giovedì 21 febbraio 2013

La storia (vera) di un'ossessione, dove la verità storica coincide con quella letteraria: Zero dark thirty


63 - Zero dark thirty (febbraio 2013)




"Zero dark thirty", come rivela la regista Kathryn Bigelow, è quel termine appartenente al gergo militare che vuole intendere i trenta minuti dopo la Mezzanotte, l'orario dell'inizio dell'operazione dei Navy Seals che procedettero alla cattura e all'uccisione di Osama bin Laden l'11 maggio 2011 e che viene rappresentata nell'ultima cruciale scena del film.
Allo stesso tempo, quel "dark", cioè "oscurità" vuole chiaramente riferirsi ai contorni ombrosi della lunga vicenda.

Una vicenda che ha una durata di 8 anni e che ha origine quando nel 2003, Maya, un'agente della CIA fresca di ateneo viene spedita all'ambasciata degli Stati Uniti in Pakistan, dove assisterà alle sue prime torture di detenuti con sospetti legami con terroristi collegati al gruppo Saudita.
Parte da questo preciso momento, in una consumante caccia all'uomo, la santa missione di Maya, una (breve) intera carriera dedicata alla cattura dell'uomo che ordì il terribile attentato dell'11 settembre con le cui traumatiche testimonianze sonore la Bigelow apre il suo film.

Un'ossessione ed un'insistenza che la vedono provata, trasformata, non solo per l'estenuante ricerca ma anche per le vicissitudini che vedono coinvolta lei e colleghi in attentati. Nonostante questo non si fermerà mai, fino all'evidenza della prova finale e risolutiva, fino alla maturata consapevolezza che in lei non è rimasto altro che il vuoto, nemmeno più lo spauracchio inoffensivo che agitava i suoi pensieri.

Il tipo di personaggio protagonista che ha in mente la Bigelow, e che affida non casualmente ad una donna, Jessica Chastain, come a voler identificare in essa una proiezione di se stessa all'interno del film (Maya era anche l'agente CIA con cui Boal, lo sceneggiatore, ebbe contatti) è un personaggio che a partire dalle timide battute iniziali e attraverso il logorio causato dalla snervante operazione trovi un'evoluzione definitiva e significativa di una battaglia che Maya conduce in prima persona ma in fedele rappresentanza dell'idea di un popolo riunito che ancora aspetta(va) giustizia.
Il volto di Jessica Chastain non appare però adempiere totalmente a questa missione, forse evidenziando anche una non perfetta compatibilità con la parte. Il trasporto ansiogeno, estremizzato, fino alla consumazione fisica non si addice al bellissimo (e perfetto) volto etereo della Chastain, ed evidentemente siamo anni luce da un'interpretazione ben più realistica come può essere ad esempio quella della collega Claire Danes nel serial Homeland.

Dove invece il film fa centro è nella messa in mostra senza censure né riserve di quello che accadde, anche quando al mondo si negava che accadesse.
La Bigelow, assistita dal suo consueto spirito ribelle, non si tira certo indietro e dà una rappresentazione tout court dei modi del suo paese. E lo fa sia attraverso l'inconfutabile ed "autoesplicativa" violenza delle immagini sia nella messa alla berlina del sistema di pensiero imposto dall'alto, un sistema che al di là della facciata ipocrita mostrata nel succedersi di un'Amministrazione all'altra, si mantiene lo stesso.

La regista Californiana, piuttosto affezionata al cinema di guerra, può quindi cogliere al balzo l'occasione di raccontare ancora una volta una storia incredibile, e a tal punto è appetibile la storia della cattura dell'uomo più ricercato al mondo che l'originaria sceneggiatura, pronta per un altro film, venne totalmente riscritta basandosi comunque sulla documentazione raccolta.
Nuovamente in collaborazione con Mark Boal, che scrisse dunque la sceneggiatura (oltre a co-produrlo) di una vicenda dall'epilogo noto ma dai passaggi intermedi oscuri, secretati. La soddisfazione di una vera outsider come la Bigelow nel far emergere dettagli succulenti dell'operazione traspaiono da una pellicola in cui davvero non c'è un attimo di tregua.

Al veloce incedere degli eventi, al senso di pressione che pervade l'avvicinarsi dell'ultimo, liberatorio tratto cui con abnegazione la Bigelow ci prepara, miscelando con mestiere riflessione e tensione, fanno da sfondo immagini esemplificative di una continuazione tematica del suo cinema.
Se in The Hurt Locker l'esaurimento era una condizione silenziosa dovuta all'imprevedibile letalità della guerra vissuta sul campo di battaglia, qui è sintomo fisico e nevrotico di un'angoscia più profonda e radicata, perché coscienza collettiva, perché simbolo traslato di un'invisibile sospensione "Damocliana".

Arricchito di un Golden Globe e di 5 nominations, questo film si mostra dunque piacevolmente duro e crudo. Non c'è l'interesse morboso a stupire o a shockare, quello che ci viene mostrato è successo davvero.
Nel compulsivo bisogno di vedere e di (far) sapere però, la Bigelow si (e ci) ricorda che la ferita è ancora in via di rimarginazione: non ci viene risparmiato nemmeno il più truculento o umiliante dei dettagli delle torture, né la brutalità dei sanguinosi attentati e nemmeno l'omicidio a sangue freddo di donne inermi piante dai propri figli.
Ma non c'è un solo istante in cui l'irrequieta macchina da presa inquadri il volto dell'uomo da cui tutto ciò ha avuto origine.

Rimane invece spazio e tempo per le lacrime. Un momento perfetto: una liberazione tanto attesa o la prima crepa consapevole nel proprio, confortante, sistema di certezze?
Entrambe, probabilmente.




Scena scelta











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