venerdì 7 febbraio 2020

Marriage Story

149 - Marriage Story (febbraio 2020)



















Charlie e Nicole sono legati da un matrimonio infelice, ridimensionato dalle aspettative che ciascuno dei due ha a proposito della loro relazione. Divisi fra New York (dove si trova la compagnia teatrale del primo) e Los Angeles (dove vive la famiglia della seconda) e con un figlio piccolo da crescere, questa è la storia della loro separazione.

Baumbach riprende quei segni autobiografici che aveva già approfondito da una prospettiva più diretta e immediata in The Squid and the Whale, storia di un ragazzino coinvolto nel doloroso processo di allontanamento dai propri genitori durante il loro divorzio — un’occasione per rielaborare ed esorcizzare il dramma famigliare personale.
Qui il regista fa come “un passo indietro”: tanto soggettivo ed appassionato era stato prima quanto osservatore calmo e imparziale in questo caso, con una regia clinica, che anziché giudicare vuole analizzare, che invece di lasciarsi trascinare dalle emozioni le canalizza in un racconto disilluso che è un gioco di voci e di punti di vista, di dialoghi interiori, di anime messe a nudo.

Attraverso un procedimento che ricorda molto l’ultimo Bergman (ovvi i riferimenti sia a Scene da un matrimonio che a Fanny e Alexander), incalzato da un’indagine scrupolosa dei desideri e delle paure umane che prima ancora di essere studio, introspezione psicologica è quasi un dialogo della natura umana, Baumbach rifiuta nettamente di aderire ai cliché - pur mantenendo nel suo impianto narrativo i tipici stilemi narrativi americani dello storytelling di genere per prenderli di mira assegnando alle figure stereotipate un valore ironico o di critica - e invece pone l’accento sulle vicende umane in contrapposizione a quelle materiali.

Potrà sembrare forse irrealistico il grande silenzio contemplativo, la facilità di comunicazione che caratterizza gran parte delle discussioni dei due protagonisti, letteralmente divisi (geograficamente, emotivamente, legalmente) là dove prima formavano un’unità, ma Baumbach dimostra che si può fare un grande film sul dolore senza dover urlare: a questo film non mancano certo la rabbia e una buona dose di scene madri che lo elevano ad un livello drammatico assoluto, ma esistono storie semplici che sono complicate dalla mancanza di ascolto. Baumbach si assicura che ascoltiamo tutte le voci del suo film, dandoci modo di ricostruire il passato, di formarci un punto di vista neutro, e ancora più importante di entrare in sintonia con le motivazioni di entrambi: un vero miracolo di film.

Semmai, la presa di posizione riguarda tutto quello che sta attorno: dai limiti imposti dalla distanza fisica, al tempo che inesorabilmente cancella sogni e speranze, alle pressioni sociali, fino alla schiera di profittatori e avvoltoi che pasteggiano sulla disgrazia innescando un teatrino della miseria umana a cui i due protagonisti riescono intelligentemente a sottrarsi.

Talvolta iper drammatico (come non ricordare la meravigliosa sequenza del litigio?), talvolta nostalgico e sognante; fitto di dialoghi senza essere verboso; ora disilluso, ora risolto nelle rivelazioni del dramma confessionale lungo approfondite esplorazioni spirituali che sfociano in puri attimi di lucidità e compassione, il film è tutto magnificamente recitato ed ispirato particolarmente nelle interpretazioni di Scarlet Johansson e di Adam Driver, capaci di una dignità, di una vulnerabilità, di un tono ed un’espressione che dà la sensazione di una continua ricerca, artistica oltre che individuale, all’interno dei rispettivi microuniversi che rappresentano. È impossibile assistere in questo film ad un qualsiasi dialogo fra i due e non captarne tutto l’amore, il rispetto, il trattenuto dolore che viene a malapena tenuto a bada per imporre all’orgoglio e ai più negativi impulsi egoistici il senso di una storia che ha più risonanza di un pezzo di carta, che non finisce solo perché ci si dice addio; ed in senso più lato è il racconto del fallimento con cui chiunque di noi deve fare i conti prima o poi nella vita: è impossibile affrontarlo senza rimanerne in qualche misura annichiliti, ma si può essere onesti con se stessi e con gli altri, si può crescere e maturare facendo la cosa più giusta, anziché quella più conveniente.

Il cinema indipendente di Baumbach ce lo ricorda perché ci permette di vedere i suoi personaggi per quello che sono realmente anziché sulla base dei soliti stereotipi che nel cinema narrativo classico servono a far procedere la storia; in un certo senso il film ha più a che vedere con il teatro che con il cinema (o le web TV), è la somma esatta di una straordinaria sceneggiatura e di grandi interpretazioni, il resto è vago, scarno, come un sottofondo di scarsa importanza. Le concessioni sono autobiografiche, le dinamiche interne caratterizzate da coerenza e realismo e la sua regia sa essere geniale e spiazzante (come nella sequenza introduttiva) mentre allo stesso tempo si nasconde e mostra la sua resistenza a concedersi, vince la tentazione di autocelebrarsi.

Anche le nevrosi famigliari, da sempre segno distintivo del suo cinema e a volte esagerate fino alla caricatura o all’eccesso dialogico destinato a mostrare la corda (vedi il riuscito a metà The Meyerowitz Stories) sono diluite con credibilità e naturalezza nelle trame di un disagio che ha bisogno di essere sempre all’interno del discorso per poi essere arginato e metabolizzato.


Con un occhio al passato (il già citato Bergman, ma anche capisaldi come Kramer vs Kramer, The Crowd di King Vidor, ecc) e uno al presente di un panorama indipendente (di cui Baumbach è uno dei moderni pionieri) che riesce sempre più a mettere in mostra la propria grandezza, film come questi ci ricordano che il cinema del 2020 non è solo lo spettacolo visivo dei grandi blockbuster e nemmeno l’asettico, indifferenziato paradigma del mondo on-demand dominato da un’offerta spesso anonima, ma anche il risultato di nuove possibilità dell’industria che garantiscano agli autori più originali una sempre maggiore libertà creativa, necessaria per un cinema che sappia guardare avanti senza dimenticare agli enormi traguardi che ha raggiunto. Ogni tanto capita di dover assistere a un grande film per conservare quest’ottimismo.




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