venerdì 22 febbraio 2013

Les Misérables, per la prima volta musical per il cinema. Hooper dirige con formidabile intensità una rivoluzione interiore ed esteriore


64 - Les Misérables (febbraio 2013)




Dal palcoscenico di un teatro al grande schemo cinematografico. Uno dei più famosi musical di Broadway e del West End Londinese nelle mani di Tom Hooper, già regista acclamato per Il discorso del Re.
Un capolavoro del suo genere, in tempi come questi, non esattamente clementi.

I personaggi del famosissimo romanzo di Victor Hugo prendono vita in forma nuova, e con rinnovato stupore in un'opera straordinariamente intensa e struggente.
La formidabile coralità, risorsa primaria di un testo quantomai ricco e variegato, è esaltata da una regia brillante e dalle singole interpretazioni.
Perché non si può parlare di questo film senza iniziare dall'evidenziare le singole performances.

A partire ovviamente da Valjean (Hugh Jackman), la parabola di un prigioniero redento, cieco d'odio per un mondo che lo ha sempre odiato e reso libero dall'amore per Cosette, la figlia di Fantine (Anne Hathaway), una donna portata alla disperazione e alla perdita di ogni dignità; e che nonostante i suoi tentativi di vivere una vita onesta sarà sempre insidiato da Javert (Russell Crowe), implacabile guardia carceraria priva di sfumature per il quale il male non può che reiterarsi secondo gli stessi schemi, e poco importa se il crimine di Valjean è solo quello "di aver rubato un pezzo di pane" per sfamare la figlia della sorella.

Sono questi, i miserabili. Fra di essi, le vicissitudini della Rivoluzione Francese, le barricate, l'orgoglio patrio e il dolce rigoglio della speranza, sia travestita da fiera resistenza nel soccombere ai colpi di cannone della Monarchia o sia una multiforme luce interiore ad indicare il cammino.

Hooper dirige con il piglio del veterano un cast brillante, ridefinisce dinamiche ed intrecci basati sulla sceneggiatura adattata da William Nicholson e reinterpreta il melodramma musicale aggiungendo accenti e tocchi stilistici personali (ad esempio nelle inquadrature e nel dosaggio dei tempi, non esattamente gli stessi del teatro).
Consapevole di ciò che ha a disposizione, mantiene mano ferma e concede libertà d'espressione ai suoi talentuosi attori. Esempio ne sia la decisione di "catturare" le performances musicali di ogni scena dal vivo (e non registrando in studio per poi recitare in playback): sinonimo di rispetto, per la musica e per l'impegno artistico del cast, entrambi le cosa migliore del film.

Elemento portante è un Hugh Jackman vergognosamente bravo, per un personaggio straordinariamente complesso e che è l'unico a conservarsi nell'intero asse temporale dell'opera. Assieme ad Anne Hathaway (memorabile il "sogno" della sua Fantine) raggiungono un livello quasi metafisico; ma senza dimenticare l'ossessiva austerità del Javert di Russell Crowe, la sfrontata malizia dei coniugi Thénardier di Sacha Baron Cohen ed Helena Bonham Carter, il trasognamento del Marius di Eddie Redmayne e della Cosette adulta di Amanda Seyfried; il canto del cigno dell'Éponine di Samantha Barks.

Di certo sono molto di aiuto le musiche di Claude-Michel Schönberg, con alcune delle liriche più toccanti si possano ricordare nel genere, alcune di esse modificate ad hoc per la trasposizione.
Un film in cui inevitabilmente l'estetica della prova attoriale si fonde con l'intimità emotiva di ciò che viene cantato/recitato.
In particolare vale la pena di ricordare il soliloquio di Valjean, la magnifica "Suddenly", il succitato sogno di Fantine, i canti degli studenti in rivolta dietro alle barricate, l'epico epilogo.

Una rivoluzione che trasuda da ogni palpito di ogni scena, un'opera drammatica potente e prorompente.
Ma anche uno spettacolo, sotto agli occhi dello spettatore ma, prima ancora, ridotto alla soggezione del silenzioso firmamento, composto di quelle stelle che guardano dall'alto Javert come lui stesso guarda dall'alto i prigionieri del suo carcere; come i nobili francesi fanno con il "piccolo popolo" che muore di fame lungo le strade Parigine.

E nell'attesa di un giudizio divino, perché "tutti sono uguali, quando sono morti" (la grande verità del piccolo Gavroche), c'è chi è "schiavo della legge" e dei giudicamenti ultraterreni che altro non sono che l'insopportabile compassione di se stessi, e c'è chi cerca in quell'ispirazione la ragione per diventare una persona migliore.

Il tutto nella voluttuosa e perpetua fiamma chiamata ad agitare l'animo umano: sarai abbastanza forte da vedere oltre la barricata il futuro che vuoi, quando arriverà?




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giovedì 21 febbraio 2013

La storia (vera) di un'ossessione, dove la verità storica coincide con quella letteraria: Zero dark thirty


63 - Zero dark thirty (febbraio 2013)




"Zero dark thirty", come rivela la regista Kathryn Bigelow, è quel termine appartenente al gergo militare che vuole intendere i trenta minuti dopo la Mezzanotte, l'orario dell'inizio dell'operazione dei Navy Seals che procedettero alla cattura e all'uccisione di Osama bin Laden l'11 maggio 2011 e che viene rappresentata nell'ultima cruciale scena del film.
Allo stesso tempo, quel "dark", cioè "oscurità" vuole chiaramente riferirsi ai contorni ombrosi della lunga vicenda.

Una vicenda che ha una durata di 8 anni e che ha origine quando nel 2003, Maya, un'agente della CIA fresca di ateneo viene spedita all'ambasciata degli Stati Uniti in Pakistan, dove assisterà alle sue prime torture di detenuti con sospetti legami con terroristi collegati al gruppo Saudita.
Parte da questo preciso momento, in una consumante caccia all'uomo, la santa missione di Maya, una (breve) intera carriera dedicata alla cattura dell'uomo che ordì il terribile attentato dell'11 settembre con le cui traumatiche testimonianze sonore la Bigelow apre il suo film.

Un'ossessione ed un'insistenza che la vedono provata, trasformata, non solo per l'estenuante ricerca ma anche per le vicissitudini che vedono coinvolta lei e colleghi in attentati. Nonostante questo non si fermerà mai, fino all'evidenza della prova finale e risolutiva, fino alla maturata consapevolezza che in lei non è rimasto altro che il vuoto, nemmeno più lo spauracchio inoffensivo che agitava i suoi pensieri.

Il tipo di personaggio protagonista che ha in mente la Bigelow, e che affida non casualmente ad una donna, Jessica Chastain, come a voler identificare in essa una proiezione di se stessa all'interno del film (Maya era anche l'agente CIA con cui Boal, lo sceneggiatore, ebbe contatti) è un personaggio che a partire dalle timide battute iniziali e attraverso il logorio causato dalla snervante operazione trovi un'evoluzione definitiva e significativa di una battaglia che Maya conduce in prima persona ma in fedele rappresentanza dell'idea di un popolo riunito che ancora aspetta(va) giustizia.
Il volto di Jessica Chastain non appare però adempiere totalmente a questa missione, forse evidenziando anche una non perfetta compatibilità con la parte. Il trasporto ansiogeno, estremizzato, fino alla consumazione fisica non si addice al bellissimo (e perfetto) volto etereo della Chastain, ed evidentemente siamo anni luce da un'interpretazione ben più realistica come può essere ad esempio quella della collega Claire Danes nel serial Homeland.

Dove invece il film fa centro è nella messa in mostra senza censure né riserve di quello che accadde, anche quando al mondo si negava che accadesse.
La Bigelow, assistita dal suo consueto spirito ribelle, non si tira certo indietro e dà una rappresentazione tout court dei modi del suo paese. E lo fa sia attraverso l'inconfutabile ed "autoesplicativa" violenza delle immagini sia nella messa alla berlina del sistema di pensiero imposto dall'alto, un sistema che al di là della facciata ipocrita mostrata nel succedersi di un'Amministrazione all'altra, si mantiene lo stesso.

La regista Californiana, piuttosto affezionata al cinema di guerra, può quindi cogliere al balzo l'occasione di raccontare ancora una volta una storia incredibile, e a tal punto è appetibile la storia della cattura dell'uomo più ricercato al mondo che l'originaria sceneggiatura, pronta per un altro film, venne totalmente riscritta basandosi comunque sulla documentazione raccolta.
Nuovamente in collaborazione con Mark Boal, che scrisse dunque la sceneggiatura (oltre a co-produrlo) di una vicenda dall'epilogo noto ma dai passaggi intermedi oscuri, secretati. La soddisfazione di una vera outsider come la Bigelow nel far emergere dettagli succulenti dell'operazione traspaiono da una pellicola in cui davvero non c'è un attimo di tregua.

Al veloce incedere degli eventi, al senso di pressione che pervade l'avvicinarsi dell'ultimo, liberatorio tratto cui con abnegazione la Bigelow ci prepara, miscelando con mestiere riflessione e tensione, fanno da sfondo immagini esemplificative di una continuazione tematica del suo cinema.
Se in The Hurt Locker l'esaurimento era una condizione silenziosa dovuta all'imprevedibile letalità della guerra vissuta sul campo di battaglia, qui è sintomo fisico e nevrotico di un'angoscia più profonda e radicata, perché coscienza collettiva, perché simbolo traslato di un'invisibile sospensione "Damocliana".

Arricchito di un Golden Globe e di 5 nominations, questo film si mostra dunque piacevolmente duro e crudo. Non c'è l'interesse morboso a stupire o a shockare, quello che ci viene mostrato è successo davvero.
Nel compulsivo bisogno di vedere e di (far) sapere però, la Bigelow si (e ci) ricorda che la ferita è ancora in via di rimarginazione: non ci viene risparmiato nemmeno il più truculento o umiliante dei dettagli delle torture, né la brutalità dei sanguinosi attentati e nemmeno l'omicidio a sangue freddo di donne inermi piante dai propri figli.
Ma non c'è un solo istante in cui l'irrequieta macchina da presa inquadri il volto dell'uomo da cui tutto ciò ha avuto origine.

Rimane invece spazio e tempo per le lacrime. Un momento perfetto: una liberazione tanto attesa o la prima crepa consapevole nel proprio, confortante, sistema di certezze?
Entrambe, probabilmente.




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mercoledì 20 febbraio 2013

Il mitologico Lincoln secondo Spielberg: un'opera complessa e straordinariamente potente


62 - Lincoln (febbraio 2013)




Anno 1865, mentre la sanguinosa guerra civile Americana sta volgendo al termine, assistiamo agli ultimi mesi della vita e dell'opera politica di Abraham Lincoln, determinante per la ratificazione del noto Tredicesimo Emendamento della Costituzione che abolì definitivamente la schiavitù in ogni sua forma all'interno della nazione.
Spielberg ci proietta in una full immersion di notevole impatto in quello che è il dettaglio storico di quegli ultimi mesi, dalle innumerevoli difficoltà incontrate nel superare la resistenza nei confronti del varo di quel provvedimento epocale fino al suo assassinio, a guerra ormai conclusa.

La complessità del quadro di allora, dato dal malcontento per le numerose vittime del prolungato conflitto interno, dal surriscaldamento degli animi in un Congresso che rappresentava un Paese quanto mai diviso e dalla molteplicità degli interessi in gioco nella questione, è restituita attraverso una sceneggiatura estremamente articolata e "cavillosa".
Si intuisce come l'opulenza degli avvenimenti finisca per sopraffare almeno un po' anche un grandissimo autore come Steven Spielberg che viene letteralmente rapito dalla storia che si affastella davanti ai suoi occhi al punto di non rendersi perfettamente conto del fatto che il suo film, pur tecnicamente eccelso come spesso gli capita, avrebbe forse bisogno di due cose: una maggior chiarezza nell'esposizione e più respiro.

E' evidente come questo sia un film che per sua peculiarità non può fare a meno di un certo tipo di formazione, di uno sguardo attivo e consapevole. Peraltro lo sforzo nel donare dignità ad un contesto controverso di cui comunque non si nasconde nulla, denota un indirizzamento abbastanza preciso verso quel sentimento patriottico a stelle e strisce che è ragione tra le ragioni delle simpatie dell'Academy per questo film; il tutto senza sminuire il lavoro di Spielberg che è dei suoi, nonostante l'argomento sensibile, uno di quelli più storicamente attenti, precisi, e scevri di quella retorica che ha contrassegnato parte della sua cinematografia.

Il Lincoln di Spielberg è umano, sanguina proprio come noi e allo stesso tempo gode di un'elevazione elegiaca che è la stessa dimensione storica ad avergli giustamente conferito.
La regia se la cava egregiamente in questo livellamento. L'amore devoto che il popolo riconosce in questo suo leader, la grande fiducia riposta nella sua saggezza non oscurano le avversità per l'audacia dei suoi pensieri; le sottolineature sul suo esemplare senso dell'etica non rimuovono (ma anzi le ampliano) quelle sfaccettature della sua personalità che ci mostrano un uomo disposto a (quasi) tutto nel perseguimento di una "matematica" fede nella giustizia.

Se da una prospettiva ne viene esaltato l'ardire, che trova il colmo nella posposizione della fine dei trattati con i confederati rispetto alla priorità del problema razziale, dall'altra viene sempre ricordato come il modo d'agire appartenga pur sempre a quello di uomo (politico per di più), che può agire per sotterfugi e cavalcare le stesse debolezze di un sistema difettivo: la "compravendita" del voto dei c.d. Lame ducks, la raccomandazione insincera (anche se tecnicamente veritiera) fatta al Congresso dell'inesistenza di inviati Confederati a Washington; lo sfruttamento da parte di Lincoln della sua esperienza di avvocato. Un uomo "del mondo".

Se poi c'è l'affetto del popolo o il successo del suo lavoro, per contro c'è da pagare il prezzo del sacrificio che sopporta non solo dal punto di vista personale, ma anche familiare (gli scontri con la moglie, le difficoltà con i figli).

Ma l'iconografia del Lincoln di Spielberg è ottimamente raffigurata anche nella sua ordinarietà. Pur senza volersi riferire al personaggio sotto forma di biopic (di fatto il film ne affronta solo un periodo significativo e peraltro lo allarga agganciandolo alla storiografia americana) ne esce un ritratto commoventemente autentico, il cui spessore drammatico è incarnato dalle fatiche di un Daniel Day Lewis ancora una volta sublime (e favoritissimo per l'Oscar): il suo Lincoln possiede la serafica ponderatezza, lo spirito dello humour, la passione per gli aneddoti dell'originale.
Incommensurabile avvaloramento, la sua prestazione, che si unisce ad una parificazione estetica impressionante (sembra quasi riportato in vita).

Ancora una volta tecnicamente ineccepibile (su tutti la fotografia di Kaminski e le musiche di John Williams, storici collaboratori di Spielberg), come le sue 12 nominations in parte spiegano, è ad oggi il grandissimo favorito all'Oscar 2013. Anche perché sicuramente fra tutti è il più completo. Come detto non solo è ottimamente realizzato, ma può vantare una sceneggiatura notevole (adattata dal romanzo Team of Rivals: The Political Genius of Abraham Lincoln di Doris Kearns Goodwin), un mix di attori spettacolare, fra cui andrebbero ricordati quantomeno l'integerrimo Tommy Lee Jones e David Strathairn, fra gli altri; e la regia di Spielberg che è sempre una garanzia.

Il film più compiuto fra quelli in lizza: tecnicamente ben fatto ma anche appassionante. Decisamente cervellotico, ma non freddo, o privo di emozioni.
Tuttavia, resta per così dire, l'idea di un film "privato", non soltanto nel rapporto personale che indissolubilmente lega il suo protagonista allo spettatore su cui si gioca gran parte della scommessa dell'autore, ma soprattutto nell'unidirezionalità tematica e contenutistica di quella che è per gran parte cronaca e mito Americano.

Se la razionalità impone di pensare alle conseguenze delle proprie azioni (l'uguaglianza porta al diritto di voto e quindi all'integrazione sociale), esiste però un momento preciso in cui l'urgenza morale deve superare qualunque remora e Spielberg fa nient'altro che questo: va dritto al cuore della questione, dove è impaziente di giungere, senza, per una volta, preoccuparsi però di portarci per mano anche lo spettatore.




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domenica 17 febbraio 2013

In equilibrio fra dramma e commedia, Silver linings playbook


61 - Silver linings playbook - Il lato positivo (febbraio 2013)




Dopo otto lunghi mesi passati in un istituto psichiatrico Pat, ex supplente di storia, torna a casa. La sua vita ha preso una brutta svolta in seguito ad un'aggressione ai danni dell'amante della moglie per la quale ha rimediato un'ordinanza restrittiva e la diagnosi di un disturbo bipolare.
Con tutta la strada da rifare e la riconquista della moglie come pensiero fisso, incontra però Tiffany, giovane vedova. L'intesa è praticamente istantanea, tanto è il dolore e la tendenza all'eccesso che condividono.
Tiffany smuove, unica, in Pat un effettivo interesse quando gli promette di avvicinare la moglie per consegnargli una sua lettera in cambio del suo aiuto per un concorso di ballo.

Sono proprio l'insistenza, la brutale schiettezza e l'esperienza in prima persona della ragazza a determinare in Pat una nuova nascita, un riavvicinamento alla vita.
Mentre chi gli sta intorno lo invita a calmarsi, ad ingozzarsi di medicine, a sedersi per vedere una partita di football, cioè all'immobilismo, Tiffany lo affronta apertamente e nel risultato dirompente della follia con cui si trovano ad avere a che fare germogliano i semi di un'affinità elettiva che inevitabilmente volge ad un certo epilogo.

Trasposto dal romanzo di Matthew Quick "L'orlo argenteo delle nuvole" in una sceneggiatura scritta dallo stesso regista David O. Russell (The Fighter), questo film si propone in sostanza come film drammatico con parentesi sentimentali piuttosto evidenti.
Se il tema trainante della psicosi è affrontato con grande delicatezza ed efficacia in tutte le sue sfaccettature, è anche vero che la drammaticità dell'opera viene più volte messa alla prova, sfidata.
D'altra parte lo stesso titolo vuole individuare in un'espressione idiomatica ("silver lining") un aspetto confortante, la speranza; ed è su questo versante che Russell opera silenziosamente, mentre mette sul tavolo alla più completa rinfusa tutta una serie di elementi destabilizzanti come i suoi protagonisti.

C'è il "collega" psicotico Danny, l'amica Tiffany, lo psichiatra completamente senza senso, il padre stesso che soffre di manie ossessivo-compulsive ed ha precedenti di episodi violenti. L'occhio irrequieto di Russell si fa strada persino nelle nevrosi della vita famigliare dell'amico Ronnie, all'apparenza perfetta; come a volerci dimostrare che la follia altro non è che un filo sottile comune a tutti i personaggi della "sua" Philadeplhia e, fuor di metafora, della vita stessa.

E come la vita reale, niente è solo tragico o solo divertente, ma talvolta capita che qualcosa abbia entrambe le connotazioni in sé.
Ed è questo, per certi versi l'autentico lato positivo.

Qualunque sia l'intoppo, la vita prosegue, e nella sua affidabile imprevedibilità (aka follia) può metterti di fronte al paradosso più grande, ovvero quello che ti apre gli occhi e rimuove l'ostacolo contro cui era inevitabile continuare a scontrarsi.
E nella vastità di tutto questo è così l'amore, il sentimento irrazionale per eccellenza, ad incarnare questo paradosso e ad un tempo lo spiraglio oltre il quale guardare con rinnovata fiducia.
La follia esiste sotto innumerevoli forme, assicuriamoci di riconoscere quelle positive, è in sintesi il concetto. E nel frattempo, le "domeniche" continueranno a susseguirsi e ad essere dove sono sempre state, come i (bei) ricordi.

Una sceneggiatura adattata più che ben scritta (nominata all'Oscar) pervasa da un'irrefrenabile ironia. I suoi personaggi sono fortemente accentati di eccentricità, rilevano ed incuriosiscono.
Con il film che inizia, si ha quasi la sensazione di conoscerli già, e con un background così delineato, il passo successivo di Russell è quello di ragionare su piani sovrapposti (si passa dall'aggressione quasi omicida, alla malattia mentale, fino all'idillio sentimentale passando per lo spaccato di vita familiare trattato in pieno stile dramatic comedy) e di ingenerare nello spettatore un senso di urgenza sintetizzato alla perfezione nei dialoghi e nella recitazione, entrambi forsennati.

Con una Jennifer Lawrence, elemento di spicco fra le ultime leve, che dai tempi del già ottimo esordio di Winter's Bone sembra migliorare di film in film; un Bradley Cooper che dopo una serie di commedie più o meno considerabili (si narra sia stato scelto direttamente dal regista, quando la parte originariamente avrebbe dovuto essere di Mark Wahlberg) è una delle sorprese molto gradite di questo film; come non bastasse, Robert De Niro e Jacki Weaver. Come a voler esagerare.
Ben quattro le nominations per la sola recitazione, oltre a quelli più importanti. Un ottimo viatico in ottica Oscar, soprattutto con la seria possibilità di una conferma per J. Lawrence, anche da parte dell'Academy, per il ruolo che già le è valso il Golden Globe.

Per un film che merita attenzione, perché rappresenta quell'ideale mix fra scrittura e recitazione di cui sempre più spesso si pensa di poter fare a meno. E questo film non solo ne esce avvalorato, ma ha bisogno di preservare questi sottili equilibri, e la regia di Russell non tradisce.
E anche se alla fine ci si perde un po' per strada, resta comunque l'idea allettante dei propri riferimenti. Che non scompariranno mai.




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sabato 16 febbraio 2013

Il western ai tempi dello schiavismo: Django Unchained


60 - Django Unchained (febbraio 2013)




Sono gli ultimi anni del periodo schiavista americano. Durante il trasporto di alcuni schiavi di colore appare dal nulla un certo Dr. Schultz, il quale in particolare si offre di pagare profumatamente per uno di loro, Django. Quest'ultimo è infatti in grado di identificare alcuni ricercati cui era in precedenza appartenuto e a cui l'uomo, in realtà un cacciatore di taglie, sta dando la caccia.
Lo libererà ed in cambio del suo aiuto gli promette di trarre in libertà anche la moglie Broomhilda. Per farlo, i due dovranno ordire un piano che prevede l'inganno di Calvin Candie, un ricco proprietario di una piantagione in Mississippi, per un epilogo decisamente sanguinoso e Tarantiniano.

Sottolineato dallo stesso Tarantino come un'ideale continuazione del suo precedente Bastardi senza gloria, e rivisitazione storica di un periodo buio come quello dello schiavismo (tema quest'anno posto all'attenzione anche grazie a Lincoln) con fare tributante dello Spaghetti Western, Django Unchained deve molto, non ultimo il suo nome, al Django di Sergio Corbucci.
Il regista americano fonde, come gli è consueto, più caratteristiche anche contenutisticamente molto diverse, e si lascia trasportare dal cinema che ha imparato ad amare.
Così ritroviamo la solita immane serie di riferimenti cinefili (scene, inquadrature), omaggi dichiarati (la comparsata di Franco Nero, protagonista del western del 1966), e rimandi a quella che tuttora rimane una grossa fetta e nota dolente di una storia, quella Americana, di cui Tarantino non sembra soffrire però l'incombenza.

Non c'è particolare resistenza nell'uso ripetuto della parola "negro", né nello sfruttamento della tematica centrale del rapporto di sottomissione che lega l'uomo bianco a quello nero esplorato con l'avvedutezza consapevole di un cultore della Blaxploitation degli anni '70, e neppure c'è un eccessivo freno alla violenza esplicita cui si ricorre ad ogni livello (elemento comune, questo, a praticamente tutti i suoi film).

La violenza stessa è una citazione (Django fu considerato uno dei film più cruenti fino alla sua epoca) e allo stesso tempo un'esigenza per fermare l'istantanea e dare la giusta connotazione alla brutalità del contesto; è poi la chiave di un discorso che passa attraverso gli estremi schiavitù/libertà, sottomissione/ribellione: chiave di volta per la rappresentazione dell'oppressione e strumento risolutore degenerante nella vendetta di una espiazione purificatoria, quasi elevata a processo rituale solenne.

Se ci si impunta sull'esegesi del significato, sulla convinzione etica che permeerebbe (a detta di alcuni critici) determinate scelte di mostrare una sofferenza atroce e di sfruttare a scopi ludici quella che è stata indubbiamente una delle più grandi tragedie dell'umanità, la sensazione è che non si voglia prendere atto di una constatazione semplice: esiste una linea retta che lega film come Le Iene, Pulp Fiction, Jackie Brown
, Kill Bill e lo stesso per certi versi molto pertinente Inglorious Basterds ed è qualcosa che sistematicamente si discosta dalla volontà di trarre insegnamenti, dedurre arzigogolamenti privi di senso o peggio ancora morali.

Questo tipo di concezione non appartiene al cinema Tarantiniano, che rigetta per principio qualunque responsabilità, perché si tratta di un cinema viscerale, istintivo, costruito sull'entusiasmo di un uomo che riscopre ogni volta i propri miti.
E così fa qui, mantenendo la desinenza storica ma ridefinendo una storyline lineare che parla al lato animale dello spettatore. Che gli parla ancora una volta di vendetta, che gli fa desiderare la libertà quanto al suo protagonista ma che non gli risparmia una crudità sincera, ma non autocompiaciuta, che è intrinseca al sottofondo di riferimento.

Dal punto di vista tecnico non si può fare a meno di notare come sia l'ennesima sceneggiatura robusta ed incredibilmente intensa, al punto da non uscire certo con le ossa rotte da ben 165 minuti di una pellicola effettivamente un po' prolissa ma assolutamente non pesante.

C'è una bellezza puramente estetica, ben evidente ad esempio nella ricercatezza linguistica di Schultz (Waltz poi è immenso a rendere il personaggio anche con il suo impressionante poliglottismo), nell'appassionante scambio di battute di tutti i suoi personaggi, nel respiro interiore che sembra impossessarsi delle pause fra una scena e l'altra.
Tarantino vuole costruire qualcosa di narrativamente stimolante e la recitazione lo aiuta molto in questo: Christopher Waltz, Jamie Foxx, Leonardo Di Caprio, ma anche Samuel L. Jackson e la bravissima Kerry Washington trasformano un ottimo potenziale in un film corale che può permettersi il lusso di avere più personaggi principali.

Uno degli ennesimi, divertenti e spettacolari film di un genio dell'intrattenimento. Dichiaratamente orgoglioso di ciò che è (e di ciò che ama, che è poi la stessa cosa) e che non ha bisogno di sentirsi riconosciuto oppure omologato; persino imbrigliato.
Un'inesauribile e prolifica mente che si bea dell'altrui discordia, dall'alto di una visione complessiva e totale dell'arte, e che prestando fede a quest'ultima, ha sempre come esito il suscitare una qualche reazione.

In attesa della prossima invenzione.




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venerdì 15 febbraio 2013

Affleck alle prese con il dramma storico: Argo


59 - Argo (febbraio 2013)




In seguito alla decisione degli Stati Uniti di dare rifugio al deposto Scià d'Iran, autore di barbari eccidi, rivoluzionari Islamici assaltano l'ambasciata Americana a Teheran, prendendo in ostaggio l'intero staff ad eccezione di sei di loro, che riescono a fuggire tempestivamente senza essere notati e a trovare riparo nell'abitazione dell'Ambasciatore Canadese.
Mentre la principale operazione di salvataggio è sotto agli occhi del mondo intero, viene tenuta segreta quella dell'esfiltrazione, condotta sottotraccia dallo specialista CIA Tony Mendez, il quale ha l'idea di portarli in salvo fingendo una produzione di un film di fantascienza: Argo.

Ai sei vengono date identità false e parti da recitare. L'operazione rimarrà in bilico (ed in pericolo) fino all'ultimo momento non solo per i problemi a superare la sicurezza Iraniana, ma anche a causa dei problemi da parte del Governo Americano a manifestare un suo coinvolgimento nella vicenda.

Come è noto infatti, il cosiddetto Canadian Caper, i cui avvenimenti cerca di trasporre sul grande schermo Ben Affleck, si concluse con la liberazione dei sei fuggitivi, ma di fatto il merito fu ascritto al paese Canadese e al suo ambasciatore.
Al suo ritorno, Mendez ottenne l'Intelligence Star ma a causa dei dettagli secretati non fu un riconoscimento effettivo.

Affleck parla della crisi degli ostaggi del 1979 ma in realtà ci vuole raccontare la storia di Tony Mendez (da lui stesso impersonato), il suo "Schindler": Mendez rappresenta l'eroe fatto di carne ed ossa del suo film, colui che escogita un piano tanto assurdo e complicato quanto sorprendentemente efficace, che chiedendo ai sei fuggitivi di affidare la loro vita nelle sue mani restituisce il servizio, che dopo l'annullamento dell'operazione mette la sua responsabilità prima degli ordini; colui cui, dopo essere riuscito in un'impresa memorabile, non sarà nemmeno concesso di raccontarlo alla propria famiglia.

Prodotto assieme al grande amico George Clooney e successivo a "Gone baby gone" ed al più recente e ottimo "The Town", questo Argo denota per Affleck ormai una certa maturità registica ed una dimestichezza dietro alla macchina da presa che è quantificabile nella buona gestione dei ritmi e delle tematiche di un film tutt'altro che facile, da raccontare anzitutto, sia per le implicazioni politico-storiche sia soprattutto per il controllo su una sceneggiatura (di Chris Terrio, candidato) che sta in piedi grazie al delicato contemperamento di tutte le prospettive in causa.

Il regista appartiene ad una nuova scuola americana di fare cinema, non teme di evidenziare le responsabilità di ciò che fu né di lanciare stilettate a chi agendo nell'ombra scarica il peso dei propri errori su uomini come il suo protagonista; al contempo usa proprio il cinema come più generale strumento di irrisione di quel tipo di realtà scenica ed affettata individuabile nel ritratto della Hollywood sprecona e priva di serietà, un'industria che continua imperterrita a girare i suoi film da quattro soldi immersa nella propria luce a tal punto da perdere contatto con ciò che più seriamente accade nel resto del mondo.

Affleck non si risparmia né la critica beffarda più generale alla cultura pluricontraddittoria del suo paese, né sottolineature autoironiche ("perfino una scimmia impara a fare il regista in un giorno") prese come pure boccate d'ossigeno all'interno di un quadro drammaticamente serio.
È come se per un attimo fosse la sua "americanità" a voler emergere e dilagare, nei dialoghi, nelle gag, nella volgarità di un momento: ma non è superficialità, è solo l'esorcizzazione di una paura profonda che risiede nell'inevitabile distanza ideologica e che sfocia nell'impossibilità del dialogo e della convivenza pacifica.

Mentre il mondo reale individua infinite vie per autodistruggersi, l'arte, e nello specifico il cinema, trova ancora una volta il modo di insegnare quest'ennesima lezione.
E per farlo questa volta non deve neanche fingere.

Cast pazzesco. Basti ricordare i soli nomi di John Goodman, Alan Arkin (ancora una volta in nomination, dopo la vittoria per Little Miss Sunshine), Bryan Cranston e Victor Garber, attori grandiosi che definire caratteristi è pur sempre limitativo, per concepire come ogni piccolo dettaglio funzioni all'interno di un ottimo film.
Impossibile non riconoscere in questa pellicola uno dei migliori lavori dell'anno, anche se alcune incongruenze con la verità storica hanno acceso qualche polemica.

Non fosse che l'intento non è mai stato realizzare un documentario, bensì girare un film ispirato a quel grande sentimento di giustizia fraterna che Affleck riassume nei crediti finali del suo Argo, e che è cristallizzato nel riconoscimento del valore di quelle persone, a qualunque paese appartenessero, che rischiarono tutto senza avere nessun altro fine se non quello di comportarsi come esseri umani.




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giovedì 14 febbraio 2013

Fra romanzo di formazione e narrativa favolistica


58 - Vita di Pi (febbraio 2013)




Da un evento come la singolarissima scelta del suo nome - Piscine Molitor (il nome di una piscina francese) - ha inizio emblematicamente il curioso destino di Pi, diminutivo per la cui storpiatura viene schernito a scuola; ragazzo inquieto in cerca di risposte, diviso fra razionale ed irrazionale, legato alla famiglia della quale però rifiuta i suggerimenti, alla ricerca di una strada tutta personale indirizzata alla comprensione del proprio rapporto con Dio.

Pi è diverso, lontano dal razionalismo del padre ma anche dalla struttura dogmatica che si riconosce nella sua stessa educazione religiosa: cresciuto come un Indù, si avvicina ad altri culti che fa suoi all'interno in una più ampia concezione sincretica; guidato, e non accecato, dalle numerose porte che il mondo gli para davanti.
Attratto da ciò che non si può spiegare in assenza di spiegazioni.

E' proprio su questo versante che si gioca l'idea del film. Il fatto stesso che Pi esca dall'equivoco legato al suo nome rifacendosi al Pi Greco, numero irrazionale è un eloquente e prepotente segnale di una ribellione interiore rivolta a ciò che il mondo vuole che egli sia, e nonostante l'apparente incompatibilità della sua natura ingenua ed idealistica con la vita reale (la scena del primo incontro con la tigre) è proprio quest'ultima a salvargli la vita.

Con il padre costretto a vendere lo zoo di cui è proprietario, si imbarca verso il Canada con la famiglia ed alcuni degli animali. Non arriverà mai a destinazione per via di un naufragio che lo porta a vagare per le distese oceaniche su una scialuppa in compagnia solo di una zebra, una iena, un orango e una tigre.
Qui duramente provato dalla fame, dalla solitudine e dalla difficile coesistenza con la tigre, ha inizio quello che Ang Lee trasforma in un racconto apologico fra il fantastico e l'evanescente, lo spartiacque di qualcosa di non meglio precisato.

Attraverso gli avvenimenti cui è difficile francamente accordare credibilità, enfatizzate dalle spettacolari scene onirico-avventurose del suo protagonista, si realizza il bivio (alla fine di una preparazione a dire il vero piuttosto lunga, troppo) verso cui il regista Taiwanese vuole tendere, in una sorta sì di insegnamento, ma che lasci libero lo spettatore di fare proprio quello più coerente alla propria impostazione filosofica.

Non è lecito dire di più per non compromettere l'effetto, ma il film finisce per ottenere un riscatto più che parziale da quello che è un "corpo" della pellicola torbido ed eccessivamente confusionario, per quanto tenti di anestetizzare questa sensazione con un'imponente resa visiva fra effetti speciali, computer graphic e 3D e di intervallare i dilemmi morali con gli elementi più classici del genere d'avventura e di formazione.

Sì perché ancora una volta ritroviamo il tema del passaggio verso l'età adulta, qui corroborata dal trauma intimo del tradimento delle proprie convinzioni, con l'esperienza che diviene scoperta di se stessi, anche del lato più feroce ed animale, anche di ciò che può emergere solo quando viene messo alla prova.

Fin dove ci si può spingere partendo dalla convinzione che non si possiede la forza per accettare le conseguenze dell'inevitabile?
Qual è la storia di noi stessi che preferiamo, quella trasognata e velata di poesia (quella di Pi, "quella di Dio") o quella che rifugge con fierezza il riparo di qualunque dubbio?
Allo spettatore il compito di comprendere, conscio che l'esito non potrà modificarsi.

Ben 11 le nomination all'Oscar 2013 (una vera esagerazione). Per lo più premi tecnici, ed in effetti a dire il vero si tratta di un film al di là di tutto fatto benissimo.
Fra il resto, fotografia stupenda e una colonna sonora che è tra le migliori di quest'anno da parte di Mychael Danna (già autore, per esempio, per Litte Miss Sunshine).
La sensazione è che sarà proprio fra questi ultimi che il film di A. Lee otterrà i giusti riconoscimenti, anche perché per quanto la si possa rigirare e nonostante l'indubbio credito di cui A. Lee gode da parte dell'Academy, non sembra essere esattamente la cosa più riuscita della sua carriera.




Scena scelta









martedì 12 febbraio 2013

Un viaggio verso la sopravvivenza nelle terre selvagge


57 - Beasts of the southern wild (febbraio 2013)




Hushpuppy vive in una comunità Bayou, nel profondo sud della Louisiana. Un'area distaccata dal resto della civiltà per mezzo di una diga e soggetta ad alluvioni dovute ai cicloni per le quali si è meritata il nome di "Bathtub" (vasca da bagno).
Nell'assenza di una madre, cresciuta da un padre estremamente autoritario ed istruita a riconoscere in se stessa nient'altro che un elemento del regno animale e come tale in perenne lotta per la sopravvivenza, la piccola Hushpuppy viene portata rapidamente alla convinzione di dover bastare a se stessa, anche in ragione della grave malattia del padre che presto la lascerà orfana.

In un luogo sperduto del sud degli Stati Uniti, una regione quasi mistica in cui si fondono i richiami della natura e le relative condizioni avverse, la magia primordiale della terra e la necessità di superarne gli ostacoli, dove la contraddizione si trasforma in suggestione e la parola si disperde lasciando passo e terreno fertile ad un meraviglioso simbolismo allegorico, è il viaggio spirituale e materiale in soggettiva della sua protagonista a trasformare il film in una ricerca di qualcosa che va oltre la più superficiale conservazione di se stessi.

Come spiega Hushpuppy, ha a che fare con qualcosa più grande di ognuno di noi, si tratta di fare i conti con il fatto che ogni piccolo frammento dell'universo ha un proprio senso all'interno del quadro generale e che solo riparando ciò che si è rotto si può trovare la risposta, la spiegazione alle nostre paure più ataviche ed ai desideri inespressi, come quello di essere più forti, coraggiosi, feroci come le bestie illustrate attraverso una delle scene più belle del film.
Ed è quindi attraverso la sua immaginazione, i suoi sguardi, i suoi pensieri che ci rendiamo conto che solo partendo dall'innocente prospettiva di una bambina di cinque anni, in transizione verso un'età adulta che le è richiesta dalle circostanze ma alla quale ancora non è approdata, possiamo avvicinarci a questa risposta.

La (madre) natura, l'universo e per ultimo la non casuale ricerca della madre fanno tutte richiamo alla stessa idea portante che in qualche modo cozza con fragore contro l'austerità velatamente affettuosa di un padre portatore di pragmatismo e disillusione, faro in una nebbia densa di significati polivalenti.

L'esordiente (strano a dirsi ma è così) Benh Zeitlin illustra e traspone l'opera teatrale di Lucy Alibar (qui co-sceneggiatrice) Juicy and Delicious e lo fa attraverso un minimalismo visivo e di linguaggio mediante cui rimuove veli, mette a nudo, semplifica.
Il film di Zeitlin non forza la mano rischiando di perdersi nel mare magnum di ciò in cui si addentra, ma si lascia trasportare. Lascia che siano le immagini della bellissima fotografia di Ben Richardson e le veramente sottolineabili musiche (firmate dallo stesso Zeitlin assieme a Dan Romer) a trasportare lo spettatore su un piano puramente emozionale ed istintivo.
Non a caso i dialoghi sono minimi; il racconto, fiabesco, è quello in prima persona che passa attraverso le storielle ingenue della bambina che le elabora ed immagina, il quale viene di volta in volta espanso (come l'universo di cui fa parte) in conseguenza degli scontri dialettici che ha con il padre e di ciò che le viene forzatamente insegnato.

Un film in definitiva che sorprende. Sorprende perché da un film low-budget, girato per intero in 16 millimetri con un taglio documentaristico e composto esclusivamente da attori non professionisti, difficilmente ci si può aspettare un esito così convincente. Convincente come la performance assolutamente strabiliante della piccola Quvenzhané Wallis (candidatura per lei) e come lo è in generale un ottimo script la cui resa finale è accresciuta dalla ricchezza del contesto e da una compiutezza che è percepibile immediatamente.

Un film a cui, pur provenendo da un background indipendente adeguatamente suffragato dal Gran Premio della giuria al Sundance Festival, è valso già "qualche" premio importante tra cui la considerazione dell'Academy in tendenza con una politica più recente più attenta a produzioni similari (si pensi ai recenti Molto forte, incredibilmente vicino, Winter's bone - un gelido inverno o Precious).

E se questo per Zeitlin (altra candidatura, oltre alla sceneggiatura e ovviamente al film) è l'inizio, chissà il prosieguo.


Scena scelta









lunedì 11 febbraio 2013

L'amore senile, per Haneke


56 - Amour (febbraio 2013)



Una squadra di vigili del fuoco fa irruzione in un'abitazione, allertata dai vicini. Dietro una porta bloccata con del nastro, una donna anziana ed adorna di fiori giace sul letto di morte, nessun'altra presenza.
La casa è quella di Georges e Anne, coppia di insegnanti di musica ormai ritirati a vita privata. Di ritorno da un concerto di un loro ex allievo, succede qualcosa di strano: la donna cade in un inconsapevole e momentaneo stato catatonico. E' l'inizio di una lunga e degenerativa malattia che determina il progressivo allontanamento di Anne da qualunque dignità umana e la sua più totale dipendenza dalle cure e dagli affetti del marito.

L'amore secondo Haneke è un lento e straziante bisogno di rimanere fedeli a coloro cui si è dedicata la vita, il riconoscere nell'esaurimento della propria funzione il fine ultimo del proprio percorso terreno; e non ultimo un inesorabile processo di simbiosi che avvicina George ad Anne tanto quanto quest'ultima viene approssimata alla morte.
Al martellante pensiero della separazione, tema centrale della struttura drammatica del film, fa da risalto un commovente ma silenzioso grido di oppressione, che non è solo nel superficiale stato di impotenza motoria ed espressiva della donna, ma soprattutto nell'esasperante incapacità di George di lasciarla andare, fino all'inasprimento delle parole, all'improvvisa ovvietà dei gesti, alla scoperta dell'intimità del dolore e dell'impossibilità di condividerlo.

Man mano che le condizioni di Anne peggiorano il tempo sembra dilatarsi, fino a diventare eterno. Haneke si assicura che lo spettatore non si perda nemmeno un secondo di sofferenza, che non possa evitare di guardare in faccia la realtà come lo fanno i due protagonisti.

Haneke lavora da tempo in un certo modo, i suoi lavori sono riconoscibili per un certo insieme di elementi di stile ben noti.
Il lavoro che svolge qui nel gestire i tempi è ancora una volta assolutamente significativo: l'incedere è lento, misurato; dietro ai dialoghi non c'è affettazione ma anzi una risolutezza spontanea, autentica, come parentesi di vita ordinaria che si aprono e chiudono fra un coup de théâtre e l'altro.
I modi che il regista Austriaco ha di giocare con le cadenze e di portare lo spettatore allo sbigottimento sono sempre stupefacenti e che peraltro non hanno bisogno di conferme dopo il capolavoro decisamente più passionale (e disturbante) Funny Games.

E pur mancando dello stesso pathos, come nel film succitato anche qui la messa in scena è particolare: spicca come tutto il film percorra un'orbita tanto imprecisata nel tempo quanto definita nello spazio. Il film è girato esclusivamente in interni (le stanze della casa), gli spazi sono claustrofobici, asettici, freddi come ciò che sembrano contenere. Haneke si serve di una serie di lunghi piani-sequenza, riducendo al minimo i movimenti di macchina e i primi piani. C'è un ricorso modale ad un certo tipo di inquadrature, collegate attraverso un'asse inizialmente invisibile, che dona un'eleganza e una compostezza dignitosa a qualcosa che chiaramente non lo è.
Come se procedendo per sottrazione sul film, volesse evidenziare ancor di più la prospettiva verista della faccenda che racconta.

E ancora: trattare temi di questo tipo, portando anche all'eccesso alcune scelte, non è facile se non sai come fare. Il tocco e la maestria del regista qui gli permettono di osare parlare di eutanasia senza sentirsi soffocare dal peso della questione morale inerente, ma anzi con ostentato cinismo.

A porre un ulteriore accento è senza dubbio l'interpretazione dei due attori protagonisti. Un ottimo Jean-Louis Trintignant e una straordinaria Emmanuelle Riva (senza dimenticare la parte della non-protagonista Isabelle Huppert), la quale ha ottenuto per questo ruolo una candidatura prepotente all'Oscar 2013, per un film che ha raccolto generali consensi e i riconoscimenti più prestigiosi (Palma d'oro a Cannes, miglior film straniero ai Golden Globes e candidature importanti agli Oscar 2013).

A parere di chi scrive vale la pena di considerare che non si tratta probabilmente del miglior film del suo autore, e forse nemmeno il migliore fra quelli nel lotto delle nominations stilate dall'Academy, ma di certo è un film che ha un'anima, ha qualcosa che lo rende estremamente vivo nonostante non faccia che parlare per tutto il tempo di morte. Crudele e beffardo, ma anche onesto.
E nel suo titolo si cela forse l'ultimo brandello di umanità che resiste alla spietatezza della vita, o per lo meno alla sua fase terminale. 


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domenica 10 febbraio 2013

Un risveglio dal torpore moderno: Holy Motors


55 - Holy Motors (febbraio 2013)



Mentre un uomo si sveglia e si affaccia su un anonimo cinematografo, a Parigi una Limousine bianca della Holy Motors ospita al suo interno un altro uomo, di nome Oscar; ad attenderlo una giornata densa di "appuntamenti", per presentarsi ad ognuno dei quali si sottoporrà ad un continuo e radicale cambio di identità.

All'assillante domanda di originalità che accompagna un cinema come quello moderno (ma non solo) fatto sempre più di cose già viste, cliché e convenzioni, va di pari passo un'evoluzione dell'espressività, dell'etica e dell'estetica, della parola e della metafora.
Non senza saltare da un estremo all'altro, va detto, ma questo Holy Motors sembra volersi caricare sulle spalle un peso che dimostra di saper sopportare: un innato spirito di ribellione che pervade la sceneggiatura prima ancora della pellicola.

Un film la cui scena iniziale la dice già lunga citando un vecchio cult di King Vidor, La folla, emblema cinematografico di una rottura con la filosofia apertamente sognante dell'epoca e caratterizzato da una potenza realista e visionaria profondamente radicata in una coscienza sotterranea, intima.
Similmente, qui il lavoro di Carax ne ricalca i fondamenti stilistici ma allo stesso tempo esplora dentro se stesso, si trasfigura attraverso un processo di creazione cui il suo protagonista - o meglio sarebbe dire "uno dei tanti protagonisti" - adempie con impressionante spontaneità; mediante il quale egli di volta in volta si reinventa, si rappresenta e realizza.

Non è quindi un caso che Carax affidi la responsabilità del meccanismo proprio al genio trasformista di Denis Lavant, che dà vita ad una sequela di cambi di registro semplicemente allucinanti, per alcune delle scene più "patologiche" e schizoidi si ricordino di recente anche nel panorama Europeo, ivi compresa la romantica e mitologica ricomparsa di quel Merde già ammirato nel secondo episodio del film a sei mani del 2008 Tokyo!.
A fare da contorno una serie di personaggi minori (tra cui Eva Mendes e Kylie Minogue interprete anche della colonna sonora) con cui Lavant interagisce, dando origine ogni volta ad una nuova esperienza non solo strettamente sul piano del racconto ma anche e soprattutto su quello artistico, laddove ai soliti clichè (come il melò, la satira o il musical) si affiancano innovandolo situazioni come minimo stravaganti, sconnesse, divertenti, sorprendenti, talvolta fuori dal controllo di ogni logica.

Proprio dove lo spettatore è più vulnerabile e quindi più raggiungibile.

Ci troviamo in una dimensione nuova; in cui l'ossessivo ricorso a figure anticonvenzionali sfocia all'interno di un'enigmatica e grossomodo inesplicabile sceneggiatura i cui sottili equilibri fra la nuda realtà e la finzione scenica sono mediati dalle mille possibili interpretazioni, dai tanti interrogativi e dalle chiavi di lettura concatenanti, anche alla luce di quella che sembra essere una riflessione futuristica su una civiltà che tende ad evolversi assieme alle sue derivazioni sociali e alle conseguenti forme d'arte ("Rimpiango le videocamere. Quando ero giovane erano più pesanti di noi, poi sono diventate più piccole delle nostre teste; oggi non le si possono nemmeno più vedere").

Sperimentale, disorientante, fuori dal conforto tiepido di un film per tutti, Holy Motors va visto con una predisposizione particolare all'apertura mentale nei confronti del nuovo o perlomeno di ciò che tenta di esserlo, che di per sé lo definisce.
Nonostante la difficile assimilazione e la scarsa pubblicità può però accontentarsi del gradimento della critica europea (che fra l'altro lo ha messo in competizione a Cannes 2012, vinto poi da Amour di Haneke) ma anche dello stesso pubblico che sembra aver ben accolto la sfida del regista francese.
Specie protetta.


Scena scelta