venerdì 30 dicembre 2016

Polytechnique


107 - Polytechnique (dicembre 2016)




Terzo lungometraggio di Denis Villeneuve (Sicario), Polytechnique sfrutta l'occhio clinico e il particolarismo dello stile visivo del suo autore per rappresentare in scena i fatti accaduti realmente nel succitato Polytechnique di Montreal, nel 1989.

L'opera tremenda di Villeneuve, tratteggiata sulla base di un'impostazione realistico-visiva, cerca di rivivere il momento nella sua crudezza più che destreggiarsi in un'analisi psicologica o sociologica approfondita delle cause o delle conseguenze, che sono sì parte integrante del racconto ma sfuggono al centro d'interesse più estetico e formale del regista canadese (e in questo senso è meno "profondo" ad esempio dell'Elephant di Van Sant, con cui condivide in parte i ritmi macabri della ritualità e la strutturazione, ma non gli stessi intenti critici).

Da quest'ultimo punto di vista, a partire dalla scelta del contrasto tonale nel b/n che nell'evidenziare il conflitto interiore gioca un po' su quello stesso concetto di entropia (il grado di disordine introdotto in un ambiente dall'esterno, qui ovviamente in senso microcosmico il politecnico e in senso macrocosmico l'universo e la vita dei sopravvissuti che si mescola a quella di chi non ce l'ha fatta) e di frammentazione psicologica reiterato nelle scelte di regia, è evidente da subito la mano ferma di Villeneuve che a questo impone una condensazione temporale insopportabile anche se necessaria.

Nel tentativo di firmare un memoriale, quasi un documento storico più che un film narrativo, Villeneuve preme appena sulla questione politica, anche se incisiva, di quel Canada e indirizza la coralità vocale del film su un piano multiprospettico, legando il carnefice alla vittima, il decesso alla sopravvivenza, la prigionia (spirituale, fisica, cromatica di un b/n privato dei colori e dunque della "gioia di vivere") alla liberazione da un peso dell'anima che si tramanda, aumentando pian piano anche il peso di quell'entropia che provocherà un nuovo equilibrio.
In tal senso è fortissimo quel senso di "inevitabilità" che permea tutto il film, con la scena immediatamente iniziale che ne costituisce una sorta di manifesto: lo squilibrio (mentale, d'ordine) è destinato a diventare così eccessivo (di nuovo un input: Guernica di Picasso) che solo un drastico punto di svolta può rappresentarne la valvola di sfogo, e la stasi successiva.

L'intimità all'interno della pellicola è ricreata a regola d'arte, che si tratti di spiare a macchina da presa lontana con potenti primissimi piani la fragile mente di un assassino (su modelli Scorsesiani) o che riguardi il momento condiviso di terrore cristallizzato in slow-motion o in empatiche two shots. C'è anzi a tratti un'apparenza spietata velata di un irreale patina poetica che si direbbe capace di creare ambiguità piuttosto che empatia.

Nel poco più dell'oretta che Villeneuve si prende per raccontare la sua storia non ci sono molti dialoghi o, se è per questo, comunicazioni di tipo verbale, eppure il film comunica nel modo più potente possibile per tutta la sua durata attraverso la decostruzione e la radiografia di un caos intellettivo, sociale, mentale e morale che dovrebbe (nella teoria, non secondo Villeneuve) essere in grado di spiegare la tragedia sotto i nostri occhi ma che invece non fa che creare dubbi ulteriori, spezzando sul nascere anche le poche parole rimaste.

Quelle parole che però sono la chiave di un rebus e di un processo di anti-disumanizzazione molto lungo da percorrere e superare, in sostanza un buio e profondo corridoio.

venerdì 18 novembre 2016

Flashbacks: Nuovo Cinema Paradiso






Nuovo Cinema Paradiso (Tornatore, 1988) è un film incredibile sotto molti aspetti, straordinariamente emozionante nella sua semplicità (sia narrativa che strutturale), terribilmente evocativo e strappalacrime, e che riesce a raggiungere uno spessore universale (l'amore, i ricordi, l'infanzia) malgrado parta da una base più specifica, apparentemente limitante (il paesino con i suoi campanili e campanilismi, l'autoreferenzialità cinefila, la dimensione privata del sogno) e trovo che sia proprio in questo gioco la spiegazione del fantastico successo che il film ha avuto, cosa straordinaria se si analizza il recente trend, non solo in Italia ma anche all'estero.


Il film è una metafora sotto molti aspetti, è in effetti prima di tutto una metafora sul cinema (un cinema dentro al cinema - in senso astratto - in un cinema - in senso fisico; è metacinema, è cinema che riflette su se stesso, sul potere delle sue immagini): la vita degli abitanti di Giancaldo, un paesino siciliano del secondo dopoguerra è attraversata e condensata nel film di Tornatore (che gioca proprio sulla manipolazione del tempo e dello spazio per rappresentarne il cambiamento, in contrasto con la tendenza intrinseca del cinema di fermarlo) nella piazzetta del paese in cui si svolge gran parte del film e dell'esperienza di Salvatore. Lì si trovano la chiesa e la parrocchia di Don Adelfio presso cui Salvatore prende confidenza con le usanze religiose infiltrate nel tessuto della comunità ma anche il Cinema Paradiso (sempre di proprietà di Don Adelfio) che lo introdurrà al fascino di immagini mai viste prima, e che diventerà il simbolo della sua formazione: al suo interno il piccolo Salvatore cresce, osserva con occhio innocente il mondo artificioso e attraente della pellicola ancora in celluloide, condivide il valore sentimentale di quelle immagini con la società lì riunita, è sempre qui che stringe l'amicizia più significativa della sua vita - quella con Alfredo -, che conosce il significato di guadagnarsi da vivere (dopo Alfredo, sarà lui il proiezionista del cinema), e che suggella il primo, indimenticato amore - con Elena.


Tornatore dietro la macchina da presa e Morricone attraverso le sue musiche probabilmente ineguagliabili raccontano questa rivelazione che si sdoppia più e più volte in significato: il film comincia e finisce con un Salvatore adulto che si alterna con il lunghissimo, portante, flashback centrale della sua infanzia; ci rivelano due persone totalmente diverse: mentre la prima è ormai adulta, profondamente disillusa e apatica, la seconda è il ritratto della scoperta innocente ed eccitante, del gioco, della curiosità; mentre la seconda vive ed interiorizza quell'attimo, la prima non ha altro modo di accedere a quel surrogato di felicità se non attraverso il ricordo.
Cos'è successo? È quello che si chiede il film.
Le risposte sono due, entrambe valide, entrambe facce della stessa medaglia: è successo il Cinema, è successa la vita.

Salvatore alla fine è stato segnato da un'avventura più matura e grande di quelle inizialmente ingenue (e poi sempre meno) del suo Cinema Paradiso, un viaggio che lo ha portato lontano da quello che amava, lontano dalle promesse utopiche dell'amore perfetto, del lieto fine e della semplicità narrativa del suo cinema. È interessante notare come Tornatore alterni i titoli proiettati all'interno del Cinema Paradiso secondo una logica sì cronologica ma utile proprio a rappresentare il tempo che cambia e rende le cose più complesse: se alcuni dei primi titoli che accompagnano Sal al cinema appartengono al realismo poetico francese e soprattutto al neorealismo italiano che nacque proprio con il racconto delle vite comuni di personaggi interpretati da attori presi dalla strada (di cui Tornatore riprende molto la forma spontanea e la facciata sentimentale), man mano che si procede le cose si fanno più complicate, si scopre il sesso (viene proiettata la fantastica scena di "Et dieu creà la femme" di Vadim con B. Bardot), la vita del paese viene organizzata su nuovi criteri, Sal appunto si innamora e scopre le insanabili differenze di ceto sociale (partirà poi per il servizio militare per tornarne con nulla in mano...), la gestione del (Nuovo) Cinema Paradiso passa di mano e anche la censura viene abbandonata.

Su questo c'è un aspetto ancora più divertente e significativo rispetto al modo in cui Tornatore la affronta: le spigolosità di don Adelfio, così ritroso nel mostrare alla gente del paese le scene dei baci nei film proiettati al punto che tutti i fotogrammi incriminati vengono tagliati dalla pellicola con sommo disappunto degli spettatori in sala sono sottolineate con acuti umoristici e raccordate dall'uso allegorico della Campana: la vediamo in una delle primissime scene, quella che dall'alto del campanile introduce alla piazzetta con un dolly per poi tagliare con un match cut sulla campana ben più piccola che don Adelfio stringe nelle sue grinfie mentre assiste a una proiezione per segnalare ad Alfredo i fotogrammi da censurare; la campana (e il suo suono assordante, che richiama alla realtà) è usata inoltre per chiamare il gregge a messa e per segnalare l'inizio delle lezioni scolastiche. Sono tutte manifestazioni di un dovere reale, incombente che si pone in conflitto con le immagini patinate, le calme illusioni cinematografiche, e gli idilli del desiderio: nella realtà esistono squilibri, esami da superare, non ci sono ellissi e le parti noiose, a differenza delle scene erotiche, non vengono tagliate via.

Tornatore accompagna in generale poi molte delle sue inquadrature con la tecnica dell'incorniciatura dell'immagine dentro un'altra immagine ("frame within a frame") che oltre ad avvalorare l'idea generale del metacinema, assume diversi, ma similari, significati a seconda del momento: all'inizio del film significa distanza:



(La madre di Salvatore spera in un suo ritorno, lo smisurato mare li divide e la finestra permette un contatto astratto)

...poi voyeurismo e il senso peccaminoso della scoperta:



quindi rende con una metafora la posizione privilegiata di chi è artefice materiale del film (sia regista, sia proiezionista) o, come dice più o meno Alfredo, "quando hai il potere di far ridere tanta gente è una bella cosa".




e infine simboleggia la separazione e le traversie nell'amore:



Tornatore utilizza molto i movimenti di macchina per enfatizzare quest'idea dinamica che torna al concetto del tempo che cambia, della piazza in fermento che trova consolazione nell'unica valvola di sfogo di una vita altrimenti avara di piaceri, e con le angolazioni a volte estreme:



(il controllo e la manipolazione)



(L'affarismo, seppur con inclinazioni umoristiche)



(La vista "dall'alto" è usata più volte per trasmettere l'idea di un quasi-Dio che crea il cinema, o comunque lo mette a disposizione di tutti, con una certa sofferta compiacenza)



Qui, una delle prime scene in cui Salvatore può guardare il film in sala come ogni altra rispettabile persona e non spiando di nascosto, Tornatore ne esalta tutta la formidabile eccitazione, il potere che il cinema ha di farlo sentire a sua volta potente è rappresentato dalla sua immagine sovrastante con una deformazione visiva che non vuole limitarsi a raccontare, vuole anche introiettare il momento vissuto, renderci più consapevoli di un punto di vista segnato in ogni minuto del film (sia quello che guardiamo noi sia quello che guarda Sal) da un ricordo, un vissuto.

L'altra ambiguità è proprio questa, il conflitto fra la piattezza della vita che il Sal Adulto vive e la dimensione immaginifica del ricordo e dell'illusione. È attraverso i frammenti di pellicola che Alfredo ha tenuto da parte che il Salvatore adulto si riappropria, seppur solo per un momento, della sua infanzia e che rivive il rapporto speciale con l'amico (e più tardi con il primo amore Elena):



È solo un momento, il prima e dopo sono caratterizzati da tutt'altro (Salvatore è ormai diventato un regista di successo, ma ormai è solo un mestiere, come lo era quello del proiezionista, qualcosa è andato perduto nel processo) e Tornatore ci ricorda l'amara lezione per cui non ci è dato galleggiare in eterno sul passato, ma allo stesso tempo evidenzia tutta la sua contraddizione nella irrinunciabile desiderabilità dei ricordi e delle illusioni che vivono - entrambi, grazie a questa scena - nel Cinema con la c maiuscola e minuscola.

Da notare la presenza di una varietà di schemi, oltre a quelli già evidenziati: è al buio della sala che appartengono i gesti romantici, innocenti, poi il tempo passa e man mano che il film si "sbarazza" del Cinema Paradiso si sbarazza anche della sua artificiosità e la riproduzione di quel romanticismo fra i campi con Elena non ha più bisogno della luce di un proiettore e una sala scura. Così come, l'interno (del cinema) simboleggia isolamento, senso di protezione, incanto, mentre l'esterno è un teatro che racchiude il primo e lo ordina gerarchicamente (al punto che sostanzialmente ne segna la modifica prima e la distruzione poi, sopravvivendogli). Tutto quello che vale la pena di essere rivissuto (l'amicizia, l'infanzia, l'amore, la perdita dell'innocenza) è legato al NCP, ma poiché il ricordo implica che stiamo evitando di vivere, il ricordo ha quasi il valore delle Sirene di Omero: tentatrici, sebbene meravigliose, ammalianti ancorché potenzialmente distruttive; e soprattutto, niente di concreto dura in eterno (i cinema bruciano, vengono ricostruiti e abbandonati), ma le cose astratte sì fintanto che viene preservato il valore della loro condivisione: il Cinema riesce a farlo meglio di molto altro da molto tempo.

domenica 28 febbraio 2016

Brooklyn


105 - Brooklyn (febbraio 2016)




Il tema dell'immigrazione torna in auge quest'anno grazie a questo interessantissimo Brooklyn, sceneggiato da Nick Hornby basandosi sul soggetto originale di Colm Tóibín, scrittore irlandese noto per il suo impegno politico e l'interesse nel narrare della storia del proprio paese.

Facciamo conoscenza della sua Eilis Lacey poco prima del suo imbarco per la traversata che dalla piccola cittadina con poche prospettive lavorative di Enniscorthy (Irlanda) la condurrà in America, precisamente a Brooklyn, mèta di molti immigrati di simili origini in quella metà di secolo che ci si svolge sotto gli occhi in questo magnifico ritratto d'epoca, a cavallo fra due mondi profondamente diversi l'uno dall'altro.

Alle ovvie differenze economiche si aggiungono quelle sociali e culturali e sono queste a segnare l'evoluzione di Eilis, che viene a contatto con la multietnicità della ben più moderna e avventurosa New York e diviene il centro di un processo formativo che la mette di fronte soltanto al primo dei dilemmi che la sua giovane età porterà inevitabilmente con sé.
Attraverso i tipici stilemi del romanzo di formazione ed epistolare, Crowley lega alla preminenza interpretativa del messaggio sentimentale diverse riflessioni ben amalgamate dal mestiere di Hornby in uno script che sa catturare l'essenziale istantanea del conflitto fra l'autodeterminazione dell'individuo e le radici che lo rendono un'esperienza dolorosa, proprio all'alba delle profonde trasformazioni culturali che sdoganeranno movimenti come l'emancipazione e il femminismo, nella prioritaria ricerca della felicità oltre i pregiudizi e le rinunce.

Se il tocco del film è in questo senso di quelli estremamente raffinati nel proprio messaggio, lo deve ad una confezionatura esemplare elevata in eccellenza però dall'importanza della recitazione della sua protagonista: tutta quella coltre di silenziosa espressività, di timida dignità convertita in orgoglio e determinazione a seguito di un processo di maturazione che ne segna le decisioni, rendono la prova di Saoirse Ronan semplicemente un dono dal cielo per questo film, così attento a mettere in evidenza la rivoluzione interiore della sua protagonista, ripagato altrettanto generosamente.

Una prova che sorprende fino ad un certo punto per via della crescita professionale sotto gli occhi di tutti dell'attrice già prodigio (fu nominata in ambito Academy a soli 13 anni per Espiazione e recentemente l'abbiamo vista lavorare con Wes Anderson) e che soprattutto può attingere dalla propria realtà biografica alcuni tratti in comune con la sua Eilis (avendo ricevuto anche lei solo incidentalmente natali a New York da genitori irlandesi), cosa che le permette fra l'altro di infondere un deciso realismo nelle intonazioni e nelle cadenze con cui connota l'estrazione del suo personaggio.

Questa mescolanza di accenti rende tra l'altro un servizio fondamentale al film, ne è quasi il carburante in un contesto in cui i dialoghi e i riferimenti all'uso e al costume diventano determinanti per capirne lo sviluppo, il sottotesto si infiamma di significati e dove non arriva l'esplicitazione di una fotografia accurata e il lavoro della messa in scena, a suggerire questi dettagli è proprio la capacità attoriale nel recepire le imbeccate della sceneggiatura: la differenza fra una buona e un'ottima pellicola.

Al suo fianco si muovono (e molto bene) tanti attori di supporto, ognuno fa bene quello che fa ed è tutto talmente ben fatto e senza sbavature (quindi neanche grosse deviazioni) che viene quasi voglia di dimenticarselo; per resistere a questa tentazione basta però ricordare una volta di più che una nuova stella è nata e brilla per tutto il film.

Scena scelta











Room


104 - Room (febbraio 2016)




È la storia di Joy e Jack, madre e figlio, che vivono nella Stanza, un infimo spazio di pochi metri quadrati in cui si svolge la loro intera vita da anni, ormai.

L'evoluzione graduale, e naturale, di questo spunto iniziale è lasciata al punto di vista del piccolo Jack, che ha 5 anni e non conosce niente del mondo esterno (come noi non sappiamo niente di quello che si trova oltre) ed è attraverso i suoi pensieri e le sue emozioni che la brillante sceneggiatura di Emma Donoghue scrive informazioni, aggiunge dettagli, svela pian piano l'incredibile forza narrativa di cui è capace.
La sua rivoluzionarietà, il fatto che abbia molto da dire non sta soltanto nel capovolgimento prospettico (non è il primo esperimento fatto in tal senso e l'uso del monologo interiore fanciullesco era già stato impiegato con finalità analoghe anche in Beasts of the Southern Wild) o, più che altro, descrittivo (la storia si sviluppa da un suo nucleo centrale per poi volgere verso gli strati più esterni che lo nascondono, come fosse soggetto ad una forza centrifuga), ma nel fatto che paradossalmente dopo uno sviluppo così forte ed originale, mostri di sapere quel che intende dire, di non fermarsi al fascino della sua "Stanza"; d'altra parte, non è esente da difetti di rinnovamento o fluidità nei passaggi intermedi ma rende la traumaticità ancora più autentica.

Un film assolutamente sconvolgente, firmato dall'emergente Lenny Abrahamson alla regia e che ha tanto da insegnare sulla magia che il cinema conserva nel raccontare storie potenti e radicate nel fondo della società in cui viviamo, con questa sua atavica dicotomia fra realtà e finzione di cui ha spesso omaggiato se stesso e che si presta molte volte alla lettura della quotidianità e dei suoi mezzi comunicativi (emblematica la funzione della TV nella storia); così il mondo finto di Jack può diventare vero solo a condizione che rimetta in discussione tutto ciò che ha sempre preso per certo e similmente anche noi dobbiamo riconoscere la verità di qualcosa di cui fino a quel momento potevamo solo postulare l'esistenza.
Il ragionamento si estende anche al confronto fra piccolo fantastico (non a caso il narratore è Jack, mente più plasmabile e impressionabile; oltre alla limitatezza fisica della Stanza) e il grande ignoto, che ha qui una funzione di dolorosa elaborazione legata al tempo che si è fermato ma che non si è esattamente fermato; dell'isolamento che è sì cattività ma esercita ancora una malsana attrazione perché, irrazionalmente, è "prigione" ed insieme anche "casa"; tramanda alla mente i momenti perduti, il tempo di cui non si ha più ripetizione, lo strato di rimpianti ed anche le allettanti promesse di un riparo dall'immensità del mondo.

Questa linea (già evidenziata in parte nel precedente Frank) della sconnessione dalla realtà di una vita spezzata o interrotta, è portata avanti da Abrahamson scegliendo nella voce narrante quella tenera ingenuità che è poi lui a mettere in evidenza alleggerendola con un circostante alone di stupore, di scoperta, e naturalmente di crescita; perché Jack ovviamente cresce, e la madre diventa adulta: è il tempo, di nuovo un'astrazione dell'Uomo, a creare l'innesco decisivo. Il regista sembra vegliare sui suoi compassionevoli personaggi con trasporto, rimuovendo ogni tipo di distanza con loro (e di finzione, questa volta) finché anche in lui non si fa strada la maturità necessaria a lasciarli andare, innalzandosi sopra di loro e rimanendo a guardarli mentre scompaiono come puntini nella spaventosa infinità che li ha inghiottiti.

Un film che ha cuore, ottima scrittura, questa patina intimistica che ne "smaschera" i tratti di film indipendente costruita intorno a due grandi interpretazioni (ogni elogio per Brie Larson è già stato sprecato, ma la complessità che è in grado di portare al personaggio è qualcosa di indelebile), capace di fotografare gli highlights con delicatezza ma senza per questo rinunciare a porre (porci) domande scomode, con qualche passaggio incerto che comunque al giovane e promettente Abrahamson si può perdonare tranquillamente.
Specie se continuerà a fare film come questi, che sono quelli che lasciano un solco nell'idea di un cinema necessario, terapeutico, diretto verso un mondo nuovo che deve imparare a conoscere il proprio coraggio e allo stesso tempo a dubitare di tutto.

Scena scelta










sabato 27 febbraio 2016

The Revenant


103 - The Revenant (febbraio 2016)




Il cacciatore di pelli Hugh Glass viene lasciato indietro dai suoi compagni dopo le gravi ferite riportate in uno scontro con un grizzly, da qui inizierà la sua battaglia per la sopravvivenza e, in qualche modo, la redenzione spirituale.

Iñárritu sembra voler celare fra gli epici echi delle regioni fluviali delimitate dagli immensi boschi del North Dakota (in realtà riprese in Canada) il segreto di un film che si trova all'interno di un personaggio (quello di Di Caprio) che ci viene presentato già tormentato, taciturno, con un vissuto e che viene messo poi di fronte ad una serie di sfide, naturali ma non solo, come in un lungo travaglio ordalico che sembra quasi volerne solo indagare la resistenza, chiedersi: "quante ne potrà sopportare ancora?"

Il Revenant, "redivivo" di Di Caprio è al suo ultimo stadio un'astrazione, una finzione: tutto quello che lo compenetra nel processo è assolutamente straordinario, portato fuori dalla severa razionalità del contesto; è all'inizio un semplice uomo ma si plasma, si trasforma in quella metafora, quell'insegnamento morale, quel principio secondo cui non finisce finché non lo decidiamo noi, dominando il nostro destino.
A questo vale la considerazione dialettica del film di Iñárritu, una considerazione che mutua diversi elementi presenti già in Birdman (questo doppio fondo in cui non è sempre facile riconoscere la trappola), come il realismo teatrale, come il cinema del surreale e dell'onirico qua declinato nel mistico e nel realismo magico che ci introducono all'interiorizzazione totale della vicenda che abbiamo davanti. L'inferno che tempra il carattere del suo protagonista è per davvero così impossibile da recepire con l'ausilio della sola nostra esperienza che occorre trasportarlo in un'altra dimensione, quella ignota e inesprimibile a parole (rare, infatti) delle visioni, della poetica del subconscio, dell'immortalità.

A questa missione il regista messicano dedica un'ambizione che addirittura sconfina rispetto alla sua portata, seppellendo in una tragedia dai canoni classicheggianti raccontata per mezzo di personaggi molto letterari (si pensi soltanto al Fitzgerald di Hardy: avido, lurido, meschino, come se fosse uscito da un romanzo d'avventura di Stevenson o la fuga nei boschi prima della resa dei conti dal richiamo molto Omerico) un retrogusto di realtà che riesce ad emergere soltanto in certi casi, quando la verità storica (il soggetto da cui è tratta la sceneggiatura, ispirato al vero Hugh Glass) riaffiora alla mente.

La straordinaria intensità della regia guarda in faccia quella solipsistica della prova di Di Caprio, restituendo un viluppo di immagini continuamente sorprendenti, agitate dal pericolo inaspettato (i piani sequenza, specie quello dell'incipit) della prova successiva, del volerla rendere avventata, selvaggia, estrema in ogni sua parte e conseguenza; Iñárritu insegue il suo protagonista (long takes, panoramiche, steadycam, carrellate; tutto con l'effetto coinvolgente dell'obiettivo grandangolare) lungo il suo viaggio filmico vivendo, in prima persona e nella realtà, le estreme condizioni climatiche della località, come a prendere la faccenda piuttosto seriamente, a voler provare a comprendere con i fatti prima di poterlo spiegare.
Ne esce qualcosa che forse non ha la sagacia o il design fascinoso delle riprese di Birdman ma vive di sussulti, di costanti accelerazioni mozzafiato, momenti che presi singolarmente sono ben più formidabili. La sua grammatica è parzialmente rivoltata, strumentale a quella missione originale, ed a seguire sono una moltitudine di diapositive del paesaggio (la tela fosca della fotografia di Lubezki in campo larghissimo che ce ne ricorda l'imponenza) che si dividono perfettamente a metà con le angolazioni visuali del protagonista il senso del logos ritratto dal suo regista, con questa tendenza a deviare dalla strada tracciata: comincia il vero viaggio, che in quanto tale, è sempre ignoto. Non riducibile quindi solo alla razionalizzazione.

Se in Birdman il raccordo era praticamente inesistente (comunque invisibile) come per formare un lungo indivisibile unicum, qui Iñárritu prendendo per vere e necessarie quelle sofferenze attribuite a Glass, individua come il solo modo per riprodurne l'idea sia quello di dilatare tempo e spazio e costringere il suo attore a lunghe soggettive, insidiandone la finalmente raggiunta calma e la sensazione di sicurezza con detonazioni improvvise che tornano ad infiammare il ritmo, a ricordarci che siamo ancora vivi lì con lui, complici della sua esperienza: ma è un attimo, quello dopo è di nuovo coronato da quest'esigenza di racconto che oltre ad essere motivata da fattori biografici sta lì a ricordarci che per dare credibilità a tutta l'impalcatura serve necessariamente essersi ricordati prima di che cosa significhi essere un uomo, solo, a cui è stato tolto tutto, e dopo aver assaggiato la morte, tornare dall'oltretomba per farcene memento, intercedendo in quel piano duale (realtà/finzione) che diventa poi uno e uno soltanto.

Scena scelta









venerdì 26 febbraio 2016

Bridge of spies


102 - Bridge of spies (febbraio 2016)




È ancora il film a sfondo storico ad essere al centro delle attenzioni di Spielberg che, tre anni dopo Lincoln, torna a parlare dell'America del passato e a riesplorare il genere di guerra lì dove non aveva mai curiosato direttamente in precedenza: anni '60 e crisi degli U-2, al culmine della guerra fredda e del gelo fra Stati Uniti e Unione Sovietica, un uomo diverrà negoziatore di uno scambio di spie fra i due paesi sul fatidico ponte di Glienicke (denominato ponte delle spie).

James B. Donovan (quasi il suo nuovo Schindler, con le dovute proporzioni) diventa così la chiave narrativa che permette a Spielberg di continuare un discorso ormai decennale sull'approfondimento bellico d'epoca partendo però sempre dal particolarismo prospettico del singolo individuo, che si carica sia della sovraordinata importanza degli eventi che gli scorrono davanti sia della capacità di segnarne in parte l'esito - e divenendo, quindi, egli stesso parte attiva di quello scenario.

Spielberg divide in due parti il film, come due sono le fazioni coinvolte in questa lotta psicologica e due sono anche le facciate che costruisce intorno al suo protagonista per raccontarci in realtà della doppia anima del paese cui apparteneva e prestava servizio: un momento prima nemico di stato e "comunista", quello dopo eroe nazionale.
Questo tratto caratteriale segna una continuità nell'opera di Spielberg che da una parte è lo Spielberg appassionato modellista che ribadisce la volontà di riprodurre nei minimi dettagli e trasmettere a chi non l'ha vissuto quel clima politico incerto e claustrofobico (palesato negli stilemi non casuali del genere spionistico), dall'altra dimostra di considerarlo solo un piano di fondo, per trascenderlo e trasformarlo in un piedistallo, su cui collocare invece l'uomo (o gli uomini), l'esperienza, sempre con questo velo di drammatica e simpatetica ironia con cui sembra ricordarci come anche le cose più complesse da raccontare e ricordare in realtà non siano altro che una conseguenza di un errore umano e dell'imprevedibilità di una Storia che si ripete mettendoci di fronte alla comune improbabilità delle cose.

C'è molto di questo nella figura di Donovan, punteggiato come personaggio superomistico e positivo, faro di democrazia e diritti civili, di umanità, di discernimento in un contesto che stenta a ricordarselo; in tempi complicati, quando la comunicazione diventa difficile e non ci si fida più gli uni degli altri può essere soltanto un avvocato a sbloccare la situazione, sembra quasi suggerire uno Spielberg ghignante. E la beffa più grande è che è davvero l'ultimo rimasto a crederci. Una lezione ribadita nel tono consuetamente cattedratico del regista che rammenta all'America che niente è più importante delle conquiste civili e delle regole di cui ci siamo dotati, nemmeno la guerra; e che niente vale più di una vita umana, nemmeno quelle stesse regole.

La regia di Spielberg è, da un punto di vista formale, praticamente perfetta in ogni suo frammento descrittivo: dona al film un grande respiro e dissemina la solita quantità di allegorie visive (la splendida illuminazione, la macchina che "corre" e si nasconde fra i vicoli, i campi che quasi scompaiono avvolti dalla pioggia o dalla neve) in grado di connotare le praticamente infinite aspirazioni morali(stiche) della storia, ma soprattutto registra con la tecnica che gli compete ancora qualcuna di quelle scene magistrali che, anche estrapolate dal film, mostrano un livello di realismo e di rispetto per quest'Arte tali da essere sufficienti di per sé a chiudere ogni questione.

Spielberg nel 2015 (2016) è essenzialmente ancora quel ragazzo entusiasta delle proprie convinzioni e delle fantasie di un tempo, con tutti i pregi e difetti dell'assunto; però dimostra come sia ancora fra quelle poche divinità in grado di tenere completamente in pugno il proprio film, anche grazie agli ormai storici collaboratori: non c'è reparto (interpretazioni, fotografia, scenografie, costumi, colonna sonora - questa volta senza John Williams) che non sia meritevole di ammirazione, un po' come i personaggi che ama raccontare.
E forse è questa la motivazione di tutto, il non voler tollerare niente, ma proprio niente, al di sotto della linea della perfezione.

Scena scelta










giovedì 25 febbraio 2016

The Martian


101 - The Martian (febbraio 2016)




Nel cinema ci sono poche ma solide certezze: se vuoi realizzare un film ambientato nello spazio fallo dirigere a Ridley Scott e, se intendi lasciarci un uomo, completamente solo, per l'intera durata, Matt Damon è un candidato che vuoi considerare per interpretare quell'uomo.

Su questo film, sensazionale dal punto di vista delle atmosfere e molto molto meno impressionante riguardo al grado di innovazione della scrittura, si potrebbe benissimo concludere ogni discorso così, ribadendo come quest'asse professionale fra il fu regista di Alien e il Golden Boy/Re Mida del cinema hollywoodiano (notoria la sua capacità di trasformare i film cui partecipa in successoni commerciali ai box office) diventi il fulcro totale e inesauribile della pellicola, con tutto il resto più in sottofondo.

Come un Robinson Crusoe ambientato su Marte: il tema dell'odissea solitaria dell'uomo non è certo dei più nuovi (e da qualche anno non lo è più neanche se collocato nelle distanze siderali dello spazio - senza scomodare i Maestri, si potrebbe citare il ben più recente e simile Gravity), ma non è questo il difetto più evidente del film, quanto la sua scelta applicata ad uno sviluppo, ad una formula piuttosto riconoscibile e che quindi presenta certi scricchiolii e fa sorgere legittime obiezioni quando si arriva al punto, cioè al pathos generato dall'estremità del pericolo.

Fortunatamente però Ridley Scott, oltre ad essere uno di quei grandi cineasti ancora in forma, è piuttosto intelligente da capire che non serviva l'ennesimo anello di una saga spaziale condivisa, che Marte non è poi più tanto misterioso quanto lo era decenni fa (quando la sola idea di nominarlo era sufficiente a costruirci un film affascinante) e che, appunto, il genere vive un'inflazione evidente: il regista americano sceglie così una linea diversa, più attenuata nei toni e sdrammatizzante nella forma: nonostante la rientranza nei canoni classici di sceneggiatura, Scott imposta il film in maniera da avere sempre appigli per cambiare di registro a seconda del momento, e quindi crea questa covalenza fra una drammaticità mai troppo pronunciata e l'umorismo neanche troppo insinuato che ovviamente va a deformare e quindi a de-strutturare la vicenda (evidente nei dialoghi, nel cameratismo, nella sottolineatura sonora), innescando una specie di riflesso che è buono anche a spiegare come l'uomo finalmente possa vedere se stesso quando è chiamato alla sfida della sopravvivenza.

Anche la tecnologia è usata qui in modo più insolito rispetto al trend recente, con molta più fiducia: si può ritorcere contro, sì, ma è più qualcosa di simile ad un amico che a un elemento ostile (come lo è invece l'inospitale natura), rappresenta in effetti l'ultima ed unica soluzione assieme all'intelletto umano e alla sua capacità di governarla; allo stesso tempo è qualcosa che unisce (divenendo mezzo di contatto, nonché di condivisione globale, e quindi antitetico alla desolante solitudine), non divide. Come dire che l'uomo, da solo, non basta; ma anche come ribadire che siamo noi a creare i presupposti per superare tali limiti.


Nonostante la sua prolissità, la sua genetica ossessione per l'eroismo e le cose che vanno a finir bene, il fatto che la suspance che cerca di creare sfocia raramente in qualcosa di molto credibile, e la regia vecchio stampo del suo autore, The Martian è un film deliziosamente girato che conserva il fascino delle cose vecchie, quelle che ci ricordano della nostra vera natura e della nostra missione originale qualificata nella lotta contro gli elementi e contro il tempo: niente come la bellezza delle immensità delle rossissime lande di Marte (catturate da una Fotografia che lascia poco all'immaginazione) lo definisce e, alla fine, difettucci a parte, la sensazione è di aver appena saggiato la superficie, assaporandone sì soltanto un surrogato, ma di quelli che possono lasciare soddisfatti anche i non esteti più puri fintanto che si è disposti ad accettare che quello che si è visto, con la concezione della fantascienza da copertina dell'ultimo decennio tutta improntata su azione e realismo spietato, ha poco a che fare.

Scena scelta











mercoledì 24 febbraio 2016

Mad Max: Fury Road


100 - Mad Max: Fury Road (febbraio 2016)




36 anni dopo il primo Mad Max della prolifica saga cult di George Miller, arriva questo splendido gioiellino, di nuovo immerso in atmosfere post-apocalittiche e pronto al consumo.
Non c'è più Mel Gibson nel ruolo del protagonista (sostituito da Tom Hardy) e a differenza degli altri capitoli non è un sequel/remake/reboot ma una sorta di auto-omaggio della serie; resta che, a differenza di quanto ci si possa aspettare prima di averlo visto, siamo in presenza di un film tutt'altro che inutile.


Quello che da subito appare evidente è che non si tratta né di un'abulica rivisitazione né di un semplice action-movie con una trama stiracchiata e troppo dinamismo fine a se stesso: quella di Miller è un'adrenalinica esperienza visiva e sonora a tutti i livelli, insuperbita dalla fotografia spaziale di J. Seale (Cold Mountain, Rain Man), e corroborata scena per scena e inquadratura per inquadratura da un immane lavoro d'immaginazione e da un design (elaborato solo in minor parte in computer graphic) inquadrato in ogni minimo dettaglio, dall'effetto ridondante delle scenografie alla funzionalità narrativa del dettaglio di scena: ogni singola componente del quadro visivo è lì per suggerire qualcosa (un'emozione, una backstory, un'appartenenza sociale) ed il racconto è anch'esso tanto particolareggiato e fantasioso da riuscire ad intrattenere in maniera brillante.

Ci sono ovviamente una serie di elementi di rottura che fanno parte dell'esperienza propriamente "cinematica" di Miller: le stravaganze caratteriali, il fascino del linguaggio che si mescola a quello già esotico del contesto, l'idea inaccessibile del vivere oltre ogni logica di buon senso che spinge quel concetto iniziale - in un futuro più o meno remoto l'umanità è in stato di degrado e non esistono leggi se non quella del più forte - ben oltre i binari della fantascienza distopica per creare qualcosa di unico e inimitabile (il tutto sempre con la convincente autorevolezza misurata dal realismo delle scene d'azione o dall'ingegnosità della cornice coreografica degli stuntmen).

Sono punti fermi di una sceneggiatura che trova ancora qualcosa da dire sull'argomento, pur senza inventarsi niente, ma senza nemmeno suonare farraginosa o forzata e anzi, saldamente cucita ad un'idea di continuità (suggerita, ad esempio, dalla stessa strada, la Fury Road che occupa il costante campo della pellicola) che si può apprezzare nello sviluppo attento dei personaggi lungo il film, non destinati a rimanere solo macchiette divise fra bene e male così come nel disegno catastrofistico non tutto è solo morte e disperazione, ma ci sono ancora tracce di umanità.

Un film che è una vera macchina di intrattenimento dunque, feroce e selvaggia come ad onorare la memoria storica del franchise ma allo stesso tempo capace di maggiore maturità in quel suo vivere delle luci riflesse dello spettacolo che ci mostra e anche capace di consacrarsi in un momento di solitudine attraverso la regia, anche qui sottolineabile per versatilità e accenti, di Miller (che ha creduto tanto nel progetto da seguirlo in una gestazione lunga un decennio).

Se proprio bisogna trovargli un difetto, questo ha più a che vedere con la scarsa compatibilità personale rispetto ad un topos o alla sua peculiare derivazione autoriale da parte del regista australiano che richiede (o esige) un totale e continuo stordimento a scapito di una maggior predisposizione al dialogo, piuttosto che con una cattiva fattura del film; ma il suo ritmo è perfetto, Miller sa quando eccedere in mezzore di puro delirio e sa quando invece fermarsi a raccogliere insieme tutti i pezzi rimasti di un film che, e si può dire tranquillamente, dopo essersi ritagliato uno spazio nel cuore dei suoi fan di lunga data adesso lo ha definitivamente trovato anche nella cifra dell'iconografia cinematografica contemporanea.


Scena scelta










The big short


99 - The big short (febbraio 2016)




2005, dall'osservazione dello scenario economico in evoluzione l'eccentrico ma apparentemente geniale Michael Burry effettua una previsione catastrofica riguardo al mercato immobiliare americano, prevedendone il crollo concretizzatosi nel giro di qualche anno, e cominciando a scommettervi contro. Sulla sua scia altri faranno lo stesso lucrando sull'enorme bolla creata.

Con in mente questa (tutto sommato semplice) premessa, il film di McKay si avventura ben presto in una selva oscura di terminologie, tecnicismi e in tutti gli (oscuri) meccanismi alla base del ragionamento, quasi volesse un po' riprendere il discorso lì dove appena un anno fa lo aveva lasciato The Wolf of Wall Street, ricalcandone il senso di indignazione, il ritmo impetuoso, l'opulenta sfacciataggine dei suoi attori e senza lesinare piccole battute d'arresto lungo il cammino in grado di far risaltare, assieme all'eccesso immorale e alla connivenza d'interessi anche una grossa fetta di stupidità sistemica, appositamente legata a doppio filo con la sensazione che avvolge lo spettatore, mentre tenta di stabilire un legame con gli speculatori che occupano lo schermo, abilissimi nel padroneggiare concetti che sfuggono alle menti più a digiuno di nozioni finanziarie.

L'effetto prevedibile è di suscitare, a catena, domande su domande, un po' come quelle che prendono in ostaggio il film lungo questa ricostruzione scenica del "come" sia stato possibile tutto quello che abbiamo vissuto, e tutte quante risalenti alla stessa (amaramente) ironica risposta, quella di un sistema che si autorigenera per questa forza inerziale.

Con una lunga carriera comica alle spalle (fra le altre cose fu regista del SNL), McKay applica il suo stile anche a questo film, creandone rilievi umoristici (e a tratti demenziali per sottolinearne il parossismo) anche dove la storia lo permetterebbe meno, sospendendola in uno scenario quasi fantastico, tragicomico nelle sue implicazioni. Lo fa per mezzo di una scomposizione narrativa che vuol essere funzionale al racconto su larga scala cui ambisce e probabilmente intende in buona fede aiutare lo spettatore ad addentrarsi meglio nelle sue logiche perverse ma il risultato, in conseguenza all'uso scriteriato del gergo tecnico, al montaggio serrato e al ritmo vertiginoso della recitazione è quello disorientante di una dimensione in cui non ci si può che perdere infinite volte prima di giungere alla sensazione che poteva comunque essere conservata dall'ignoranza precedente al film.


La regia di McKay, così divertente, energica e sempre sorprendente nella combinazione ed alternanza di elementi più classici del genere con quelli di una commedia stilosa fatta anche di ammiccamenti (grafici e non) alla cultura pop, riesce comunque a rendere accattivante un prodotto che non fa niente per non rendersi simpatico e genuino al 100%, sublimato in quel suo vizio di accelerare quando intende quasi sorvolare su ciò che costituirebbe dato sensibile per l'ingranaggio ma che in sostanza è invece lasciato fuori dal messaggio.

Uno sforzo che va lodato nella sua complessità (se non altro per l'originale caratterizzazione "for-the-masses" della vicenda, il taglio satirico e l'intento critico finale) specialmente in virtù di una qualità di storytelling e interpretazione così elevate (Christian Bale ma soprattutto Steve Carell), entrambe brillanti nel rendere l'eccesso ancora più eccessivo e la follia ancora più drammaticamente assurda, ma il giudizio finale del film risente un po' di questa grave inintelligibilità al fine di una sua completa fruibilità che nega per gran parte del tempo una reale possibilità di un legame con esso che non sia quello di un vago sentimento oppressivo contro le istituzioni che ci governano ed il loro potere.


Scena scelta










martedì 23 febbraio 2016

Spotlight


98 - Spotlight (febbraio 2016)




La vera storia e cronaca di come nel 2001, la neo-creata squadra Spotlight del Boston Globe, scontrandosi contro un muro di omertà risalì, indizio dopo indizio, allo scandalo che investì la Chiesa sia nella notevole parte dei suoi sacerdoti colpevoli di abuso di minori che nelle sue alte sfere, inchiesta che valse alla redazione il Premio Pulitzer.

La sceneggiatura di Tom McCarthy, regista (e anche co-sceneggiatore) non molto prolifico ma con già qualche precedente collaborazione a film di natura politica così come prettamente politico è questo film di denuncia, è di quelle in grado di attanagliare cuore e cervello con le mani sottili ma decise di un giornalismo che è quello vero, quello cui chiunque dovrebbe realmente aspirare; e forse proprio in quanto mosca bianca, esempio così puro e perfetto di aderenza alla propria coscienza, è ancora più difficile assistervi retroattivamente senza subire rimescolamenti interni.

Se i significati emozionali (nelle tracce di empatia naturale con le vittime) inclusi nella storia sono piuttosto espliciti e se la scrittura pur caotica che sia (perché caotico è ciò con cui ha a che fare) si mostra metodica nella sua ricerca di schemi in grado di mostrare la verità, è al ruolo di paladina della verità, di luce nell'oscurità (appunto "spotlight") assolto dalla funzione giornalistica che si devono le ribalte del film, e dunque l'uomo nei suoi meccanismi sociali, di come la sua cattiva natura possa contaminare gli altri nascondendovisi all'interno, ma anche di come talvolta sia possibile fare il contrario e rimuovere quel velo. Quasi un inno, allora, a quella fiaccola di speranza coraggiosa che sembra diventare imprescindibile di fronte a un'evidenza di questo tipo (scindendo, qui sì, fra fede e speranza, fra il velo corrotto del potere organizzato e la fiducia nelle migliori intenzioni di cui è capace la natura umana).

La variegata coralità (per usare un gioco di parole, "dalle molte anime") ricercata da McCarthy è quantomai ben diretta nella sua formazione attoriale e interpretativa e, se da una parte il fatto che nessuno risalti realmente sugli altri mancando di un'interpretazione madre lo penalizza un po' nella drammaticità, dall'altra è anche vero che il contributo commisurato di ciascuno, con i propri toni e colori (si pensi all'approccio più misurato e meno autoindulgente di Keaton e alla prova invece più viscerale e ostinata di Ruffalo) parificano e livellano il cast equiparandolo propriamente ad un team; ma non solo: rendendoli metaforicamente tutti uguali, o comunque parimenti vulnerabili davanti alle proporzioni del terribile segreto che si va via via disvelandosi sotto i loro occhi.

Quel che è poco ma certo è che il film ha questa confezionatura di fondo che la rende davvero molto appetibile e un contenitore adatto al tipo di storia dai connotati molto emotivi ma che non scalfisce il tessuto interno composto di strati su altri strati da cui emerge chiaramente un'opinione di parte nella visione del suo regista che giustamente non si limita a raccontare una storia, ma lo fa declinandola nella prospettiva dei suoi protagonisti e quindi di chi non riusciva e ancora non riesce, totalmente, ad accettare quel genere di sconforto che ci accompagna anche molto oltre il nero dei crediti finali: quando ci rendiamo conto che non è stato solo un film e che, fuori dagli abiti che portiamo (inclusi giornalisti e artisti) il nostro resta un mondo popolato da lupi travestiti da agnelli per riconoscere i quali occorre fare molta attenzione.


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mercoledì 10 febbraio 2016

45 years


97 - 45 years (febbraio 2016)




È l'anniversario dei 45 anni di matrimonio di Kate e Geoff Mercer, e mentre la macchina da presa ritrae un matrimonio che si è conservato in tanti anni intatto nella sua esteriorità, qualcosa sembra invece scalfirlo, improvvisamente, dall'interno: è una lettera, un segno tanto materiale quanto inesorabile che qualcosa sta cambiando, o forse ha continuato a cambiare, pur se cristallizzato in un'epoca (quella della relazione) tanto lunga da parere infinita, assoluta, non in discussione.

È quindi lo spettro di un passato solo superficialmente sepolto a rimestare nelle menti e negli equilibri della coppia, un bell'esempio concreto di tutta l'amara inevitabile contraddizione che esiste fra gioventù e vecchiaia, fra vita e morte, fra avventura e quiescenza che condiscono una narrativa fatta di estremi "umani" in questo racconto sulle angosce insinuate dall'incedere del tempo nel momento in cui la nostra percezione ci permette di apprezzarne realmente il valore, il resoconto finale.

Non riguarda solo l'invecchiare, e quindi l'attitudine diversa in ognuno di noi di fronte al suo avvicinamento ad essere messa in mostra o alla prova e che diventa esperimento filosofico sotto i nostri occhi, ma è un accumularsi di simboli, piccoli gesti e tradizioni che sommati nella loro singola e minuscola incisività segnano la nostra vita (insieme e non) caricando quel tempo trascorso di un significato.
Attraverso un discorso molto basato sulle sospensioni (a cui si presta perfettamente l'interpretazione magistrale della Rampling, che con quei suoi toni soffusi e quella gestualità fisica tutta accennata e sottintesa scava nei silenzi una coltre di dubbi, tormenti e rimpianti che valgono il film), sugli attimi caduchi e decaduti, sull'assordamento delle domande a cui non possiamo proprio avere risposta, la visuale di Haigh è elegante e drammaticamente inerte, come in rapporto simbiotico con la sua protagonista, tanto da apparire quasi marginale o minimale nel suo scarso coinvolgimento all'interno di una storia che esita a carburare, ma è proprio questa mancata percezione a rafforzare in realtà il sentimento di isolamento, di frustrazione che permea questo intenso spettacolo di silenzi.

La camera viene abbandonata a lunghi minuti di inquadrature fisse, il montaggio è statico e di connotazione fortemente descrittivo-riflessiva, il paesaggio tutto intorno è immobile mentre inframezza l'avanzante cronologia del film ed è solleticato solo dai lamenti del vento che è un vento nuovo ma è sempre lo stesso di sempre: uno stato di calma apparente delizioso, distaccato, che introduce ad un (dis)gelo quantomai calzante alla sua premessa narrativa per portarci alle estreme derive psicologiche di quella sensazione che forse meglio di tutte descrive la senilità qui raffigurata: quel non poter tornare indietro per fare qualcosa che oggi avremmo fatto in un altro modo e senza nemmeno potersi cullare nella autocompiaciuta, ironica tristezza del non crederci veramente.


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domenica 24 gennaio 2016

Me and Earl and the Dying Girl


96 - Me and Earl and the Dying Girl (gennaio 2016)




Dopo aver cercato di nascondere la propria personalità rifugiandosi nell'anonimato e allontanando qualsiasi forma di rapporto vero e proprio, eccentrico ma estremamente incerto, Greg Gaines si trova finalmente dirottato dalla madre nella inattesa situazione di offrire conforto alla (a malapena conoscente) "Ragazza Morente", in quanto affetta da leucemia, Rachel.

Come uno schiaffo sardonico, una terapia d'urto dai contorni improbabili, questo immediato ribaltone colmo di paradosso e goffo umorismo viene amplificato attraverso la cassa di risonanza delle fobie sociali del protagonista, finalmente costretto a credere all'esistenza di altro intorno a sé, ad espandere i propri orizzonti ed accettare il disagio che è condizione universale dell'essere (o sentirsi) soli e incompresi.

Con l'amico (che lui però definisce "collega") Earl fanno e rifanno filmini amatoriali che non mostrano in giro per paura dei giudizi negativi. Sono di stampo parodistico e immortalano alcune delle opere più coraggiose e ambiziose del Cinema (Herzog, Kubrick) finendo per essere ridotte a sequenze semplici e ironiche: un po' la caricatura della caricatura della fase adolescenziale di Greg, che, per dirla con Alice Cooper, "get confused every day", e cerca di riempire tutti i silenzi imbarazzanti convertendoli in una originale forma creativa di umorismo dissociato dalla realtà e dalle sue regolarità.

Il caos, il vuoto esistenziale, il rifiuto del fagocitante futuro, le ansie sociali e i rifugi dell'immaginazione in questo ritratto di alienazione e di progressivo distacco da ciò che è realtà mostrano un ottimo film sul virtuosismo delle vulnerabilità e sulle barriere che innalziamo per cercare di proteggerle, sfumate in una paura disordinata che è una sorta di comune fardello indistricabile radicato nell'insostenibile leggerezza dell'essere, nella sospensione dei significati e nella ricerca di punti d'appiglio.

La sceneggiatura davvero ben architettata e dai rimandi molto cinefili trova in Gomez-Rejon il regista perfetto: una descrizione leggera e intimistica di un esponenziale bisogno di distrazioni dalle complicazioni della vita, praticamente una fantasia dentro la fantasia strutturata con una sorta di meccanica metacinematografica che sfocia nell'orgia postmodernista dell'emergente regista americano, sempre pronto a sperimentare, a stupire e a citare, sia dentro che fuori dal perimetro del film con tutto un armamentario di riprese e angolazioni surreali e stranianti. Da sbalzi improvvisi a scudisciate vere e proprie di camera ad altre sequenze ben più quiete e distanti - un miscuglio che richiama persino omaggi a tecniche in disuso come lo stop-motion, anche una delle più sperimentali non a caso - l'occhio si innalza, si astrae e si muove con vigore attorno alle simpatiche/dolorose vicende di questi personaggi in cerca di un happy ending; imbroglia e distorce mitigando e aggiornando le aspettative un po' alla volta come la vita di cui offre uno spaccato non esclusivamente rappresentativo del microcosmo teen dei suoi personaggi ma che si allarga in uno spettro di comune esperienza.

Attraverso un racconto onesto, organico e delicato che non lesina sorprese lungo la via, è comunque la mano sicura del regista a rendere quella che è una storia - seppur piena di peculiarità - non molto dissimile da altre di recente tendenza una sorpresa visiva ed emotiva costante, intelaiata su crescenti contrasti, climax evanescenti, un montaggio catchy e una scelta metodica di un sottofondo musicale legato anche alla valorizzazione della scena piuttosto che al suo meramente banale riempimento.

Gran Premio della Giuria al Sundance Festival 2015, per quest'esordio promettente che non si può che promuovere.



Scena scelta