconde Lady Marborough (Rachel Weisz), moglie del comandante delle armate britanniche ed effettiva decision-maker e favorita della Regina, se non che la serva Abigail (Emma Stone) comincia a farsi largo subdolamente per prendere il suo posto.

Film in costume per Lanthimos, che palesemente influenzato (come molti della sua generazione) dalle atmosfere di Barry Lyndon, realizza il suo film esclusivamente con luce naturale, impiega grandangoli potentissimi, inscena faide e ripicche clandestine, e un po' facendo il verso alle bizzarrie e agli intrighi di corte del genere, sovverte con il suo solito tono bislacco i normali cliché.

La sua fotografia è, al pari della sua regia, metodica, millimetrica, avanguardistica. Si ha sempre la sensazione che una sua inquadratura, per quanto ipoteticamente già vista, sia la prima volta che la vediamo; accompagna così le storture psicologiche dei suoi personaggi con angolazioni estreme, presi nel mezzo di una sceneggiatura caotica, evanescente, talmente fine a se stessa da suonare quasi come un lamento dandy.

Il trio delle interpreti principali (tutte e tre nominate agli oscar di quest'anno) è corresponsabile di una prova maiuscola, è a loro che si deve la parziale riuscita del film, o perlomeno del suo lato di intrattenimento, fin dove arriva lo sguardo meno critico e più avido di lussuria, di gioco perverso; ma poi serve ricordarsi che una visione così tenebrosa e monotematica della vita, puntualmente cucita nello stile di Lanthimos in ogni dannato film, a volte stanca. Come stanca la solita storia di scorrettezze, soprusi, facezie che non spiegano né arricchiscono il compatto ordito, parti narrative del tutto ridondanti. A che serve tanto stile, tanta precisione (da ricordare, oltre alla fotografia e alla deformante regia che dà un taglio ben preciso, anche la cura di costumi, trucco, scenografie), a che serve una simile dotazione di talento da sfruttare davanti alla macchina da presa, se poi non si sa fare altro che raccontare banalità?

Nella migliore delle ipotesi, Lanthimos è un "pazzo" (in senso buono e positivo) che segue ciecamente il suo istinto, ovunque lo porti, senza alcuna mediazione che gli permetta di incanalarlo verso un discorso concreto; nella peggiore, è un manierista che sa bene a quali grandi autori (come d'autore è il suo cinema) ispirarsi per fare presa facile e concludere il suo obiettivo. Si può dire che la sua longevità nel comparto indipendente, che tanto margine per la sperimentazione gli sta consentendo in questi anni, ha un chiaro senso alla luce del fatto che registi coraggiosi e cinici come lui, restii ai compromessi, in ambito mainstream, durerebbero assai meno, ma è anche vero che il suo acclamato genio forse ha in quello specifico ambito il suo terreno d'elezione.

Non è un regista facile da amare e nemmeno da capire; come dimostra anche questo film, sta portando però all'industria qualcosa di personale, non proprio "nuovo" (in questo film, ad esempio, di nuovo c'è pochino, a cominciare dagli aspetti scenici, fino al genere un po' letterario di costume rivisitato in chiave scandalistica e allo stile registico che richiama l'austerità di un Kubrick o di un Von Trier) ma comunque originale, solo che a volte il virtuosismo e la fermezza del tono di un film dovrebbero lasciare spazio a qualcos'altro. Qualcosa che ci possa far vedere anche l'altro lato umano, quello che non appartiene alla sfera di De Sade.
Perché, al di là dell'ossessione per la verità storica e artistica, non c'è niente di vero in una tensione emotiva che punta costantemente a punire i propri personaggi e a premiare i peggiori istinti animali come fossero la sola cosa interessante da raccontare.


Roma

141 - Roma (febbraio 2019)





Cleo è una domestica di origine indigena al servizio di una famiglia della media borghesia messicana nel quartiere "Roma" di Mexico City, dove Cuarón (che ritorna cinque anni dopo Gravity, che gli valse l'oscar come migliore regista) è cresciuto. Sono i suoi occhi, la sua soggettiva, a trascinarci dentro a quell'incanto che è questo film, avvolto da una fotografia indescrivibile in bianco e nero che riporta alla memoria un passato indelebile e funziona anche in un senso artistico che cattura lo stato d'animo perfetto di questo film così essenziale, dignitoso, intimamente ricercato nei più piccoli dettagli.

Lo stile neorealista impiegato qui da Cuarón va un po' in controtendenza con quanto ci ha abituato a vedere il regista messicano, soprattutto perché agisce con estrema sottrazione sulla storia (che era stata sempre l'innesco fondamentale del pathos o dell'avventura nei suoi lavori precedenti), ridotta a frammenti di vita da ricostruire con occhio attento e osservatore. Per quanto sembra che non succeda nulla, c'è sempre una scena che arriva a smentirlo; è il particolare respiro di questo film a determinarlo, con una regia che è la migliore dell'anno e una delle migliori degli ultimi anni: le intense soggettive, il dosaggio estremo dei piani ravvicinati, le lente panoramiche, i long-take, l'azione della profondità di campo, il sonoro minimale... tutto contribuisce a rallentare e fissare lo sguardo in un punto impreciso, mentre tutto si svolge davanti ai nostri occhi.

È come se Cuarón volesse immergere lo spettatore in una catarsi, per poi risvegliarlo dai silenzi e dalle pause con scene di una impellenza e di una vividezza unica (si pensi alla sequenza della protesta studentesca, o a quella finale); lavora molto, inoltre, sulle inquadrature cercando di staccare il più possibile la sua malinconica protagonista da ciò che la circonda (arriva addirittura a staccarla dal suo stesso corpo e sangue), ora relegandola sullo sfondo, ora tenendola a distanza dall'obiettivo. Questa separazione quando non è fisica è comunque concettuale, come dimostrano le confidenze che si concede solo con l'amica/collega e comunque sempre in un linguaggio che è quasi in codice, "segreto" (il mixtec). Due mondi a parte, costretti a convivere dalle circostanze nel medesimo luogo d'azione, che costituiscono quasi una scelta di montaggio interno.

La stoicità della sua protagonista (una meravigliosa Yalitza Aparicio) è tutta in quell'ultima scena, in quella confessione di una madre mancata che per lavoro cresce, ricambiata d'affetto, i figli di un'altra famiglia, e che finisce con il salvarli quando non ha potuto salvare la propria. Proprio l'assenza di un qualsiasi commento esplicito ad un sottotesto già pregno di materiale rende il tutto ancora più straziante e più vero, soprattutto perché non esistono, a guardar bene, nel film di Cuarón molti punti di tangenza ed è lo sguardo libero dell'osservatore a catturare ciò che davvero lo interessa, guidato dalla sua esperienza personale.

Cuarón fa un film che per alcuni sembrerà privo di passione, forse anemico, e forse per lo spettatore meno esigente sarà giudicato noioso, ma che in realtà costituisce la sua prova di regista più autentica, non solo perché intimamente autobiografica ma anche perché lo sforzo confluisce nel racconto di una vita che ha poco di raccontabile, nel senso che il dolore esistenziale di Cleo ha molto di comune e anche molto di invisibile; è il cinema allo stato puro.


sabato 23 febbraio 2019

Green Book

140 - Green Book (febbraio 2019)





Il "Libro Verde" era la guida rivolta alle persone di colore afroamericane pubblicata, testualmente "per dare al viaggiatore nero informazioni che gli impediscano di incorrere in difficoltà, imbarazzi e rendere il suo viaggio più piacevole".

Tony "Lip" è il buttafuori di un locale di New York nei primi anni '60, quando si trova all'improvviso senza lavoro. Italo-americano, poco istruito, sempre nella condizione di dover sbarcare il lunario e quindi dedito a giri loschi, finisce per ottenere un lavoro da chauffeur che lo porterà in un viaggio on-the-road per gli stati del sud degli Stati Uniti lungo le tappe concordate con la casa discografica che attendono Don Shirley, un pianista afroamericano di enorme talento che si esibisce per i ricchi bianchi dei circoli d'elite, estremamente colto e raffinato ma anche estremamente solo.

Se la commedia insegna qualcosa è che il contrasto insito in questa premessa è già ingrediente sufficiente ad essere modellato, specie nelle mani di chi il genere lo frequenta con profitto ormai da molti anni come Peter Farrelly. Farrelly che si è distinto in passato più per i suoi contributi al sottogenere demenziale, non lesina nemmeno qui troppo sulla volgarità di personaggi e situazioni, ma in questa occasione - oltre a trovare l'assistenza fondamentale di Mortensen - volge la cosa a suo favore mentre tenta di raccontare una delle storie di integrazione più riuscite negli ultimi tempi che è al contempo un racconto formativo che narra di come si possa trarre arricchimento personale da un'amicizia improbabile.

L'ignoranza genuina ed inconsapevole di Tony "Lip" (che ha guadagnato il soprannome proprio per il fatto di essere considerato un "bullshitter", un contaballe) è in fondo qualcosa che strappa molte risate mentre allo stesso tempo ci insegna qualcosa di vero, e di più profondo di quanto non sia contenuto a volte in un libro. Tony è un personaggio adamantino e leale sia ai suoi princìpi che alle persone che gli stanno attorno. La sua (a volte si direbbe ingiustificata) autostima è qualcosa che Shirley non potrebbe mai permettersi lontano da un pianoforte, costretto all'emarginazione da una circostante mentalità retrograda apparentemente non troppo distante da quella di Tony. Tony, nella sua limitata visione del mondo e della vita (se vuoi qualcosa, prenditelo; se non ti mostrano rispetto a parole, esigilo con l'azione) impara a conoscere un mondo che pian piano lo sgrezza e lo addolcisce nei confronti di qualcosa che aveva sempre guardato con sospetto bonario e con pregiudizio - e qui sta la morale edificante di un film che rinuncia un po' troppo facilmente e comodamente alle pastoie del dramma facendosi prendere la mano dai contorni irrealistici della favoletta secondo cui qualche volta un razzista è solo una persona molto ingenua che ha solo bisogno di aprire gli occhi: può essere questo il caso, ma pensare che decenni di imprinting culturale possano essere spazzati via da qualche battuta e due mesi di viaggio è un po' forzato.

Di certo il film mostra il meglio di sé quando si trova proprio nel mezzo del tourbillon di botta-risposta dei due protagonisti: si offrono l'uno all'altro, si mettono a nudo nel più tipico dei cliché di genere finché non guadagnano l'altrui rispetto, ed accettano i propri limiti nel momento in cui mettono a confronto le proprie esperienze. La bontà del film di Farrelly sta nella verve e nel montaggio ottimo che scandisce tutti questi momenti, impreziosendolo un po' per volta con un taglio da dramedy che non risparmia né risate né riflessioni, ma è erroneo pensare a questo film solo come a un film sul razzismo.

Le performance di Ali e Mortensen sono straordinarie nel rendere questo film soprattutto un film di attori e di interpretazioni, in cui lo sviluppo del personaggi e dei loro rapporti decreta anche l'evoluzione del film. Se si trascendesse dal contesto però, e se solo si immaginasse per un momento di attualizzare la scena ai giorni nostri, si potrebbero scoprire cose interessanti; si aprirebbero allora nuove considerazioni su come un dialogo attento e la disponibilità a mettersi nei panni degli altri possa talvolta fare tutta la differenza che vogliamo vedere nel mondo, e su come spesso siano proprio le situazioni da cui ci nascondiamo, una volta affrontate, a determinare veramente le nostre certezze identitarie, e di come dietro a un mistero ci sia sempre una storia interessante da raccontare.

Questa, interessante, lo è davvero. Merito a chi ci ha lavorato per permetterle di arrivare fino a noi.


BlacKkKlansman

139 - BlacKkKlansman (febbraio 2019)





Il passato per Spike Lee è una ferita sempre aperta, sempre in via di rimarginazione, e per quanto faccia, finisce sempre a riprendere un discorso che a fasi alterne ha alimentato per più di vent'anni. Ovviamente il tema del "colore della pelle" (più circostanziato ancora rispetto al puro e semplice argomento razzismo) è cucito senza via d'appello al suo cinema, fatto di ricorsi storici e provocazioni incanalate lungo un processo di consapevolezza che sfocia, semmai, da qualche parte in un equilibrio di identità, costruita attraverso frammenti: di personalità, di culture, di cronaca, di avvenimenti sociali, e di cinema.

Proprio come la scena iniziale che dà la stura cinefila al suo film riprendendo il famosissimo carrello aereo di Via col vento (per poi lasciare il posto ad una scena lisergica e scioccante che ha in Alec Baldwin il suo protagonista) o i continui metariferimenti a Griffith. Nessun riferimento è mai casuale: proprio come Birth of a nation determinava con la sua enorme popolarità la rinascita del movimento del Ku Klux Klan oltre un secolo fa, anche oggi assistiamo a revivalismi di movimenti dell'estrema destra suprematista (che suggellano il film in chiusura andando a comporre un arazzo ideale della questione americana se lo si collega alla scena d'apertura) che mettono sotto accusa diretta la presidenza e quindi la linea di condotta di un paese che vacilla fra il populismo reazionario e la promessa di un politically correct asfissiante.

La recriminazione intima del cinema di S. Lee regala ancora una volta una una breccia fra i due estremi, per cercare un suo equilibrio da qualche parte: la lotta armata delle Black Panthers diventa una violenza di parola più che di fatti, e l'intelligenza prevale sull'impulsività.
Così si prende gioco del KKK senza produrre maggior sforzo di una semplice caricatura dell'Organizzazione con tutte le sue assurdità autoeloquenti mentre dall'altro foraggia un linguaggio irriverente, politicamente e linguisticamente scorretto, che supera continuamente le definizioni di buon senso per tramortire lo spettatore e risvegliarlo da un'etica che porta inevitabilmente ad un sistema di pensiero chiuso e unificato se non correttamente affrontato da obiezioni individuali.

Così al di là di come la si pensi, non c'è, talvolta, grossa differenza fra le ridicole rimostranze del gruppo terroristico o la mentalità piena di pregiudizi di un corpo di polizia a sua volta inviso a chi non fa distinzione fra un bianco e un altro, fra un poliziotto e un altro.

Al di là della componente politica, si tratta di un film divertente e ben diretto che non manca mai di ritmo o di sorprese, paga qualche ingenuità qua e là ma l'effetto stordente con cui Lee è in grado di rigirare ironicamente il conto allo spettatore lo pone su di un livello più alto di quanto sembri in apparenza. L'idea del poliziotto nero (in tempi in cui vederne uno era più raro di una stella cometa) fa già sorridere di per sé (pensando all'inevitabilità di ciò che vedremo) ma l'annientamento del KKK per propria mano, mentre scorre, veloce, il montaggio alternato di Griffith (manca solo Wagner, forse) sono puro propellente per un film tanto impegnato a mostrare un parallelo con l'attualità quanto sinceramente intenzionato a rivalutare un passato con qualche errore di troppo pur mantenendone inalterato il fascino, che è quello del racconto, della citazione, della consapevolezza che prima o poi, in una forma o in un'altra, tutto ritorna.

Anche Spike Lee, per fortuna.


venerdì 22 febbraio 2019

Vice

138 - Vice (febbraio 2019)





Vice ripercorre le tappe dell'oscura ascesa al (silenzioso) potere di Dick Cheney culminato nell'amministrazione Bush con uno dei periodi più delicati della storia americana contemporanea. L'idea è quella di un biopic (idea molto in voga quest'anno) ma sempre senza perdere di vista, dal punto di vista di McKay, l'appuntamento con il sarcasmo e la mordace sottolineatura di colore, che come nel precedente The Big Short non mancano di far aprire mascelle (che sia per indignazione o per le risate, o magari entrambe le cose).

La vena satirica di McKay, infatti, pompa incessantemente quasi quanto il cuore dello sfortunato protagonista (e l'ironia nell'ironia è che il regista dipinge il ritratto di un uomo con emozioni e cuore difettosi che resta aggrappato alla ricerca di un trapianto di cuore) e, se da una parte riesce nell'intento di delineare una personalità complessa senza cadere nella caricatura (merito anche e soprattutto dell'ennesima prova di spessore di un Christian Bale nuovamente sotto metamorfosi fisica per adattarsi al phisique du role richiesto) dall'altro riesce anche a restituire il fitto di oltre trent'anni di fatti, relazioni, documentazioni, segreti, bugie, manipolazioni, confronti.

È vero che, come nel film precedente, l'opinione del regista è evidentemente parziale (del resto la satira chiama a prendere una posizione, in funzione comunque dei fatti e non del tifo cieco) ma è anche vero che stando "ai fatti" resta difficile non condividerne la conclusione. E gli ultimi minuti sono tutti per chi, troppo facilmente, sia disposto al tentativo di smontare questa tesi. E comunque dal film emerge, distintamente, un Cheney calcolatore, cinico stratega e opportunista ed un Cheney uomo, che non è poi molto differente dall'uomo comune soggetto a pressioni familiari e bisognoso di dare un senso alla propria natura.

Sono infatti le motivazioni, oltre ai fatti e ai collegamenti che intercorrono fra di essi, che convincono particolarmente nel tessuto ordito da McKay, con il solito lavoro di rilievo in fase di montaggio che ancora una volta (anche senza l'enfasi e il ritmo impazzito di The Big Short) si dimostra strumentale all'interesse del racconto; la sperimentazione continua del regista rende un ottimo servizio alla delicatezza del soggetto nonché all'irriverenza con cui è trattato nel film, così intriso di arguzie, perentori cambi di tono e registro, sottigliezze e metafore che dimostrano quasi irrequietezza. Ci sono certi punti del film, con quella voce fuori campo estranea e improvvisa in cui sembra di guardare un documentario. E poi diventa fiction, e poi, ancora, il grottesco cresce e diventa talmente palese da spezzare gli argini del genere precedentemente inquadrato.
È quasi un collage, un flusso di coscienza; l'insieme di più voci narranti, l'uso dei tagli di montaggio per rovesciare l'etica del film, gli inserti di commento, i contrappunti, i ritmi, tutto è mescolato insieme per creare un effetto destabilizzante sullo spettatore incauto, chiamato a pesare il valore di quello che guarda, a paragonarlo con quello che sa essere vero.

Molta parte del cast si distingue: l'interpretazione di sottrazione di Bale è enorme, non sale mai sopra le righe ma è tanto densa la sua presenza che riempie tutto il film; Amy Adams una fantastica comprimaria che dà il senso del riflesso dell'anima più sincera e torbida che non riusciamo a scorgere nel Cheney di Bale. Si potrebbero citare anche tutti gli altri, compreso Steve Carell (attore di contorno ma sempre valore aggiunto), ma la verità è che è difficile pensare alla recitazione di un film di McKay in termini convenzionali, serve quasi coniare un nuovo termine, uno in cui possano convivere uno sguardo sul mondo di chi da esso si sente tradito e la voglia, se non proprio la necessità, di dargli un senso per provare a raccontarlo per spiegarselo.

La funzione pedagogica di McKay non si esaurisce nelle informazioni riassuntive con cui scandisce le scene o affolla i titoli finali che scorrono sullo schermo a ricordare le conseguenze di questo "gioco politico e di potere" che Washington (come Wall Street) conosce tanto bene da averlo marchiato a fuoco sull'America dei risparmiatori defraudati, della working class che tira a campare o dei soldati mandati a morire senza una ragione plausibile, ma è anche diretta a ricordare e a ricordarsi prima di ogni altra considerazione che i Cheney, su quel "trono" Macbethiano non ci si sono messi da solo, e c'è voluto molto di più di una piccola spinta da parte di una bella moglie machiavellica: è la stessa gente che ora sta guardando ad aver volto il capo dall'altra parte. Ridere adesso significa ridere un po' anche della propria insufficienza.

Perché in fondo abbiamo tutti una famiglia, un'esistenza cui dare un senso e un vuoto da riempire. Comprendere le ragioni significa allargare i confini dell'inquietudine che nasce dallo stesso suono del silenzio, quello che inghiotte non appena lo si sottovaluta.

giovedì 21 febbraio 2019

A Star is born

137 - A Star is born (febbraio 2019)





Come nella più classica formula hollywoodiana, Ally è una ragazza di talento della provincia americana che ha passato gran parte della sua vita a vivere ad occhi aperti il sogno di diventare famosa e far conoscere la sua voce, ha un lavoro che detesta e trova nell'esibizione in un locale per cabaret quel tiepido conforto che manda avanti la sua routine piccolo-borghese, mentre il padre la riempie di illusioni e non fa che ostentare aneddoti di quando, forse, avrebbe potuto sfondare.

Dalla silenziosa e timida creatura incapace di dare seguito ai suoi desideri più nascosti diventa la stella (del titolo) che Jackson Maine, noto musicista rock, alimenta con il suo peso nell'ambiente e con l'affetto che ben presto comincia a provare per la ragazza, ricambiato.

L'inevitabilità di quello che accade dopo l'iniziale idillio romantico-sentimentale di questo film, passando per tutte le rigorose tappe dell'American Dream, fino ai risvolti on-the-road che astraggono il percorso di crescita e le derive enfatiche e melodrammatiche dell'ultima parte della sceneggiatura sta tutta racchiusa nel metariferimento che è subito evidente riflettendo sulla scelta di Lady Gaga nel ruolo della protagonista, alle ovvie note autobiografiche che le permettono una tale naturalezza, e al sentimento che attraversa tutta le pellicola e che sembra aleggiare su ogni scena diretta (per la prima volta dietro e davanti la macchina da presa) da Bradley Cooper.

Cooper che, sebbene non sia al momento il più geniale o sofisticato dei registi, è abbastanza intelligente e sa abbastanza di recitazione da comprendere l'importanza della dinamica in un film: parte accentrando su di sé l'attenzione, come in un monologo, che diventa poi un duetto per poi fare gradualmente, sottilmente, scomparire la propria figura e permettere al talento trasversale di Lady Gaga di prendersi il palcoscenico che in realtà è sempre stato suo dall'inizio.

A sorprendere, e non poco, nell'ambito del sottotesto prescelto (L. Gaga che recita provenendo dall'ambiente musicale; Cooper che suona e canta e dopo aver agito di sottrazione recitativa pian piano si eclissa pur essendo abituato a ruoli importanti in film notevoli) è soprattutto il fatto di trovare questa forza magnetica proprio nei punti in cui era lecito non attendersela. La chimica fra i due è indiscussa e le performance sono tanto buone da far dimenticare una trama piuttosto piatta, scelte frettolose e non proprio originali, svolte narrative a tratti forzate o per niente realistiche, o l'invasività della musica (pur tenendo conto che si tratta di un film musicale) per dire qualunque cosa di potente. Il film gioca con il concetto di destino, altra chiave di lettura del film, e pone interrogativi più o meno chiari allo spettatore, dietro ai quali c'è però più mestiere che immediatezza, più regolarità che non lo stimolo intellettuale di comprendere a fondo le azioni dei personaggi.

Per quanto sia questo un film a cui è facile arrendersi, e credere, capace di buoni sentimenti e facili emozioni, resta anche vero che i personaggi sono piuttosto piatti ed anziché evolvere lasciano che gli eventi evolvano loro, come se fossero già immagini predefinite soltanto da mettere a fuoco. Nonostante il titolo, lasciano poco il segno, al punto che un finale drammatico si trasforma in una pomposa chiusura operistica tanto ruffiana quanto condiscendente.

Quello che riserva il futuro a Lady Gaga è probabilmente un Oscar, ma il film non è all'altezza della sua stella.

lunedì 18 febbraio 2019

Bohemian Rhapsody

136 - Bohemian Rhapsody (febbraio 2019)





Arrivato su grande e piccolo schermo dopo un battage pubblicitario di certa rilevanza, e dopo le numerose vittorie riportate ai Golden Globes che lo hanno proiettato ad immediato fenomeno di costume, la storia dei Queen e, soprattutto, del suo leader e cantante Freddie Mercury viene qui raccontata per la prima volta in un biopic dalle mille difficoltà (non ultimo l'abbandono dal set, diventato complicato da gestire, del suo regista B. Synger che compare comunque accreditato nonostante abbia di fatto lasciato il timone a progetto in corso) che si lascerà ricordare probabilmente come un'operazione nostalgia più che per i meriti artistici in sé.

Perché fra le tante cose che appaiono troppo letterali o stereotipate per non essere in qualche modo sbiadite, ricopiate senza nessun valore aggiunto, Bohemian Rhapsody manca di far fede al senso stesso del film di cui ricava il suo titolo: né la sperimentalità, né la versatilità di ciò che racconta lo caratterizzano; sono pochi i momenti di compiuto umorismo, non adeguatamente potenti quelli drammatici, e c'è un calco eccessivo su alcune scelte che tolgono alla verità per concedere qualcosa alla vuota spettacolarizzazione o, peggio, alla cinica manipolazione degli eventi.

Si tratta di un film che colleziona fatti (o presunti tali, anche qui la precisione narrativa non è fra i suoi punti forti) e vicende per arrivare a raccontare l'evoluzione di un uomo, di un progetto (con enfasi individualistica poi che forse è un po' irrispettosa per gli altri, grandi, musicisti che quella band l'hanno in fondo portata al successo insieme) ma lo fa senza veramente soffermarsi sul significato di quello che dice, come per dar forma esteriore a qualcosa che non ci si è davvero sforzati di capire. La scarsa caratterizzazione, l'impegno a dir poco approssimativo della recitazione, la mancanza di un vero collante emotivo... emergono decisamente da una storia che avrebbe molto per sorprendere e presentare nuove luci e nuove ombre, ma che sa diventare autentico solo quando la musica (e quindi un riflesso, il cui merito va dato ad altri) prende il sopravvento.

Il problema principale di questo film, o forse di questo genere di film, è che rendono tutto troppo esplicito, fino al didascalico, mentre la brillantezza, il genio... stanno nelle sfumature, nell'ambiguità, nel non detto; soprattutto perché a volte la musica e le immagini dicono più di mille parole ed è fallimentare che proprio un film non lo capisca. Sono i tempi del marketing e del "prodotto", evidentemente.

Quanto alla performance di Malek (decisamente la cosa più applaudita del film)... a parte una (vaga) somiglianza e l'indubbio lavoro dell'attore sulla fisicità e gestualità di Mercury, non sembra esserci apparentemente attore più distante, caratterialmente parlando, dal protagonista rappresentato... né il carisma, né l'eccentricità o l'energia esplosiva di Mercury fanno parte del dna e della prestazione di Malek, che appare sempre, in qualche modo, frenata, come in sordina. Fuori parte.

È di solito interessante, dopo aver assistito ad un racconto biografico, cogliere quella netta sensazione che ti fa capire di conoscere meglio la persona rappresentata, di aver corretto una versione piuttosto che l'altra con una più accurata, temperata da un'umanità più vicina alla sensazione di chi quella persona l'ha conosciuta davvero. Ma qui, onestamente, c'è troppa immagine, troppo mito, e troppa poca sostanza per poter dire questo. Chi conosceva già molto bene Mercury non troverà in questo film qualcosa che valga la pena di una visione, mentre chi non lo conosceva continuerà a non conoscerlo. Poco male: la sua musica, quella sì, resterà immortale. Ed è l'unica cosa che si salva del film.


Black Panther

135 - Black Panther (febbraio 2019)





In un ipotetico universo parallelo, il regno di Wakanda (fittizia nazione africana) prospera, florido, nascosto alla vista del resto del mondo, dopo aver sviluppato una civiltà altamente progredita grazie all'impiego strategico del preziosissimo Vibranium. La sfida di T'Challa, erede al trono dopo la morte del padre, è di tenere unito il suo popolo di fronte alla crisi di potere interna e alle minacce esterne, mentre si fa impellente la responsabilità etica contro la povertà che attanaglia la popolazione della terra.

Da un incipit dalle tinte propriamente shakespeariane, e di conseguenza politiche, a decollare è un film sostenuto da un ottimo ritmo, cadenzato dall'intermezzo di personaggi inquadrati che si fanno largo con immediatezza fra i toni accesi di un film che è al suo interno molte cose e forse per questo riesce a non annoiare o ad impantanarsi in uno specifico sentiero come spesso accade ai "cugini" Marvel, carichi di troppe premesse.

Il film, infatti, pur facendosi catalogare nel genere di intrattenimento affonda ovvie radici nella contemporaneità di un pianeta diviso e attraversato da profonde ineguaglianze, ed offre numerosi intertesti al suo interno che fungono da portali per esplorare in chiave critica e sociologica quella battaglia contro l'oppressione che ha preso e continua a prendere molte forme anche nell'attualità — qui riassunta nella dicotomia ideologica intessuta nella storia afroamericana contro la schiavitù fra morale pacifista e guerra armata — di cui del resto il titolo-simbolo del film è fresco memento.

Coogler (che dopo Fruitvale Station e Creed ritrova Michael B. Jordan) mette insieme un buon film, corale nelle interpretazioni di un egregio cast, ben dosato negli effetti che sanno sorprendere anche senza pigiare il tasto sull'acceleratore, mantenendo saldo il timone dello sviluppo della storia; peraltro il film, spaziando dalla fantascienza all'action supereroistico, dalla satira di costume alla spy story, dal melodramma esistenziale fino all'apologo in chiave critica e sociologica, si presenta come una commistione di generi che sembrano in grado di soddisfare un'ampia fetta di pubblico e di palati, non mancando l'appuntamento con un finale inevitabile che si maschera di un virtuosismo umanistico diretto a sigillare il meccanismo praticamente inappuntabile (forse troppo) della meccanica narrativa.

A svettare, ben più della gradevole ma non più di tanto originale sceneggiatura (con tanto di messaggio ecumenicamente ineccepibile), è certamente la grande immaginazione che rifornisce la grande fabbrica degli scenari scenografici, dei costumi e del trucco capaci di disegnare ex-novo una cultura immaginaria con vivido realismo, del grande fascino fonetico del linguaggio che fonda un mondo a parte, permettendoci di cullare quell'astrazione che è, a tratti, così dettagliata e simile alla concretezza della nostra realtà, da diventare verosimile. Un'opera di fantasia costruttiva che certamente paga dividendi a livello di atmosfere, e quindi, di coinvolgimento.

La sua sfortuna resta il debito da pagare nei confronti di una serie-madre di cui esso è solo un capitolo (come i titoli finali ci rammentano); quando, invece, è la sua unicità a farlo risaltare nei suoi momenti migliori. E allora, senza rancore, occorre semplicemente riaprire gli occhi e concludere che si tratta solo di un altro film di intrattenimento, che avrebbe le armi per dire qualcosa di diverso, ma che, in fondo, non è del tutto libero di farlo.