sabato 8 febbraio 2020

Once upon a time in... Hollywood

150 - Once upon a time in... Hollywood (febbraio 2020)


Rick Dalton - assieme al suo fido compare Cliff Booth (la controfigura/stuntman) - è un attoruncolo di B-Movie Western riciclato in uno stereotipo di un genere ormai in declino (the bad guy) che sopravvive solo grazie all’entusiasmo delle nicchie di fan e ai tentativi seriali della TV. All’apice di questo momento storico - siamo nel 1969 - il restyling prodotto dall’avvento dei grandi spaghetti western italiani, gli offrirà la chance di allungare la sua carriera, prima dell’inevitabile e definitivo ritiro.

Sono anche i mesi immediatamente precedenti al massacro di Cielo Drive: in una scena hollywoodiana in fermento (siamo sulle colline di Bel Air) Sharon Tate tenta la sua scalata al successo, compare come attrice nei suoi primi film e si lega al regista e futuro marito Roman Polanski.

Come anticipato dalla crasi del titolo, Tarantino riunifica, con l’apparente intenzione di farli convergere, due filoni che sono il suo amore per i western (in particolare quelli italiani) e la storia di Hollywood. Attraverso un montaggio alternato in stile Jonathan Demme (Il silenzio degli innocenti), che ha comunque nelle vicende di Rick Dalton il suo principale punto di vista, assistiamo alla lunga, lunghissima preparazione ad un finale di inevitabile violenza più o meno parodistica.

Perché se da una parte Tarantino gioca con se stesso - il feticismo per il cinema, il montaggio frammentato - promuovendo in senso ironico come vicenda principale la storia di un personaggio che non ha nulla di particolarmente interessante, del tutto estraneo al divismo ma in qualche modo comicamente ambizioso, dall’altra l’ambizione (ad emergere nella competizione, piuttosto che a lasciare un impatto nella società) si imbottiglia di continuo in un percorso che non porta mai a nulla.

Gioca in effetti al gatto con il topo, sfuggendo di continuo al confronto drammatico e facendo leva sull’immaginazione dello spettatore, sulla sua abilità logica nel ricomporre pezzi di una simil-ucronia che ricorda per certi versi il suo Inglorious Basterds, ma che non possiede nemmeno una frazione di quell’intensità emotiva.

Tarantino è spesso stato tacciato di autoreferenzialità, ma sembra qui aver voluto davvero fare un film solo per se stesso, un elaborato quanto sterile esercizio di stile di immotivata lunghezza e formato: un film che appare stiracchiato, stanco, che si consuma per lunghi momenti in una tensione trascinata, senza energia o mordente in quella che è sempre stata la sua specialità, ovvero la brillantezza dei dialoghi e l’imprevedibilità narrativa.

Una minuziosa ricostruzione che sembra avere un unico messaggio, inscritto nel finale tanto atteso: quello di una rivincita morale, forse stizzita e comunque del tutto personale nei confronti di quella parte di critica che lo ha sempre accusato di alimentare un immaginario di violenza, di vivere costantemente in una fantasia per ragazzini. La folle tesi - secondo cui la violenza in TV e nei film giustifica quella sociale - viene letteralmente messa in bocca ad una degli hippie che assalteranno (sbagliando ad interpretare la storia... di Hollywood in un delirio Mansoniano) la casa di Dalton, chiudendo ermeticamente su se stesso sia il discorso narrativo che il commento autoriale sulla violenza del film, evidentemente spinta all’eccesso parossistico e ben lungi dal volersi propagare nella sensibilità pubblica della tragedia del caso Sharon Tate. Dopo averla messa in vetrina, dopo averla letteralmente messa in mostra (il suo nome sulla locandina del film che poi lei stessa andrà a vedere, come fosse una spettatrice piuttosto che un personaggio del film), Sharon troverà la salvezza grazie a quello stesso cinema che Tarantino qui omaggia e incarna; è questo e soltanto questo il trait d’union dei due nuclei narrativi. Tarantino riscrive, o per meglio dire, evade dalla storia inventandole un vicino (il Rick Dalton di Di Caprio) che rappresenta quel cinema vecchio e stanco a più riprese vilipeso e assassinato dalla critica mainstream con l’accusa di scarsa qualità artistica e di fomentare i più bassi istinti... finché alla fine il piano letterale si fonde con quello figurato e Tarantino porta a casa il risultato con un compiaciuto sorriso, mancando di nuovo all’appuntamento con il confronto.

Al di là della sottigliezza di un finale che ha il merito di mettere in discussione i pregiudizi (siano i nostri di spettatori o quelli dei critici cinematografici), risvegliandoci dal torpore delle due ore abbondanti precedenti, il film riesce in modo incerto, senza mai convincere; ad un livello artistico è come se fosse una sintesi, o piuttosto un compendio, più sbiadito e annoiato, dell’intera opera Tarantiniana. Per un cineasta che ha fatto del cinema d’evasione e di intrattenimento il suo marchio di fabbrica, questo è un film complessivamente mediocre, a corto di idee originali, raramente o mai capace di titillare la fantasia dello spettatore se non tramite escamotage d’exploitation, abitato da personaggi anonimi, appiattito da dialoghi fiacchi, continuamente schiacciato sotto il peso di una pseudotensione infantile come di chi non veda l’ora di guardare l’espressione sulla tua faccia alla rivelazione di uno scherzo a lungo atteso.

Il comodo guscio dell’ironia riesce sempre a redimerlo, ma questa volta, probabilmente, serve prendere atto che venti minuti non bastano a fare un buon film.



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