mercoledì 5 febbraio 2020

Jojo Rabbit

147 - Jojo Rabbit (febbraio 2020)



Ultimi anni della seconda guerra mondiale, un paesino tedesco. Jojo è un ragazzino che cresce secondo i valori e gli ideali della Hitler-Jungend, accecato dal fervore fanatico, cresciuto da una madre segretamente coinvolta nella resistenza e all’improvviso travolto da un compito che appare più grande di lui: diventare un buon soldato nazista in un’atmosfera di continuo dileggio, cameratesca prevaricazione. Per quanto vittima del suo contesto, Jojo è esso stesso l’antitesi della ferocia incarnata dal regime; è solo un ragazzino strano e confuso, che crede di avere un filo diretto con il Fuhrer in persona (Takika Waititi, il regista).
Alle sue spalle, una famiglia dimezzata ma ancora perfettamente sana, che si allarga quando un giorno Jojo scopre Elsa, una giovane ragazza ebrea poco più grande di lui rifugiata a casa sua, a sua insaputa.

Waititi continua la sua felice tradizione con la commedia satirica, gli elementi sono anche qui pressoché dati: l’ovvia ironia, il ribaltamento delle prospettive, l’assurdo come mezzo per porre in atto una riflessione.
Senonché l’argomento è più delicato di quelli che aveva trattato in precedenza (fosse un divertissement come la discussione dei cliché vampireschi o l’attenzione alla dignità delle minoranze etniche filtrata attraverso il genere d’avventura) e il sentimento grottesco che ne è il risultato non sembra sempre in perfetto equilibrio.

Il suo intento è molto chiaro, schematico, quasi banale: giocare con gli stereotipi per mostrare la stupidità nell’esaltazione, il grottesco paradosso nella follia rigorosa e razionale dell’obbedienza cieca alle regole a cui si finisce per credere solo a causa del potere esercitato dalle autorità su una mente debole (sia quella di chi si conforma, o quella di un bambino).

Il film affila le proprie armi verbali, disorienta fin da subito, attrae con le sue premesse comiche prospettando qualcosa che, però, con il passare dei minuti non si concretizza; l’antimilitarismo didattico e pedante, un’ironia troppo calcolata, una generale facilità nel mostrarsi a un moralismo invadente, che non lascia realmente mai spazio a una riflessione personale, e nemmeno molto originale... nel complesso hanno l’effetto opposto a quello preventivato dal suo regista, e la prevedibile maturazione del personaggio principale sembra quasi non avere ragione d’essere.
Quest’ultimo è sviluppato attraverso l’amicizia (che quindi presuppone il contatto, la conoscenza in opposizione al distacco asettico propugnato dalle più pure teorie sulla razza) fra Jojo ed Elsa: l’aspirante e biondissimo oppressore, timido ed insicuro e la sventurata vittima, coraggiosa e fiera, e alle porte il lupo, più o meno vero e certamente non realistico, anzi caricaturale, del soldato tedesco pronto all’ispezione.

Sarebbero quasi ingredienti da fratelli Grimm: un black humour da fiaba gotica in cui il male è sempre puramente simbolico, con l’astuzia infantile che funge da mezzo di sopravvivenza, in un racconto in cui la fantasia e il reale si incontrano in un crocevia nebuloso e la morale prende le sembianze dell’ammonimento, pone paletti in grado di segnare la “giusta strada”.

Allora a ben vedere forse il problema centrale del film sta nella sua “ricezione”, nel senso che se lo si interpreta come allegoria, come “film di formazione”, rivolto soprattutto ad un pubblico più giovane (cd. Young Adult) e coetaneo ai protagonisti del film, allora va dato il merito a Waititi di due cose: da una parte di aver dimostrato che si può scherzare con la tragedia per mostrarne le contraddizioni e quindi avvicinarsi ai suoi temi per creare i presupposti di una riflessione; dall’altra l’abilità di informare ed educare senza mai tradirsi o spingersi ai confini del lecito. Waititi gioca in effetti fin troppo pulito, ed è da qui che muove la principale obiezione della seconda interpretazione.

È l’ingenuità di chi si aspetta un qualche tipo di commento sociale ultroneo, o piuttosto un’opinione dissacrante a rimanere più ferita da questo film: non è forse Waititi ad essere inadatto a questo scopo, ma più che altro la sua funzione ad essere diversa. Di film deliberatamente eccessivi, che si prefiggono finalità d’exploitation e di catarsi, sull’argomento, ce ne sono già e sono semplicemente altri.

Basta analizzare il tipo di umorismo piuttosto infantile di cui il film si serve: un umorismo mai davvero caustico, corrosivo, che non lascia mai il tranquillo e sicuro seminato del politically correct... quasi come una qualche auto-moderazione di fondo serpeggiasse continuamente nei dialoghi, come se si volesse evitare di offendere qualcuno tranne che il buon senso.

Di nuovo, il problema centrale, ammesso che ce ne sia uno, è forse da riscontrare nella sensibilità che certi argomenti provocano in rapporto alla libertà del tutto personale che ognuno di noi ha di articolare il proprio linguaggio per esprimere un’opinione, ovvero della satira. Se un fallimento c’è stato è qui, è forse nell’aver calcolato male le misure e i toni mescolati così da formare, talvolta, un guazzabuglio che non si sa bene come interpretare, a cui si fatica ad assegnare una qualche coerenza. In questo senso la scelta un po’ fuori sincrono dei siparietti di Waititi nei panni del Fuhrer: forse avrebbe avuto più senso un’unica apparizione in un dato momento, perfettamente studiato, motivato, del film; ma questa continua dialettica priva la storia della sua naturale ingenuità e rifocilla al contrario uno spartito ridondante e monocorde.

Un film che, preso come satira o come discorso personale, non ha un grande valore artistico. Ma questo non significa comunque che sia un brutto film.




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