sabato 16 febbraio 2013

Il western ai tempi dello schiavismo: Django Unchained


60 - Django Unchained (febbraio 2013)




Sono gli ultimi anni del periodo schiavista americano. Durante il trasporto di alcuni schiavi di colore appare dal nulla un certo Dr. Schultz, il quale in particolare si offre di pagare profumatamente per uno di loro, Django. Quest'ultimo è infatti in grado di identificare alcuni ricercati cui era in precedenza appartenuto e a cui l'uomo, in realtà un cacciatore di taglie, sta dando la caccia.
Lo libererà ed in cambio del suo aiuto gli promette di trarre in libertà anche la moglie Broomhilda. Per farlo, i due dovranno ordire un piano che prevede l'inganno di Calvin Candie, un ricco proprietario di una piantagione in Mississippi, per un epilogo decisamente sanguinoso e Tarantiniano.

Sottolineato dallo stesso Tarantino come un'ideale continuazione del suo precedente Bastardi senza gloria, e rivisitazione storica di un periodo buio come quello dello schiavismo (tema quest'anno posto all'attenzione anche grazie a Lincoln) con fare tributante dello Spaghetti Western, Django Unchained deve molto, non ultimo il suo nome, al Django di Sergio Corbucci.
Il regista americano fonde, come gli è consueto, più caratteristiche anche contenutisticamente molto diverse, e si lascia trasportare dal cinema che ha imparato ad amare.
Così ritroviamo la solita immane serie di riferimenti cinefili (scene, inquadrature), omaggi dichiarati (la comparsata di Franco Nero, protagonista del western del 1966), e rimandi a quella che tuttora rimane una grossa fetta e nota dolente di una storia, quella Americana, di cui Tarantino non sembra soffrire però l'incombenza.

Non c'è particolare resistenza nell'uso ripetuto della parola "negro", né nello sfruttamento della tematica centrale del rapporto di sottomissione che lega l'uomo bianco a quello nero esplorato con l'avvedutezza consapevole di un cultore della Blaxploitation degli anni '70, e neppure c'è un eccessivo freno alla violenza esplicita cui si ricorre ad ogni livello (elemento comune, questo, a praticamente tutti i suoi film).

La violenza stessa è una citazione (Django fu considerato uno dei film più cruenti fino alla sua epoca) e allo stesso tempo un'esigenza per fermare l'istantanea e dare la giusta connotazione alla brutalità del contesto; è poi la chiave di un discorso che passa attraverso gli estremi schiavitù/libertà, sottomissione/ribellione: chiave di volta per la rappresentazione dell'oppressione e strumento risolutore degenerante nella vendetta di una espiazione purificatoria, quasi elevata a processo rituale solenne.

Se ci si impunta sull'esegesi del significato, sulla convinzione etica che permeerebbe (a detta di alcuni critici) determinate scelte di mostrare una sofferenza atroce e di sfruttare a scopi ludici quella che è stata indubbiamente una delle più grandi tragedie dell'umanità, la sensazione è che non si voglia prendere atto di una constatazione semplice: esiste una linea retta che lega film come Le Iene, Pulp Fiction, Jackie Brown
, Kill Bill e lo stesso per certi versi molto pertinente Inglorious Basterds ed è qualcosa che sistematicamente si discosta dalla volontà di trarre insegnamenti, dedurre arzigogolamenti privi di senso o peggio ancora morali.

Questo tipo di concezione non appartiene al cinema Tarantiniano, che rigetta per principio qualunque responsabilità, perché si tratta di un cinema viscerale, istintivo, costruito sull'entusiasmo di un uomo che riscopre ogni volta i propri miti.
E così fa qui, mantenendo la desinenza storica ma ridefinendo una storyline lineare che parla al lato animale dello spettatore. Che gli parla ancora una volta di vendetta, che gli fa desiderare la libertà quanto al suo protagonista ma che non gli risparmia una crudità sincera, ma non autocompiaciuta, che è intrinseca al sottofondo di riferimento.

Dal punto di vista tecnico non si può fare a meno di notare come sia l'ennesima sceneggiatura robusta ed incredibilmente intensa, al punto da non uscire certo con le ossa rotte da ben 165 minuti di una pellicola effettivamente un po' prolissa ma assolutamente non pesante.

C'è una bellezza puramente estetica, ben evidente ad esempio nella ricercatezza linguistica di Schultz (Waltz poi è immenso a rendere il personaggio anche con il suo impressionante poliglottismo), nell'appassionante scambio di battute di tutti i suoi personaggi, nel respiro interiore che sembra impossessarsi delle pause fra una scena e l'altra.
Tarantino vuole costruire qualcosa di narrativamente stimolante e la recitazione lo aiuta molto in questo: Christopher Waltz, Jamie Foxx, Leonardo Di Caprio, ma anche Samuel L. Jackson e la bravissima Kerry Washington trasformano un ottimo potenziale in un film corale che può permettersi il lusso di avere più personaggi principali.

Uno degli ennesimi, divertenti e spettacolari film di un genio dell'intrattenimento. Dichiaratamente orgoglioso di ciò che è (e di ciò che ama, che è poi la stessa cosa) e che non ha bisogno di sentirsi riconosciuto oppure omologato; persino imbrigliato.
Un'inesauribile e prolifica mente che si bea dell'altrui discordia, dall'alto di una visione complessiva e totale dell'arte, e che prestando fede a quest'ultima, ha sempre come esito il suscitare una qualche reazione.

In attesa della prossima invenzione.




Scena scelta










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