domenica 22 febbraio 2015

Selma


95 - Selma (febbraio 2015)




La ricostruzione dei fatti di Selma, Alabama e della lotta sociale di Martin Luther King e del suo notorio movimento pacifista che sfociò nel periodo di massimo impegno a favore dei diritti civili degli Afroamericani, sforzo ripagato alla fine dall'approvazione del Civil Rights Act da parte dell'allora Presidente in carica Lyndon Johnson.

In questa pedissequa riproposizione dei soprusi a sfondo razziale e di tutti i quasi insuperabili ostacoli che si presentarono su un cammino diretto, ostinato, pienamente maturo attraverso la violenza, l'oppressione e la morte marchiato e guidato però dai principi della Non-Violenza e di una passività in realtà considerata attiva, c'è l'ennesimo sfoggio di un passato, quello americano, che tenta di conservarsi nella memoria, bisognoso di un'auto-assoluzione e di elaborare una vergogna sociale disegnata dall'assurdità (come riconoscere legalmente il diritto al voto e poi negarlo nei fatti; come essere sorretti da un sistema che permette al suo uomo più potente di essere ricattabile e politicamente troppo debole per farlo rispettare) con l'ennesimo ricordo di un trionfo di giustizia, di una storia scritta nel modo corretto.

Sul Martin Luther King uomo, peccatore, delle sue faccende personali e famigliari c'è poco, la DuVernay usa uno stile molto proprio, tutto a ricercare la sofferenza, la serenità nella preoccupazione, la disarmonia nell'uguaglianza e il suo primo ed ultimo riferimento è lo stesso di quelle persone che ritrae, l'eroe del suo film, della sua causa; ma prendendo il suo film, di lui non sappiamo che quel che è storicamente noto, seppur in oltre due ore di un film dall'incedere posato, severamente calmo e graduale, non le fosse certamente mancata l'occasione, e solo la prova di Oyelowo riesce a penetrare un po' oltre, ad accendere una fiamma di angoscia sul dubbio, sulle profondità della sua anima.

Trasforma i suoi personaggi in persone in carne ed ossa, rivangando aneddoti, scavando nel passato personale, attingendo al comune sottofondo emotivo che è funzionale all'illustrazione del martirio; stiamo parlando di svariate migliaia di persone, ma la sensibilità della regista è tale che sembra di conoscerli uno ad uno e il suo King brilla per riflesso della loro stessa umanità, ma ancora non basta: potrebbe esserci di più, e nonostante il tocco delicato della sua autrice, è proprio quello che manca a far perdere al suo film l'opportunità di raccontarsi in modo originale, magari più organico e meno agiografico nei tratti narrativi.

Dove invece il risultato è potente è nell'estrema efficacia drammatica delle sequenze cardine, quelle tanto attese perché simboliche di una storiografia che ce le ha mostrate per decenni, che sono entrate nella nostra mente per non uscirne più e che con Selma, consapevolmente, con molto rispetto e attenzione, faticheranno ulteriormente a farlo.




Scena scelta











American Sniper


94 - American Sniper (febbraio 2015)




La cronistoria dell'esperienza militare di Chris Kyle, il SEAL sulla cui autobiografia è basato il film di Eastwood, un film che tratta per un'ulteriore occasione il tema della guerra e di come questa cambi chi ne fa parte direttamente, chi la vede da vicino.

Chris Kyle è infatti un semplice e buon cittadino americano del Texas, incarna in pieno i suoi valori patriottici e tradizionali, è generoso e, cresciuto con un sano senso della giustizia dal padre, desideroso di aiutare e proteggere il suo paese.
Nella sua avventura c'è ovviamente il calcolato sacrificio del proprio tempo con la famiglia, la distanza, l'incapacità di evolvere al suo stesso ritmo perché, in sostanza, siccome sono le nostre esperienza a modificarci e a fare di noi quello che siamo, Chris Kyle può dirsi protagonista di una storia che non molti altri sono in grado di raccontare.

Cecchino di precisione di grandissima abilità, capace di grande leadership e sentimento umano, vede i compagni e amici morire e la sua missione si fa più pressante, prioritaria. Inconsapevole portatore di coraggio, è tanto semplice come persona quanto naturalmente motivato a proseguire nel proprio scopo.

Eastwood ce lo racconta con grande empatia, Cooper lo interpreta con grande umanità, ma è una storia di per sé quella cui assistiamo che nasce arida e si evolve in modo ancora più ovvio; nonostante il regista californiano imprima un buon ritmo al suo film, e nonostante superi per qualche momento anche l'imbarazzo della censura mostrando il ben meno ovvio risultato delle atrocità dell'Iraq e della guerra in generale, la rappresentazione che offre è quantomeno parziale, sbilanciata a favore di un senso di giustizia che ci si aspetterebbe appartenesse ad un punto di vista più ampio che non quello, solito, di casa propria.

D'altra parte Eastwood era stato molto attento a cogliere questo particolare nella sua trasposizione di Iwo Jima, e qui pur non volendo minimamente compiere un approfondimento del genere (ovvero sulle motivazioni degli agenti in causa) e rimanendo quindi in parte ingiusto il parallelo, si ha la sensazione pesante di un gigantesco déjà vu narrato per stereotipi in un impianto ancora più archetipico e farraginoso del solito che richiama troppo spesso la struttura del melodramma per strappare a tutti i costi qualche lacrima (non con molta efficacia), piuttosto che graffiare e mettere da parte la morale dell'eroe che non ha, su per giù, alcun tipo di difetto o di sbavatura caratteriale se non quelli che la guerra gli ha lasciato e gli lascerà in eredità una volta smessi i panni del SEAL.

Si tratta in realtà dell'ennesimo, ritrito, furbetto, privo di passione, J'accuse contro la guerra e le sue derive soprattutto sui buoni di cuore e di spirito che la combattono, un compendio di tutto quello che già avevamo visto in film anche piuttosto recenti come The Hurt Locker o Redacted, che almeno spogliavano del tutto il film e il proprio protagonista di tutta quella stucchevole compassione che sarebbe il caso una buona volta di lasciar decidere allo spettatore, sempre che questi ne abbia voglia, anziché imporgliela a tutti i costi.



Scena scelta











sabato 21 febbraio 2015

Birdman


93 - Birdman (febbraio 2015)




Riggan Thompson, un tempo Birdman, adesso un attore nel pieno della sua fase discendente. Sente di aver fallito la sua missione artistica, ha gravi problemi economici, una famiglia che ha ripetutamente deluso.
Dopo aver assorbito per anni le nevrosi di Hollywood adesso se ne è allontanato, rifugiandosi a Broadway, dicono in America, dove recitano i veri attori.

Il Teatro si contrappone così al Cinema, e così anche l'arte al vuoto ma ben più remunerativo spettacolo dello showbusiness.
In tutto questo, Riggan Thompson deve fare i conti con un ego che è ormai talmente ingombrante da aver un alter ego che lo tormenta perché torni alle sue origini, ai bei, facili, fasti della sua saga supereroistica, nonostante voglia assolutamente seguire una nuova strada.

Ma il Teatro non sembra essere la risposta: la sua popolarità è in calo, lo spettacolo che ha deciso di sceneggiare appartiene ad un passato che sembra lontanissimo e anacronistico, ha problemi con gli altri attori del cast, e finisce per sentirsi stritolato dalle fauci di quello stesso concetto per cui ha abbandonato e ripudiato i facili guadagni; così, è costretto a vagare in questo limbo cercando un'ultima chance per lasciare il segno.

Nel pieno delle banalità dell'ambiente cui attinge (e di cui è nientemeno che il prodotto), a cominciare dalle motivazioni, fortemente puerili, che spingono il suo protagonista a fare quello che fa, Iñárritu realizza una esilarante critica di tutto quello che gli capita a tiro sotto la forma di una mordace parodia che non può dirsi mai interamente commedia, ma che ne incorpora invece gli elementi cardine per mescolarla al dramma esistenziale, portandone via con sé il risultato surreale finale.
Il Cinema del nuovo millennio tutto brividi-azione-effettispeciali, l'enorme incontrollabile potere dei new media che veicola in realtà un non-pensiero perché omologato dall'esigenza dei grandi numeri, la pigrizia intellettuale, il graduale distacco da se stessi e quindi dall'arte; in questo incredibile caos, c'è invece un uomo la cui crisi d'identità rispecchia i valori di un'America vanesia, che sembra non conoscere i propri limiti, che è banale a sua volta nella ricerca del gusto: vuole tutto, in un modo o nell'altro, convinta che gli spetti.

Con un paese incapace di guardare a se stesso se non con autoindulgenza e culturalmente arrogante, è solo attraverso l'ironia della beffa che le meschinità e le mediocrità possono elevarsi in valore, e allora Birdman si piega a se stesso, confonde e si auto-confonde.

Ma mentre la vita reale permette di fingere senza troppe ripercussioni, l'arte insegna che non si può trasmettere autenticità se autentici non lo si è davvero: è questa la più grande lezione del film, una lezione impartita prima di tutto a se stesso, con quei tratti autoironici e autoparodistici che lo accompagnano lungo l'idea di girare tutto quanto come fosse un intero long take (in realtà è montato per sembrarlo) e che si infiltra persino nei tratti biografici dei suoi veri attori, tutti con alle spalle ruoli simili a quelli di cui ci si prende gioco o che hanno riferimenti nel film al proprio stile di vita (dal Batman - che assomiglia molto nel nome a Birdman - di Keaton, alle tendenze di Norton in poi).

Ed è in realtà meta-arte quella che Iñárritu in un senso più lato pone in essere, elaborando un film a più livelli semantici, distribuendo un'infinità di citazioni colte o meno e non solo perché facciano ridere (come in effetti succede) ma anche per ricordarci sempre di cosa stiamo parlando, con quale ambiguità abbiamo a che fare volteggiando fra la realtà della fiction e la finzione della realtà; infine spettacolarizzando una storia incredibile (nel senso di non-credibile) con uno stile spontaneo e completamente personale in grado di trasformarsi in una continua ispirazione visiva grazie anche alla magnifica fotografia di qualcuno che non delude mai come Lubezki, che riporta alla primitiva realtà il confuso spettatore, ammesso che sia ancora in grado di riconoscerla.

Così il Riggan di Keaton (straordinario) messo davanti ad un bivio si traveste anche senza il suo costume e impersona con coraggio disperato l'eroe tragico e accidentale di un intero paese, e poi succede una cosa che non avevamo previsto: il Cinema, in tutta la sua essenza.

In questo film, con punte recitative altissime (detto di Keaton, ma si potrebbero citare quasi tutti, e comunque assolutamente E. Norton) e una regia che non può che entusiasmare, con i suoi continui movimenti di macchina a braccare gli attori, le riprese tutte mosse degli interni del St. James Theatre, la profondità di campo e l'uso della prospettiva (anch'essa una citazione, come il lungo tappeto rosso che vediamo), che ha richiesto un grande sforzo organizzativo e tecnico da parte di tutto il cast, c'è un tale metodo, quasi una venerazione per il metodo, per la realizzazione che sono encomiabili, freschi, pieni di spunti; al di là della sua (doppia) storia, delle sue interpretazioni, persino della sua dubbia capacità di addolcire i cuori rimanendo infatti un'opera cerebrale, di pensiero, di intelletto, intelligente e coraggiosa, visionaria per certi versi e certamente piena zeppa di originalità, resta il marchio inconfondibile di un autore che non è spaventato dalla sua bramosia di protagonismo.

Gira tutto quanto perseguendo la sua invasiva (e geniale) idea originaria, e gli attori anziché mostrare nervosismo gli offrono sul piatto d'argento alcune delle migliori prove della loro vita. E mentre sfoga il proprio cinismo fra le risate, definisce un nuovo slang cinematografico capace di urtare qualche inevitabile sensibilità, e gli crea tutto intorno un'atmosfera ibrida in cui il fantastico si lega al banale e il volume della risata riecheggia sempre di riflessione.

Si dice che a volte la realtà superi in stranezza la finzione, quale che sia l'idea di Iñárritu al riguardo, di sicuro però in tempi di grande vuoto ideologico è quello che ti uccide che ti rende più forte.


Scena scelta












venerdì 20 febbraio 2015

Whiplash


92 - Whiplash (febbraio 2015)




Andrew Neiman e il suo sogno: diventare uno dei migliori batteristi Jazz della sua generazione, fra l'alone della leggenda di Charlie Parker e un insegnante dai modi discutibili.

Sarebbe molto semplice definire in poche righe la trama di questo assolutamente straordinario film a basso budget (e a basso incasso), non è invece stata altrettanto semplice la sua gestazione da parte di Chazelle, tenace nell'aver trovato l'equilibrio perfetto per un film che per emergere ha dovuto sgomitare fra la concorrenza (ricorda qualcosa?) e guadagnarsi nel sottobosco indipendente la fiducia che ha dimostrato di essersi meritato, dopo essere stato presentato come cortometraggio al Sundance nel 2013 ed essere stato girato in apnea finanziaria.

Chazelle scrive e dirige un film in cui è coinvolto in prima persona ben oltre il semplice fatto che ne sia il padre; nella sua opera c'è tutto: grandi performances, una tensione narrativa coltivata magistralmente e portata all'esplosione in un crescendo virtuoso assoluto, l'evoluzione centrale di una storia che non è molto di più di una delle tante storie dell'Uomo che vuole superare se stesso (e quindi gli altri) ma che nondimeno sa riservare sorprese e colpi bassi fino all'ultimo.
Chazelle, che è stato un batterista e ha vissuto un'esperienza personale simile, a cui è ispirata in parte la pellicola, sa esattamente in che modo vuole raccontarla, muove i fili di una sceneggiatura solida, dannatamente ben giocata che concede molto poco a tutto quello che non è la batteria, il whiplash o il Jazz in generale ma che sa volare molto più alto di così e sa raccogliere ottime risposte anche dai personaggi secondari nonostante l'esiguo minutaggio loro concesso; che è pervasa sottilmente da un nero senso dell'umorismo, persino un remoto grido di inesorabile giustizia, in cui i personaggi ricevono un tratteggio accurato, realistico, capace anche di resistere agli artifici imposti dalle logiche di fiction.

E a ben guardare, la ricetta che Chazelle trova per la sua regia sta proprio in quell'esasperazione che non l'abbandona mai, né ovviamente nell'aggressività dei ritmi - ricalcata dalla tirannia dei metodi di Fletcher - quasi come fosse lo stesso whiplash a dettarne il metro, né in quel più esteso senso di insoddisfazione che lo riveste.

Whiplash è ancora un film su un allievo e un maestro (sebbene portato all'eccesso paradigmatico), che sottintende un ensemble, mentre le nostre orecchie lo percepiscono, ma non riesce in realtà a staccare la macchina da presa, e quindi il nostro occhio, dall'assolo dei suoi due protagonisti, che descrivono con rara intensità una danza all'ultimo sangue (letteralmente), innescando un rapporto morboso, affascinante, sempre in bilico fra il creativo e il distruttivo, un circolo vizioso che i due alimentano con il combustibile di una velata reciproca ammirazione e che trova sfogo in una sfida perfettamente scandita nei ruoli, mentre la prospettiva stessa si muove a sua volta, recuperando lo scontro fra passato e futuro, fallimento e successo (con la piccola considerazione che nell'idea di successo di questo film essere grandissimi musicisti può non bastare); come se all'improvviso calasse il buio nella stanza e un unico riflettore rimanesse puntato solo su di loro.

In questo, oltre al capitale ed impagabile contributo di un Simmons esagaratamente cattivo, terrificante, di riferimento, c'è da riconoscere come impressionante anche il lavoro di Miles Teller (qui alla sua decisa interpretazione di una vita) su una batteria che già conosceva ma che ha dovuto imparare a conoscere meglio; se Simmons gli offre i ritmi recitativi, lui lo ripaga con quelli musicali e il loro affiatamento è tale che ci convincono per davvero di quello che sta succedendo, sono entusiasmanti e sono credibili fino in fondo. Il film non pecca di qualche appannamento e qualche deviazione imprevista, ma regge l'urto di una premessa forte con un finale ancora più forte, catartico, addirittura purificatorio.

Da una parte l'uomo e i suoi limiti, la soggezione di fronte alla Storia, lo smarrimento nel proprio senso personale della musica e quindi l'ambizione, la competizione, il sacrificio, l'esercizio di un'ideale di perfezione cifrato in un linguaggio musicale (a differenza di altri, forse anche meno comprensibili, portati ad esempio da film di quest'anno) che non riesce, parimenti a tutti gli altri, a sottrarsi alle logiche degli istinti più bassi, più "umani" che ci governano.

Perché Whiplash non è solo un film su quanto ostinata e solitaria sia la strada che porta dritta al successo immemore, ma è soprattutto il racconto frustrato, schietto, fuori dai denti, di un'idea intrasmissibile fintanto che non viene raggiunta la consapevolezza di un limite e che cosa sia questo limite, o se la sua desiderabilità sia più o meno forte del risultato finale, lo può stabilire soltanto la misura della nostra grandezza.



Scena scelta













giovedì 19 febbraio 2015

The Theory of Everything


91 - The Theory of Everything (febbraio 2015)




Sono i primi anni '60 a Cambridge quando un giovane Stephen Hawking, fresco di studi accademici e alla ricerca ambiziosa della nota teoria unificante, conosce Jane Wilde. La loro è una storia nata nel caos e destinata a sopravvivergli per qualche motivo irrazionale, nonostante lo spietato declino che la degenerativa malattia dello scienziato gli impone.

La sua ascesa intellettuale, nonché la vita sentimentale sono così messe duramente alla prova da un calvario fisico pressoché interminabile; il film è elegante nel raccontare l'odissea di un uomo, ma nello specifico di un matrimonio, che è attraversato da una varietà di ostacoli e sa trovare in ognuno di essi la chiave per formulare risposte a domande che non necessariamente ne prevedono una.

Un film che per metafore parla dell'eroismo quotidiano degli esseri umani più tenaci, che sfidano l'impossibile e l'ignoto e sanno ricavarne un significato; a corroborarne l'intenzione, un manipolo di interpretazioni forti e decise quanto determinati sono lo S. Hawking di un magistrale ed impressionante Redmayne ma, non meno importante, anche della Jane di Felicity Jones (la cui prospettiva del resto è centrale, visto che si tratta della trasposizione del suo Travelling to Infinity: My Life With Stephen) che con questo ritratto così profondamente riuscito della donna, moglie, madre forte e fedele che resiste alla passione pur di affrontare il proprio senso di responsabilità arriva quasi al punto di adombrare quello che le sta intorno, permettendo al necessariamente più limitato Redmayne di colorare ancora di più il tono della sua interpretazione.

Con una fascinosa parabola, permeato da una scrittura molto open-hearted in cui la stessa suggestione dell'infinito che ci accoglie custodisce dentro di sé anche il segreto dei legami più intimi e duraturi arrivando a tracciare i particolari connotati di una storia unica, sorprendente, quasi incredibile ma (pur al netto delle concessioni drammatiche) autentica, non tanto nella pedissequa riproposizione biografica, quanto nella possibilità di rispecchiare un messaggio condiviso, che ha per oggetto quella virtù molto più rara (e forse preziosa) del genio: il coraggio.

Tutto dell'Hawking di Redmayne, aiutato da una regia sicuramente valevole fatta molto di simbolismi e aggraziata nelle sue, inevitabili, forzature, con quel suo senso dell'umorismo anomalo, quella testardaggine e quell'impressionante studio sul personaggio rende onore e, cosa ancora più importante, trasmette la vita ad un personaggio tanto vero che si può toccare, che mentre perde per strada un pezzo di sé alla volta è in grado di restituirlo in umanità dieci volte più forte.

Il film di Marsh parla un linguaggio un po' stereotipato, è vero, non ultimo nel canovaccio di una sceneggiatura che regge tutto sommato bene nonostante non sia propriamente eccezionale, ma lo esprime in modo perfetto, circondandolo di un'atmosfera romantica cui partecipano le musiche della colonna sonora di Jóhann Jóhannsson e la fotografia dal forte viraggio cromatico di Delhomme, finendo per sintetizzare il fine ultimo cui tende, quel tutto con cui si rinconcilia in un tempo riavvolto all'indietro, in un dialogo confidenziale e caloroso capace di sorvolare sulle nostre distanze per rimarcare invece ciò che ci accomuna: siamo in fondo tutti minuscoli, bisognosi, esseri umani.

E allo stesso tempo siamo capaci di qualcosa di cui nemmeno noi siamo consapevoli.


Scena scelta












mercoledì 18 febbraio 2015

The Imitation Game


90 - The Imitation Game (febbraio 2015)




La vera storia (più o meno) di Alan Turing, il matematico che in pieno conflitto mondiale tentò e riuscì a decriptare il codice di Enigma, la macchina considerata la chiave delle comunicazioni naziste per via della sua presunta indecifrabilità.

Accanto a quell'impresa storica, che ha segnato per sempre gli esiti di una guerra che stava andando in tutt'altro senso e soprattutto la conformazione socio-politica del Mondo che andò delineandosi a seguito della sconfitta tedesca, c'è poi una vicenda meno pubblica, meno conosciuta e a tratti molto più scabrosa che è quella dell'Alan Turing uomo, omosessuale, reietto ed emarginato sociale.

I suoi tratti eccentrici, capaci di convivere in una mente ad un tempo geniale e socialmente incapace, sono portati sullo schermo con un'intensità obiettivamente spettacolare da un Cumberbatch monopolizzante su cui la parte sembra appositamente ricamata, per un film che ha nel suo attore protagonista un picco recitativo in grado di mascherare, anche se non sempre con costante efficacia, un meccanismo narrativo in realtà piuttosto prevedibile e consumato ma che soprattutto lascia qualche punto in sospeso per le licenze creative che si prende e per le questioni che invece evita di affrontare se non per rinvigorire un tessuto emotivo decisamente furbo.

Imperniato su una vicenda storica nota, e per questo difficilmente in grado di sorprendere nonostante il suo innegabile fascino, il film più che affermare un punto di vista strettamente storico o affrontare di petto il biopic, fa un uso consapevole delle due sfere narrative saltellando fra gli archi temporali e rimettendo insieme in modo drammatico tutti i tasselli di una stringente lotta contro il tempo, pescando collegamenti e disseminando metafore a vista d'occhio mentre si avvicina alle sue punte retoriche.

Sono così i ritmi ben scanditi del montaggio e una confezionatura strategica a tenere insieme un film che per il resto non riesce a raccontarsi in modo avvincente e sincero quanto pretende di farlo e a cui il contributo della regia di Tyldum nega per larghi tratti un'empatia vera, genuina, con il suo protagonista a causa di una rete di sottintendimenti, purtroppo per il film, molto più facilmente decifrabili del codice che ha per soggetto.

Lasciata da parte la sua scarsissima originalità anche a fronte di una storia che meritava assolutamente un approfondimento, si tratta di un discreto film (e nulla di più) che si prende un po' troppo sul serio mancando poi di una profondità proporzionale che gli permetta di farsi ricordare e che tuttavia, essendo costruito (verrebbe da dire matematicamente) su quelle due-tre scene madri in pieno stile Academy, si colloca fra quei film destinati a trovare consensi in ogni tempo.



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martedì 17 febbraio 2015

Ida


89 - Ida (febbraio 2015)




Una monaca cattolica sta per prendere i voti, quando è chiamata a riscoprire le proprie origini per mezzo del contatto con la zia, ultimo frammento che separa la sua vita di clausura, la sola che ha mai conosciuto, dal mondo esterno.

In quella lunga e tortuosa strada splendidamente incorniciata nella fotografia in bianco e nero di Lenczewski, un b/n che avvolge il paesaggio nel ricordo di un passato sconvolgente eppure ancora così urgente ma che allo stesso tempo si presta a sorreggere il conflitto spirituale su cui è edificato il film di Pawlikowski, c'è quella stessa idea di distacco, di separazione, e di tiepido rifugio da una sofferenza difficile, forse impossibile da raccontare pienamente.

Per questo il regista polacco realizza un film sui silenzi e sull'imbarazzo, su una vergogna dimenticata e sull'espiazione di una colpa il cui peso grava ancora come un macigno sullo sguardo ipnotico del paesaggio polacco; in questa ricerca sistematica del dettaglio, in cui le parole sono quasi strappate con la forza e le espressioni diventano a loro volta un quadro raffinato da interpretare, sono piuttosto le inquadrature, tutte così significative e particolari, a comporre con efficacia una severità che l'ambientazione geografica, storica e sociale della Polonia del secondo dopoguerra è in grado a sua volta di suggerire con estrema grazia.

La contrapposizione caratteriale emblematica delle sue due protagoniste, il conflitto interiore vissuto da Ida, il netto, forse insormontabile ma immediatamente percepibile attrito fra una realtà quotidiana che risente ancora delle eco di una tragedia universale e quella più personale, intima, e toccante dei personaggi di questo film è come scolpito, scena dopo scena, quasi cesellato e riportato al rigore austero dello stile di Pawlikowski, così sempre attento a non essere banale in ogni sua sottolineatura, sia quando taglia fuori dall'inquadratura volti o corpi per implicarne la vergogna sia quando rimuove e cancella dallo spettro emotivo dei pensieri e delle intenzioni determinati significati, inconciliabili fra loro.

La storia di Ida si carica per la prima volta di elementi reali, vividi, che la riportano ad una maggior consapevolezza di sé, come un'arma con cui potrà prendere una decisione più onesta verso se stessa; alla fine, pur nella forzata convivenza degli estremi esiste un chiaro sottofondo comune che come una coperta (o come una tomba) seppellisce sotto di sé tutto quanto; e a concludere quel genere di indagine, di scoperta, a rimanere in sospeso, volteggiando nel clima opprimente che abbiamo davanti, è solo quel forte desiderio di lasciarsi alle spalle il rimpianto.


Svariati riconoscimenti fra cui la vittoria ai BAFTA per il miglior film europeo dell'anno, annovera anche una nomination agli incombenti Oscar come miglior film straniero.


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domenica 1 febbraio 2015

Under the skin


88 - Under the skin (febbraio 2015)




Acclamato dalla critica, controverso invece nell'impatto sul pubblico, l'originalità di Under the Skin non poteva che prevedibilmente sortire l'effetto di dividere perfettamente a metà la schiera dei suoi spettatori.

Sì perché il sentiero che Jonathan Glazer, famoso regista di videoclip musicali fra i quali spiccano alcuni dei lavori più noti della storia pop recente, percorre è uno di quelli che non si può che attraversare completamente bendati, muniti di una buona dose di fede in quello che questo film indipendente permette di avvinghiarsi.

Appare chiaro sin dal principio come la regia di Glazer, ovviamente portata per deformazione personale a dare grande risalto alle immagini e a legarle assieme lasciandone fluttuare i temi portanti fra i meandri del subconscio di chi assiste, sia composta per gran parte nel tentativo di esprimersi liberamente, ripudiando e uscendo da ogni forma o schema conosciuti e semmai recuperando dal simbolismo surrealista la potenza evocativa delle idee astratte, lasciando che sia poi la percezione personale a coglierne un significato.

Fra le molte cose che questo film non vuole essere, c'è l'idea di un film che non lascia dietro di sé la sensazione della ricerca di un senso esteso di quel che propone, che non va accusato semplicemente nell'evanescenza dello script o nella mancanza di linearità della storia - persino l'inesistenza di una storia, convenzionalmente parlando - ma che vuole invece partire dalla frammentazione, dal dettaglio, per ricondurre al quadro generale, che ammesso esista, è comunque appannaggio dello spettatore.

Glazer non spiega cosa vuole dire, non dà riferimenti né indizi troppo accurati sui suoi personaggi - non tanto su quello che fanno, che è lasciato all'esplicito voyeurismo, quanto sulle motivazioni - e disegna tutto intorno a questa sorta di collage un'aura di mistero e di morte che penetra in profondità riuscendo a comunicare in modo anche critico e provocatorio, sulla natura ostile, sulla bellezza, sulla condizione umana, apparentemente in maniera più spontanea di quanto non saprebbe farlo a parole (parole che sono quasi deprecate), e trova in questo senso nella collaborazione di una ombrosa maneater aliena, Scarlett Johansson, tutta un'ambivalenza che fa al film il grande dono (o il grande torto) di una dimensione ignota, inesplorata.

È un'opera coraggiosa, dall'intento avanguardistico che prima ancora di un film desidera essere un'esperienza visiva e auditiva, prima ancora che un prodotto cerca un suo stile originale (che non fa rima per forza con piacevole) e in definitiva lo trova nella sua esaltazione di forme, superfici, apparenze e sembianze che sono in grado di provocare, talvolta disturbare, comunque lasciare in sospeso e infine di attrarre verso di sé una reazione, come solo la vera arte sa farlo.

Quello che Glazer aggiunge all'interpretazione idealmente perfetta della Johansson è tutto in un'estetica ipnotica, imprevedibile, che alterna sequenze di una quotidianità ovvia a trovate prese dal nulla e le lega ad un sottofondo musicale (e qui ancora emerge l'esperienza sul campo dell'autore) in una sensazione inaspettatamente e sinistramente conosciuta.
Le inquadrature poco convenzionali che inframezzano la narrazione, la fotografia che sembra a tratti impressionista e a tratti "occlusa" in spazi amorfi privi di profondità e di luce, e un montaggio ai limiti dell'inespressività raccontano, sull'atmosfera straniante di questo film, tutto quello che resta da sapere su un lavoro che riecheggia di importanza mentre allo stesso tempo è quasi impossibile stabilire perché.

Non qualcosa a cui in molti sono disposti a rinunciare, ma se si perde per un momento l'ossessione di un significato, se ne potranno scovare altri, e magari più personali, all'interno di questo piccolo viaggio, tra le impenetrabili Highlands Scozzesi e la straordinaria ordinarietà di una fantascienza diversa, e meritevole.


Scena scelta











martedì 27 gennaio 2015

The Salvation


87 - The Salvation (gennaio 2015)




È la giovane America del 1870, quella dei proprietari terrieri, dei fuorilegge e delle piccole comunità cittadine. Jon, un colono di origine Danese sbarcato nel nuovo continente assieme al fratello per costruirsi un possedimento, riabbraccia dopo sette lunghi anni la famiglia, ma accade qualcosa che non aveva previsto.

Tanto mirabile è l'ouverture di questo western dall'aria pesante e dalla fotografia fuligginosa con tanti omaggi e riferimenti ai capolavori di genere, quanto sorprendentemente ben congegnato è il meccanismo che fa da sfondo ad una vicenda molto classica ma colorata dalle ottime aggiunte di personaggi particolarmente ben scritti e riusciti.

Pur senza uscire troppo dal canovaccio, pur ripresentando il paradigma manicheo di una storia di una sfaccettata pluri-vendetta, il film di Levring sa toccare tutti i tasti giusti nel suo tentativo di creare un clima insofferente, pronto ad esplodere, in cui la connivenza è tanto concreta che si può toccare in quel suo groviglio malefico e marcio nelle fondamenta.

Dietro ogni sguardo c'è un'aria di minaccia, nelle perifrasi e nell'eloquenza dei dialoghi c'è tutto quello che serve per mantenere più o meno intatta una tensione che sfocia sin dalle prime scene, ma è soprattutto nel non-detto che arrivano le maggiori soddisfazioni: Eva Green, con il suo personaggio tormentato è seconda per intensità soltanto a Mads Mikkelsen, la cui maschera facciale resa famosa in tempi recenti più che altro dalla TV si presta alla perfezione all'ambiguità e al trasporto emotivo che il suo Jon vive in prima persona.

La resa è molto buona, il piano narrativo realistico e accurato; Levring fa muovere i suoi attori sullo sfondo arido e confuso di uno scenario di per sé poco accogliente, abitato da figure subdole e melliflue, che semina ingiustizia e promette nel suo incedere una moltitudine di azione e violenza puntualmente profilata in un finale risolutivo.

Per il fattore novità rivolgersi altrove, ma se invece tutto quello che cercate è un ottimo film western in grado di intrattenere e far tornare per un po' il tempo a dove si era fermato molti decenni fa, prima che il progresso facesse il suo inevitabile corso, questo è il film che fa per voi.



Scena scelta










Begin again


86 - Begin again (gennaio 2015)




Quasi dieci anni fa usciva Once, il film che, parlando di due musicisti con un sogno comune, aveva portato alla notorietà John Carney. Dopo tutto questo tempo, il regista irlandese torna sulla scena del delitto, verrebbe da dire, tante sono le analogie con il precedente film.

A cominciare dal tema musicale, onnipresente, che qui oltre a divenire metafora per la vita in generale, lo diventa anche in combinazione con le meccaniche del business musicale, delle case discografiche, e quel perenne e irrisolto dualismo fra le grandi produzioni che radono al suolo tutto quello che incontrano e le piccole etichette che tentano di venire a galla in tutta quella competizione.

Carney, ex bassista di un gruppo musicale di nicchia e autore indipendente, identifica chiaramente se stesso (e il suo cinema) con il protagonista del film, un Ruffalo che offre un ritratto sincero e convincente di un ormai stanco talent scout socio di una Major e, afflitto da mille problemi personali, desideroso di ritrovare se stesso e lo spirito libero che lo accompagnava un tempo.

Il Dan Mulligan di Ruffalo incontrerà la Greta di Keira Knightley, anche lei con un nebuloso passato; insieme ci re-introducono alle tematiche dei nuovi inizi e dell'abbandono delle nevrosi imposte da un sistema famelico per riabbracciare l'eccitazione puerile dei sogni romantici, come se il distacco dai propri fallimenti o supposti tali potesse rappresentarne lo spartiacque. Carney è molto intelligente e delicato nello stratificare il suo film, in realtà molto semplice e diretto nel messaggio, servendosi ancora una volta del contatto elegiaco fra due persone che si trovano nel posto sbagliato al momento giusto.

Una commedia orgogliosamente naïf, ben architettata e sorretta da efficaci interpretazioni che cerca di riportare al centro del discorso le sofferenze e i traumi di esistenze interrotte o spezzate annegandolo nella suggestione della poesia musicale che funge sì da facile richiamo emotivo ma che allo stesso tempo ha un significato e una funzione ben precisi nel proseguire il punto di vista del suo autore, cioè scrivere di come la musica cambia continuamente la vita delle persone per il semplice fatto che esiste.

Riportando le cose all'essenza della semplicità, e con piglio donchisciottesco, la musica diventa strumento risolutivo mentre le strade si trasformano in studi musicali ambulanti e le persone incontrate lungo di esse ne sono gli interpreti; l'avversione per il consumismo e la dittatura dei numeri all'interno di un panorama che non fa nulla per reinventarsi o sperimentare emerge con la stessa forza consapevole del valore della condivisione come necessità di base per raggiungere un'autenticità altrimenti falsata in partenza; una ricerca spontanea, naturale, fatta di intimità e raggiunta attraverso una catena di persone più che di soldi, di comunanza di idee più che di una vacua brama di successo che spersonalizza e distorce le prospettive.

Anche qui come in Once lo stile si fonde con il contenuto, Carney riporta quella stessa umiltà delle radici del concept nella direzione artistica di un cast abituato a pellicole di questo tipo, e che vi è quindi particolarmente adatto, ma che oltre a questo si cala perfettamente nello spirito partecipativo che sottende, dando grande spazio all'improvvisazione e ammorbidendo di molto il tono di un film che riesce ad essere dolce anche quando velatamente polemico, perché ispirato e forte delle proprie convinzioni.

Carney preferisce di gran lunga abbandonarsi alla grande nostalgia evocata dalla colonna sonora firmata da Gregg Alexander (e arricchita da Adam Levine) e alla bellezza che i suoi personaggi hanno sotto agli occhi ma che sfugge loro proprio perché distratti dalla momentanea infelicità, che non lanciare dardi infuocati contro la causa della stessa, e il risultato è un altro film che sa farsi apprezzare sia per quello che dice sia per come sa dirlo.


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