martedì 4 febbraio 2020

Joker

146 - Joker (febbraio 2020)





La lunga, inesorabile, irreversibile discesa nel baratro della violenta follia di Arthur Fleck, ovvero Joker, secondo Todd Phillips passa attraverso l’esperienza quasi insostenibile del dolore quotidiano, dell’umiliazione, dell’alienazione secondo modelli che si rifanno platealmente ai temi classici dell’esistenzialismo; e non sono casuali, a questo proposito, i riferimenti più o meno ovvi a Taxi Driver: così l’ambientazione cupa e claustrofobica della Gotham City grottescamente stilizzata e canonizzata attraverso Batman, diventa qui lo scenario più realistico, più familiare di una città che ha più cose in comune con la New York di Scorsese.
La gioventù allo sbando e la corruzione morale della società post-Vietnam, quella in cui il De Niro (altro tratto comune) di Taxi Driver scivolava silenzioso senza trovare conforto o riferimenti diventa qui lo spettro di una società fantasma, nelle intenzioni del suo autore non troppo distante da quella attuale, incurante e distratta dalla propria sete di protagonismo, che avverte le pulsioni sociali del proprio tempo e si prepara a recepirle non appena raggiunto il punto di non ritorno.

Ed in effetti, il film Phillips è un costante esercizio di esagerazione, di deformazione; perfino nel suo concept di partenza, nella sua idea di ripensare i canoni del Joker (cattivo per definizione, ridotto ad una menomazione fisica che è lo specchio della sua abiezione morale) come un personaggio dei nostri tempi, o che i nostri tempi potrebbero produrre, e quindi di umanizzarlo lungo il processo che genererà il mostro (che come ci insegna la tradizione del racconto horror è lo scarto vergognoso di una società che nasconde la propria paura per ciò che non è normale) è di quelle che suscitano curiosità.
Se tutto quello che riguarda la tua esistenza è sofferenza e falsità, e se non è possibile trovare aiuto, affetto, o perfino un’identità di seconda mano con cui presentarsi al mondo, allora la strada è segnata.
Se non c’è più spazio per l’umana compassione, se perfino la povertà e la malattia mentale sono trattate con indifferenza, allora l’unico agente aggregante è la violenza, la sopraffazione, il rovesciamento delle prospettive, sembra veicolare la perversa retorica del film.

Phillips rincara la dose e la straordinaria intensità di Phoenix prende il sopravvento: è probabile che molti dei concetti su cui ruota la sua interpretazione fossero studiati a tavolino, ma niente può preparare o spiegare quello che il protagonista di questo film è in grado di mostrare.
Le maschere di trucco come artificio per nascondersi, la risata come simbolo palindromo di una tragicommedia che attraversa la malattia prima e la follia criminale poi, la violenza pseudo-farsesca, pseudo-rivoluzionaria (e più che altro populistica, assurda, blandamente motivata) che rifà il verso a V per Vendetta... tutti questi sono elementi con cui la sceneggiatura gioca, e a cui la regia stenta a dare una forma riconoscibile, e che in assenza di una prova psicologica così di spessore come quella di Phoenix rischierebbero di affondare in un grande pasticcio.

Ma in qualche modo la tensione emotiva, l’essenza primitiva che si agita all’interno di questo film, l’empatia che trascende i confini geografici o fumettistici entro cui questa storia è ricompresa, invitano a prendere atto di un racconto che si tiene insieme da solo, non senza occasionali sbandate ma comunque maturo abbastanza da essere preso sul serio.

Il film può solo biasimare se stesso invece per la scarsa originalità che caratterizza diverse scelte autoriali (è nello stile manierato che si avvertono le più grosse difficoltà della regia), condite poi spesso da trovate ad effetto o completamente vuote di significato; è solo la meravigliosa catarsi che lo sguardo egoista sul suo protagonista procura ad impedire la consapevolezza di un film che ha poco da dire di nuovo o di sostanziale rispetto alle sue stesse ambizioni, che crolla sotto il peso nichilistico della sua cupezza senza dare davvero alcuna motivazione per cui qualunque cosa nel film accada nel modo in cui accade, senza appello alcuno.
Nello sforzo di rovesciare quel manicheismo di fondo che è irriducibile nella forma fumetto, Phillips ha realizzato un film-fumetto tanto atipico nella forma quanto simile nella sostanza, e per di più commettendo l’errore madornale di confondere cinema d’evasione e realismo.

L’indeterminatezza, l’ambiguità che anche nella nostra esperienza umana ci guida tra lucidità e oblio, tra relativismo e realtà oggettiva, tra cosa sia reale e cosa no... sono questi temi immortali, quelli che danno respiro alla performance del Joker, a rendere accattivante questa storia, a spingerci a credere nelle verità del film, alla sua vacua estetica decadente, ma non si possono ignorare le sue debolezze fingendo che non esistano proprio come non si può ascoltare lo sproloquio di un pazzo senza inorridire profondamente.


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