lunedì 11 febbraio 2013

L'amore senile, per Haneke


56 - Amour (febbraio 2013)



Una squadra di vigili del fuoco fa irruzione in un'abitazione, allertata dai vicini. Dietro una porta bloccata con del nastro, una donna anziana ed adorna di fiori giace sul letto di morte, nessun'altra presenza.
La casa è quella di Georges e Anne, coppia di insegnanti di musica ormai ritirati a vita privata. Di ritorno da un concerto di un loro ex allievo, succede qualcosa di strano: la donna cade in un inconsapevole e momentaneo stato catatonico. E' l'inizio di una lunga e degenerativa malattia che determina il progressivo allontanamento di Anne da qualunque dignità umana e la sua più totale dipendenza dalle cure e dagli affetti del marito.

L'amore secondo Haneke è un lento e straziante bisogno di rimanere fedeli a coloro cui si è dedicata la vita, il riconoscere nell'esaurimento della propria funzione il fine ultimo del proprio percorso terreno; e non ultimo un inesorabile processo di simbiosi che avvicina George ad Anne tanto quanto quest'ultima viene approssimata alla morte.
Al martellante pensiero della separazione, tema centrale della struttura drammatica del film, fa da risalto un commovente ma silenzioso grido di oppressione, che non è solo nel superficiale stato di impotenza motoria ed espressiva della donna, ma soprattutto nell'esasperante incapacità di George di lasciarla andare, fino all'inasprimento delle parole, all'improvvisa ovvietà dei gesti, alla scoperta dell'intimità del dolore e dell'impossibilità di condividerlo.

Man mano che le condizioni di Anne peggiorano il tempo sembra dilatarsi, fino a diventare eterno. Haneke si assicura che lo spettatore non si perda nemmeno un secondo di sofferenza, che non possa evitare di guardare in faccia la realtà come lo fanno i due protagonisti.

Haneke lavora da tempo in un certo modo, i suoi lavori sono riconoscibili per un certo insieme di elementi di stile ben noti.
Il lavoro che svolge qui nel gestire i tempi è ancora una volta assolutamente significativo: l'incedere è lento, misurato; dietro ai dialoghi non c'è affettazione ma anzi una risolutezza spontanea, autentica, come parentesi di vita ordinaria che si aprono e chiudono fra un coup de théâtre e l'altro.
I modi che il regista Austriaco ha di giocare con le cadenze e di portare lo spettatore allo sbigottimento sono sempre stupefacenti e che peraltro non hanno bisogno di conferme dopo il capolavoro decisamente più passionale (e disturbante) Funny Games.

E pur mancando dello stesso pathos, come nel film succitato anche qui la messa in scena è particolare: spicca come tutto il film percorra un'orbita tanto imprecisata nel tempo quanto definita nello spazio. Il film è girato esclusivamente in interni (le stanze della casa), gli spazi sono claustrofobici, asettici, freddi come ciò che sembrano contenere. Haneke si serve di una serie di lunghi piani-sequenza, riducendo al minimo i movimenti di macchina e i primi piani. C'è un ricorso modale ad un certo tipo di inquadrature, collegate attraverso un'asse inizialmente invisibile, che dona un'eleganza e una compostezza dignitosa a qualcosa che chiaramente non lo è.
Come se procedendo per sottrazione sul film, volesse evidenziare ancor di più la prospettiva verista della faccenda che racconta.

E ancora: trattare temi di questo tipo, portando anche all'eccesso alcune scelte, non è facile se non sai come fare. Il tocco e la maestria del regista qui gli permettono di osare parlare di eutanasia senza sentirsi soffocare dal peso della questione morale inerente, ma anzi con ostentato cinismo.

A porre un ulteriore accento è senza dubbio l'interpretazione dei due attori protagonisti. Un ottimo Jean-Louis Trintignant e una straordinaria Emmanuelle Riva (senza dimenticare la parte della non-protagonista Isabelle Huppert), la quale ha ottenuto per questo ruolo una candidatura prepotente all'Oscar 2013, per un film che ha raccolto generali consensi e i riconoscimenti più prestigiosi (Palma d'oro a Cannes, miglior film straniero ai Golden Globes e candidature importanti agli Oscar 2013).

A parere di chi scrive vale la pena di considerare che non si tratta probabilmente del miglior film del suo autore, e forse nemmeno il migliore fra quelli nel lotto delle nominations stilate dall'Academy, ma di certo è un film che ha un'anima, ha qualcosa che lo rende estremamente vivo nonostante non faccia che parlare per tutto il tempo di morte. Crudele e beffardo, ma anche onesto.
E nel suo titolo si cela forse l'ultimo brandello di umanità che resiste alla spietatezza della vita, o per lo meno alla sua fase terminale. 


Scena scelta





 




Nessun commento:

Posta un commento