lunedì 10 febbraio 2020

1917

152 - 1917 (febbraio 2020)





Prima guerra mondiale, l’esercito britannico sta per lanciare un’offensiva sul fronte occidentale approfittando dell’apparente ritirata della linea difensiva tedesca. Quello che il battaglione agli ordini del Colonnello Mackenzie non sa è che si tratta di una ritirata strategica e che l’attacco va annullato per evitare una strage: i soldati Schofield e Blake ricevono la missione di portare il messaggio a destinazione attraversando le linee nemiche e le campagne francesi.

Ispirato dai racconti di guerra vissuti in prima persona dal nonno, Alfred, Sam Mendes scrive (in collaborazione con Krysty Wilson-Cairns) e dirige un film tanto epico quanto intimo, tanto spettacolare nella forma quanto semplice e diretto nei contenuti.

L’idea di una regia così soggettiva, parziale, continuamente rifuggente lo stacco di montaggio (che è solo un artificio, poiché il film è in realtà montato per sembrare un intero piano-sequenza) quasi da moderno modello videoludico rende necessariamente coinvolgente la disperata missione dei due soldati, catturata in medias res nella sua paralizzante difficoltà, prolungata dall’abisso di un’incertezza vinta con il coraggio di chi sa di non potersi fermare e dunque così, sempre dinamica ed essenziale. Attraverso i movimenti di macchina in steadicam caratterizzati da insistiti pedinamenti interrotti solo qua e là da panoramiche esplorative, Mendes individua il suo nucleo narrativo nei suoi due personaggi principali, mantenendo sempre quell’instabilità di fondo (“ce la faranno?” “Arriveranno in tempo?” “Chi dei due è il vero protagonista?”) che è caratteristica primigenia della guerra.

Se la regia è definibile come la necessità di fingere per dire la verità, l’opera di Mendes vi adempie perfettamente, anche tralasciando la relativa libertà con cui spesso il genere di guerra permette di interagire, il suo lavoro è enorme, imprevedibile quanto annichilente, tanto studiato e calcolato quanto onesto nel suo messaggio.

Mendes è in qualche modo riuscito nell’impresa di realizzare un film antimilitarista, un film che parla di piccoli e involontari eroi, quelli dimenticati dalle cronache e mai menzionati nei libri di storia e di cui veniamo a conoscenza solo tramite racconti ormai vecchi di un secolo, che è allo stesso tempo in armonia con le sue immagini, che guarda atterrito ciò che lo circonda ma non può fare a meno di fissarlo estasiato, che nelle scene campestri catturate dal suo occhio onnipresente e vigile, fin dove si perde, si fonde in contemplazione di una natura placida e immota, atavicamente bella anche se oltraggiata e completamente indifferente alle sorti degli uomini che la calpestano.

C’è qualcosa di poetico nell’unisono in cui il silenzio rompe il sordo, occasionale, rimbombo dei proiettili e delle granate, nel modo in cui la natura stessa delle cose si frappone come un ostacolo fra l’uomo e il suo destino, e si lega allo sforzo umano, al sacrificio dell’uno per la moltitudine - di fronte ad elementi metafisici come questi, che è particolarmente probabile non notare all’interno di un film così rapido, drammatico e pieno di scene d’azione, si fa strada la riflessione in cui deve essere sintetizzata la guerra stessa: l’eroismo convenzionalmente detto esiste davvero o è piuttosto il richiamo più viscerale e antico dell’uomo che sente nella perdita anche di una sola vita umana, amica o nemica che sia, il peso insostenibile del proprio fallimento umano?

Da un lato è chiaro come Mendes abbia voluto configurare il suo film in un’ottica di grandi valori, valori come la fratellanza, il coraggio e la paura, tutta quell’infinitudine di pathos che inevitabilmente l’epica guerresca porta con sé, ma è attraverso l’ingegno del suo stile di racconto e dunque della sua grande regia ad imporre quei valori, che non sono mai affidati alla banalità di dialoghi stereotipati, o scene strappalacrime o di forte impatto ed anzi, proprio la sua sfida si basa sul nascondersi, sulle continue deviazioni da sentieri già tracciati, sull’urgenza di lasciare fuori ciò che è ornamento, terribile ma sempre ornamento, per mettere a fuoco solo la stretta necessità di un obiettivo vicino eppure così lontano.

Il film di Mendes è un film che virtualmente ha tutto, capace di attrarre ogni sensibilità umana, di ricordarci quanto è brutto temere per la propria vita o testimoniare la morte di un amico mentre ci rivela le contraddizioni di una natura che attraverso l’amicizia, l’empatia, la solidarietà, la compassione, l’humanitas è pur sempre degna di essere celebrata... finché quella stessa natura non si ribella contro se stessa provvedendo al suo stesso annientamento.





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