domenica 9 febbraio 2020

The Irishman

151 - The Irishman (febbraio 2020)



















È la storia di Frank “Irishman” Sheeran, passato da soldato veterano durante la seconda guerra mondiale a sicario della malavita newyorkese attraverso una serie di contingenze e conoscenze personali che ne segnano il cammino.

A trent’anni da Goodfellas (1990) e venticinque da Casino (1995), Martin Scorsese sembra qui completare una sua trilogia ideale di storia americana, quella particolare storia dentro alla storia che ha legato l’ambiziosa ascesa internazionale degli Stati Uniti agli interessi e agli intrecci politici e criminali interni. In un’epopea virtualmente infinita da raccontare, e che non ha mai smesso di affascinare il grande regista americano (dall’esordio di Mean Streets fino alla TV con Boardwalk Empire), si inserisce qui la storia di un uomo che è stato al centro di quella particolare congiunzione fra sindacati e malavita in un momento cruciale della storia; è di particolare importanza tenere presente come in questo caso Scorsese sposti l’obiettivo della macchina da presa dal contesto storico all’analisi psicologica e, in definitiva, umanistica, del personaggio che segue in soggettiva.

Lo intuiamo fin dai primi secondi di film, quando uno stupendo movimento di macchina ci introduce, come un fantasma dal passato, al Frank Sheeran ormai rinchiuso in un’ospizio che racconta la sua storia in flashback.
In questo senso è uno Scorsese non meno complesso e destrutturato del solito: la vicenda si snoda su tre diversi piani temporali, allo scopo di fornire una serie di impressioni che restituiscono il ritratto del suo protagonista, ma dai ritmi delle inquadrature decisamente più compassati, dai dialoghi meno essenziali e più improntati all’analisi dei rapporti personali piuttosto che alla fascinosa punchline con cui Scorsese stesso ha definitivamente plasmato l’immaginario gangster con i suoi film, il regista modifica la prospettiva, come se lo Scorsese storiografo si facesse da parte, o si rendesse strumentale ad uno Scorsese più interessato ad uno studio del personaggio, come se guardasse indietro non solo al passato dell’America ma anche alla propria carriera, al suo significato.

Se l’azione concitata, l’umorismo grottesco e sfrenato, i personaggi “larger-than-life” di Goodfellas e Casino producevano immagini che si alimentavano della propria stessa ferocia, fagocitando ogni secondo del film, è piuttosto evidente come invece qui Scorsese, rischiando l’accusa di essere ormai al capolinea, abbia voluto svuotare completamente il suo film di una qualsiasi energia cinetica, di quella furia adrenalinica che assieme al susseguirsi degli eventi narrati finiva per portarsi via anche le persone lasciando solo i gusci dei loro personaggi, al fine di portarci dentro al suo film, di entrare nei meccanismi dialogici e psicologici che hanno cementato la cultura criminale, delle convenienze e delle conseguenze che ogni decisione porta con sé.

Se i film precedenti erano più calibrati sulla patogenesi della violenza tout court come schema criminale per spartirsi il potere, questo film ha più a che fare con il rapporto con cui la violenza si lega all’anima di chi ha scelto quella violenza, invitandoci a una riflessione più seria e dignitosa sul tema tanto spesso spettacolarizzato e velocemente consumato, e quindi inconsciamente accettato, metabolizzato, adattato al modello consumistico occidentale che sembra ormai essersi completamente dimenticato di cosa significhi fermarsi a riflettere e comprendere e che vuole invece tutto subito e tutto in serie.

Scorsese ha fatto ovviamente un film sulla malavita, un film che corona una carriera passata a raccontare storie perfettamente americane e che echeggia degli altri grandi capolavori del cinema di genere, ma questo è percettibilmente un film che chiede di più a se stesso, più rigoroso, quasi permeato da uno spirito religioso: c’è un senso di profonda solitudine nella vita del suo “Irlandese” Frank, un male dell’anima con cui la sua particolare resilienza ha imparato a convivere: forse, sembra dire Scorsese, quando riesci a giustificare quello che fai - qualunque cosa sia - trovando conforto e legittimazione in un qualsiasi rapporto umano in grado di trasmetterti un senso di affetto, perfino di famiglia... beh allora, si può essere molto soli e comunque trovare motivi per continuare a fare quello che si fa.

Scorsese ci ricorda che niente passa indenne, e se non è la legge, la società o la famiglia a condannarci, è il tempo che inesorabile passa e seppellisce tutto. Il suo compito, da attento osservatore della storia, è ricordarci in che modo tutto è collegato; e la sua vocazione, da grande osservatore della natura umana, è ricordarci che tutto quello che facciamo rimane con noi e prima o poi, reclama una resa dei conti.



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