domenica 26 febbraio 2017

La La Land

124 - La La Land (febbraio 2017)



Mia è un'aspirante attrice che ha perso la fiducia in se stessa, Sebastian un virtuoso pianista che sogna di aprire un locale jazz ma è invece costretto ad allietare la clientela con dozzinali canzoni natalizie per sbarcare il lunario.

«Dedicato ai folli e ai sognatori» recita una Tagline del film, perché chi è tanto pazzo da inseguire i suoi sogni spesso non sopravvive alla realtà (il testo di "Audition"). E come diceva Nietzsche "l'arte rende insopportabile la vista della vita".
Il film dedica se stesso un po' a questo concetto, indaga i confini labili fra realtà e finzione e lo fa servendosi del genere che più di tutti gli altri ha storicamente evaso la realtà sensibile, esaltandone la dimensione onirica, surreale, magica per riscrivere con l'Arte le regole di quella stessa realtà che l'ha originata e piegata.
Spesso lo ha fatto con vena polemica nei confronti del business e di quella, quasi contraddittoria, tendenza della realtà a ricreare in arte (e quindi anche in musica e nel cinema) quella fantasia che all'interno di sé invece soffoca; Chazelle parla anche di questo.

Un film sulla bellezza imprescindibile dei sogni, ma al contempo sull'importanza di guardare avanti: se in Whiplash l'ideale di perfezione (la mimesi arte-realtà) guidava e trasfigurava la realtà offrendo un mix significativo di sangue e leggenda, di corporeo ed etereo, qui Chazelle, nonostante le colorate pennellate di allegria che inevitabilmente segnano un film diverso, ricorda in sottofondo come la realtà sia dura e inclemente nei confronti delle illusioni dei sognatori, di come spezzi chi tenta di salire la grande scala del successo, ma anche che il segreto di tutto è che in fondo siamo nati per essere quello che siamo e che l'autodeterminazione del sogno non può prescindere dalla conquista di una realizzazione reale, salda a terra (il sacrificio e l'applicazione in Whiplash, la rinuncia ad un pezzo del sogno stesso qui: viene citato Casablanca, in cui per fare la cosa più giusta i due protagonisti si separano).

Chazelle porta il Jazz in un Musical; non per la prima volta - certo - ma in un modo che è tutto suo che conferma lo straordinario legame simbiotico e quasi biologico del regista con le sue profonde radici (è uno stile di vita, un'entità che si intromette nella vita e la rimodella di minuto in minuto, ed è l'immaginario romantico fatto di leggende e concretezza che anche qui vengono alimentate) e serve da metafora per quello che qui realizza: prendere un Genere tradizionale o tradizionalista, composto di una serie di inesorabili convenzioni e ammiccamenti classici e, in qualche modo, sovvertirle una per una per poi reinventarle con occhi nuovi ("give us new colors to see").

Si potrebbe quasi dire che Chazelle ha diretto un Musical come un formidabile solista jazz: la sua passione, l'energia con la macchina da presa (long-take, interi piani-sequenza come quello introduttivo, carrellate e panoramiche adrenaliniche: lo stile è abbastanza libero e individualista perché dia l'impressione che stia facendo proprio quello che fanno i suoi musicisti: rompere gli schemi del film e inventare qualcosa di sorprendente "out of the blue") sottendono a uno spirito rivoluzionario e irrequieto e, tuttavia, già "classico", già un modello cui ispirarsi successivamente per farne qualcosa di diverso.

Se nella prima parte sistema il detonatore in punta di piedi, con classe ma senza esagerare nelle soluzioni coreografiche, nella seconda attinge finalmente al combustibile emotivo della storia per far esplodere letteralmente il film in una vertigine di luci ipnotizzanti, scenografie immaginifiche, numeri musicali usciti letteralmente dal nulla... la stilizzazione visiva è decisiva per Chazelle, senza non sarebbe se stesso, e il racconto che rimane a lungo un po' ripiegato su qualche prevedibile cliché finisce per acquisire una sua dignità nel volto di altri due personaggi (dopo Whiplash) che si specchiano e scontrano l'uno nell'altro, ricavandone speranze e delusioni, e alla fine, il meritato palcoscenico.

In generale il film traspone bene il sentimento dei suoi personaggi in questa confusa linea immaginaria che li separa fra loro e dai loro alter ego, non cade nella tentazione di voler rifare Broadway, ha un suo stile che lo contraddistingue e un lavoro miracoloso sul dettaglio e sull'impressionismo dei colori sfolgoranti che lo rende allegro senza essere vacuo, che ha qualcosa in più da dire anche sulle vicende sentimentali (mai lasciate a bagno nella scena troppo a lungo) rispetto a una morale che è riuscita non perché attesa ma perché velata da un senso di onestà rispetto ai personaggi e alla loro identificazione con le persone che li hanno scritti.

Le musiche sono ora classicheggianti ora completamente insolite (in una parola "versatili"), implementando nel sontuoso lavoro di Hurwitz sia elementi della tradizione teatrale che quelli di più diretta influenza dei circoli esclusivi, i numeri musicali sono copiosi ma mai invasivi, anche se pochi in realtà quelli in grado di lasciare il segno - strategicamente collocati nelle scene chiave.

Il suo valore è comunque già ampiamente dimostrato dalla sfilza di premi ricevuti, e per sapere se otterrà anche quello più ambito della stagione cinematografica è solo questione di tempo.


sabato 25 febbraio 2017

Moonlight

123 - Moonlight (febbraio 2017)



È la storia di formazione di un ragazzo afroamericano, che definisce la sua maturità e il suo "divenire"' come essere umano, attraverso un'infanzia e un'adolescenza travagliate.

Il film analizza il processo attraverso tre momenti fondamentali che restituiscono il senso ben preciso di una storia: l'inizio, la transizione, la fine.
Non c'è molto ottimismo, anzi c'è una connotazione fortemente amara nel film di Barry Jenkins, che prima di approdare agli onori della cronaca per la sua inclusione nei salotti dell'Academy si era fatto una reputazione importante nel circuito indipendente, a cui appartiene per elezione tematica e stilistica. Il senso è quello profondamente intimistico e universale di una storia di emarginazione, di solitudine e di alienazione (come il blu intenso della composizione non fa che ricordarci) nonostante poi le contaminazioni e le diramazioni etiche non possano prescindere da un certo humus culturale: il ghetto, il traffico di droga, l'essere minoranza all'interno di un'altra minoranza, la fortuna o la sfortuna di avere o meno riferimenti che segnano il percorso evolutivo.

Il film dipinge un suo personale, suggestivo, ritratto di come un'anima così vulnerabile e sensibile nei confronti del mondo esterno possa trovare se stessa solo rinunciando a una parte di essa, e in questo è straziante, di un'infelicità sussurrata, distratta. Le immagini che ci mostrano questo stato d'animo provato e mutevole sembrano tele, dipinte e sospese nelle atmosfere crepuscolari che fanno da sfondo e contemporaneamente da guscio protettivo a questa prospettiva particolare, nella sua eterna connessione con il mondo, la sua bellezza, con gli altri, raggiunta o soltanto cercata.

Ed è infine questo il significato ultimo, quello di una ricerca, ascetica tanto è silenziosa e meditativa, tanto fissa lo sguardo sul punto oltre l'orizzonte; come se stesse guardando a un futuro fatale che conosce già.

Tutto questo il meraviglioso film di Jenkins lo scrive a chiare lettere con le immagini, gli sguardi ed i gesti, cucendolo in una regia, una fotografia, un montaggio e una recitazione che contribuiscono in parti uguali ad una storia che non ha quasi niente nel suo contenuto di troppo speciale - o di pretenzioso - ma lo filtra attraverso la nitida, fragile, unica lente di un'esistenza minacciata e disordinata, in qualche modo incompatibile con tutto quello che le ruota attorno, su cui i giudizi si sospendono.

In questo la regia versatile e armoniosa di Jenkins, così efficace sia a catturare la verità più interiore del suo protagonista avendo a che fare con tre diversi attori sia a non negarne le radici culturali (ambiente e libero arbitrio sono tiepidamente indagate), è magistrale nel tenere sotto controllo questo potenziale emotivamente trattenuto, impossibile da sviluppare a pieno, vacuo nella punteggiatura, reticente nei raccordi; c'è una sensazione ben determinata che rimane quando il film si chiude che è incancellabile dalla memoria, ed è che ogni punto di vista è espressione di una corresponsabilità, di un unicum a cui lo costringiamo, tutti insieme, non è possibile pensare di prescindere da questa realtà o dalla sua osservazione.

Un film che in un qualche modo, antidogmatico e tutto suo, si appropria di una dimensione spirituale, di una connessione fondamentale mediata da una regia attenta e scrupolosa; una visione che immortala davanti ai suoi occhi una strana danza di corpi sotto un chiaro di luna, di quelli che colorano la pelle di blu, un blu che ti si attacca addosso e che in qualche modo neanche noi vogliamo più scacciare via completamente.


venerdì 24 febbraio 2017

Manchester by the sea

122 - Manchester by the sea (febbraio 2017)



Lee Chandler è un idraulico che vive a Boston una vita riservata e monotona, finché non riceve la notizia che il fratello è morto. Si dirige così a Manchester by the sea, dove si prende cura del nipote rimasto orfano e sulle cui acque amavano andare in barca.

Nel tipico stile asciutto del regno del cinema indipendente, Lonergan crea come un mosaico, o per meglio dire un puzzle, per mostrare la frammentarietà psicologica ed emotiva dei suoi personaggi; lo fa con un'enfasi praticamente assente, quello che gli interessa davvero è la reazione più umana, l'essenza più corporea del dolore soffocato, represso, o semplicemente messo in un angolo.

Lonergan non rinuncia ad una visione complessiva, naturalistica e quanto più oggettiva possibile, e per questo nella sua opera coesistono complessamente sia dramma che un umorismo quasi campy, ma diversamente da quanto farebbe ad esempio Payne, non è per sdrammatizzare (e quindi in fondo ricollegare tutto all'impellenza del superamento della sofferenza come schema principale), ma come per assicurarsi che ogni momento abbia la sua dose di "giustizia", che ogni piccolo pezzettino restituisca in proporzione ciò che preleva in parti uguali dalle interpretazioni dei suoi attori, dalla trasparente sincerità della sceneggiatura.

Si ha quasi l'impressione di avere assistito ad una cronaca, a un documentario, a una ricomposizione, e in parte è tecnicamente vero - vista la funzione strutturale del montaggio - ma è soprattutto perché il regista cerca di capire i suoi personaggi, di comprenderne le reazioni, gli schemi ossessivi, le scene di imbarazzo, i lunghi silenzi; anche quando cerca di essere divertente lo è moderatamente, come se non ci provasse davvero: non gli interessa sviare l'attenzione da qualcosa, ma neanche concentrarsi su quel qualcosa.
Per questo il sottofondo sempre presente, anche se a volte impercettibile, dell'espiazione e dell'elaborazione non ha facile sfogo e dona un tocco così insolito, così personale ai toni del film.

La sceneggiatura, con i suoi continui salti avanti e indietro, la sua continua intromissione in un pezzo da qualche parte della storia (come se ogni scena fosse lo schizzo di un disegno incompleto) è la cosa più stimolante del film, permette a Lonergan di costringere chi guarda a collegare i pezzi e a riconsiderare quello che avremmo pensato di un personaggio un momento prima.

La freddezza di questo suo peculiare montaggio rende sempre viva l'azione del film: anche se non succede praticamente niente si ha sempre la sensazione che la storia evolva, ma non è tanto per dimostrare un cambiamento nei personaggi, o nelle loro azioni in particolare (ovvero per venire al nodo di una storia), quanto per avvicinare lo spettatore ai suoi personaggi, al suddetto stato frammentato; perché Lonergan, che qui è regista ma è soprattutto, intrinsecamente, uno sceneggiatore, nutre indubbiamente più interesse per i suoi personaggi, per quello che sentono, piuttosto che per l'idea di un racconto in sé; la storia è accessoria ai personaggi, non viceversa.

Ed è forse proprio qui che in un certo senso esagera nel riempire il suo film di "spezzoni", nell'ampiezza della divagazione, tanto che forse si perde un po' il senso d'insieme - Manchester by the sea può essere un film sull'espiazione, su una tragedia familiare, ma anche sulla solitudine umana, sulla nostalgia dell'infanzia, sui rapporti paterni e fraterni, come anche sull'infantilismo e sull'inadeguatezza: in certi momenti questa sua indeterminatezza è difficile da far digerire alle ambizioni intimiste e atonali di Lonergan.

Dalla sua parte ha un ottimo cast di attori completamente asserviti alle sue idee, Affleck con la sua interpretazione minimalista rappresenta una salda spalla su cui puntare (e mai smuovere) la macchina da presa; il suo Lee non è lo "strong and silent type" e non è neanche un "mumblecorer"... è il ritratto di una perdizione che scende a patti con una asfittica realtà, non si trincera dietro il silenzio per dimostrare la sua forza ma è in effetti tutto il contrario. È anche in questo, nella sua silenziosa prova di umanità, che sta il segreto di un ottimo film che nasconde nel suo cuore molto più di quanto forse non riesca a rappresentare.


mercoledì 22 febbraio 2017

Arrival

121 - Arrival (febbraio 2017)



Misteriosi oggetti giganti invadono la Terra distribuendosi in punti apparentemente casuali; la dottoressa Banks viene interpellata per interpretare il linguaggio degli extraterrestri e stabilire una comunicazione.

Si possono dire tante cose di Villeneuve, ma è un vero esteta, un genio visionario, un creatore di immagini e un pittore di mondi; la Fantascienza è da sempre un contenitore ideale in cui racchiudere l'immaginazione, ma la sua storia cinematografica blockbuster negli ultimissimi lustri ha dato sempre più in pasto agli spettatori atmosfere banali condite da effetti dozzinali, per non parlare di una trivializzazione di storie sempre meno scientifiche e sempre più sentimental-melodrammatiche, quando non basate meramente sull'azione o su ritorni d'immagine.

Questo film, basato sul romanzo di Ted Chiang, è stato considerato a lungo un progetto irrealizzabile, troppo complesso da figurare; probabilmente solo un regista (eccessivamente) attento alla forma come Villeneuve poteva avvicinarvisi abbastanza da trasporlo fedelmente senza finire invischiato nel suo significato.

Per adattarsi alla non linearità del tempo del racconto, Villeneuve finisce per sconvolgere le stesse regole del tempo filmico e le stesse strutture che lo governano, creando con il montaggio qualcosa che funziona come un orologio rotto (o quasi liquefatto come in Dalì); un'astrazione (la nostra concezione del Tempo) spiegata o diversamente implementata in una nuova astrazione.
Ma il film in realtà non ha queste ambizioni, non vuole spiegare, non vuole razionalizzare. È prima di tutto un film costruito sulle sensazioni, ed è in questi termini che è semplicemente straordinario nel suo senso più letterale.

Villeneuve gioca a confondere lo spettatore, a gettarlo in una dimensione onirica da cui non può uscire se non accettandone con sfida lo stato ignoto e, similmente al linguaggio alieno da decriptare, per descrivere il quale deve trovare parole nuove rispetto a quelle umane, parole che forse non esistono: il suo film esorta a sentire, a interiorizzare, quasi a "captarsi" l'un l'altro, e quindi ad allontanare quello che pensavamo di sapere per introdurlo nella nostra mente in modo nuovo; non è un film da capire, da intellettualizzare, è uno straordinario film di integrazione fra razze con una morale di fondo pacifista. Gli si perdonerà forse il richiamo a un certo archetipo scientifico-drammatico (impossibile non notare nell'impianto narrativo influenze di classici quali "The Day the Earth stood still" - Ultimatum alla Terra), se in proporzione restituirà in cambio almeno altrettanta inventiva.

Spettacolare e immaginifica, brillante nel risultato estetico (una Fotografia meravigliosa), Villeneuve passa gran parte del film a sperimentare, mesmerizzare, frammentare lo spazio e il tempo, ma trova soprattutto appagante l'idea claustrofobica e ovattata della scoperta: non vuole che sia un trattato sui viaggi nel tempo, vuole che sia un'avventura, una determinazione istintiva e successivamente morale di un risultato visivo potente, mozzafiato ed emozionante; non vediamo mai il pericolo in faccia... ma l'abisso in cui questo film trascina con sé le sue luci asettiche ed effettate è qualcosa che vale la pena di ricordare, anche tralasciando le imperfezioni di una sceneggiatura che mira a un risultato semplicistico - e tuttavia, anche così, sorprendente nelle sue conclusioni.

A permetterlo è questa sua capacità di giocare su piani e universi sovrapposti, unita al suo unico stile visivo, al tremendo impatto emotivo del suo immaginario, che insieme travalicano la più nuda essenza della storia, delle sue comuni caratteristiche più Thriller.

La cosa più gradevole del film è questa tendenza a tenere a freno di parecchio - considerata la moda recente - i tecnicismi scientifici o l'espressione della forza militare commista al solito morboso sfoggio di Azione (qui solo accennata, solo minacciata) per entrare più nel vivo di un contatto metafisico, e di un linguaggio che è esigente, pretenzioso, enigmatico; con esso se ne va il retaggio della vecchia razza umana e, finalmente, nel 2017, anche la noia terribile che aveva colpito il genere prima di questo film.
Un 9 che più pieno non si può.


martedì 21 febbraio 2017

Lion

120 - Lion (febbraio 2017)



Saroo, un bambino di un villaggio Indiano si perde alla stazione dei treni mentre aspetta il fratello più grande, e senza sapere come finisce a Calcutta: disperso insieme ad altri ragazzini come lui, fra le falangi di un sistema criminale sommerso che ha mercificato quelli come lui in una vera e propria tratta, troverà alla fine una famiglia adottiva in Australia, dove cercherà di ritrovare le sue radici.

Quello dipinto dal film, la cui sceneggiatura è tratta dalle memorie del vero Saroo Brierley, è quindi un dramma sociale oltre che privato e umano, che occupa un lasso di circa vent'anni, e lo fa attraverso la narrazione di un viaggio che ha quasi le sembianze di una missione santa, una qualche sorta di ricongiungimento spirituale.

Questo è l'impatto, l'impressione immediata che lascia un film talmente semplice e modesto da apparire dimesso; un film, nella sua spontaneità, davvero ben diretto e fotografato - la Fotografia è a tutti gli effetti co-protagonista, si pensi alle sue vedute immortalate dai campi lunghissimi iniziali (un'estensione che schiaccia il piccolissimo protagonista nello sperduto paesaggio rurale) o i toni rarefatti di una fotografia fumosa che descrivono una realtà non ben afferrabile attraverso il punto di vista di un bambino di quattro anni.

L'urgenza di Saroo è confusa, annebbiata; non è in grado di comunicare, non conosce il nome del posto da cui proviene, non ha che un grappolo di nomi e l'amore per i suoi cari a guidarlo mentre si fa strada nella consapevolezza di cosa significhi smarrirsi fra le moltitudini urbane. In generale il film è ben costruito e avvolgente, nella sua prima parte che è anche quella più riuscita, proprio in questo suo essere talmente angosciante da varcare le soglie più oscure della solitudine, di quella solitudine più completa e annichilente che la pellicola sa miracolosamente rendere trasmissibile; non si può spiegare che per mezzo di sensazioni, come quella di trovarsi in mezzo a migliaia di autentici sconosciuti lontanissimo da casa.
L'impeto del film è dunque quello di un ritorno, di una rappacificazione anche interna, di coscienza.

Alla regia di Davis, tutto sommato così diretta, e schematica, va ascritto il merito di riuscire bene a creare quel senso di stupore e di attesa che coincidono con lo sguardo di Saroo, con l'aspettativa incerta del futuro, con la sua ricerca. Lo straniamento e l'indifferenza circostante schiacciano sotto il peso di svariate atmosfere l'irrequietezza di un'anima tormentata - come sottolinea il frequente uso dei particolari. Questa non è solo una storia con un suo preciso inizio e una fine, è anche a suo modo una condizione universale, astorica, un segno presente in qualunque appartenenza ed affetto e come tale trasversale, comunicabile.

L'incredibile storia che ci viene raccontata si carica così di una sinistra poesia di redenzione che lega le musiche iper-drammatiche di O'Halloran ( Marie Antoinette ) alle diapositive del ricordo, e del dolore distante: in tutto questo astrattismo, la sceneggiatura serve comunque anche a ricordarci, come sempre meno accade nel cinema moderno, che nella vera storia di cui si fa traduttrice, la tecnologia (il Demone del XXI secolo, come piace considerarla), riveste anche un ruolo positivo, che può concretamente aiutare le persone là dove trent'anni prima comuni drammi come quello qui narrato erano, e continuano ad essere, all'ordine del giorno.

Il film ne costituisce preziosa memoria, come tutti i piccoli film indipendenti che hanno a cuore il mondo in cui nascono e crescono, e di cui nel loro piccolo spesso riescono anche a parlare.


lunedì 20 febbraio 2017

Hacksaw Ridge

119 - Hacksaw Ridge (febbraio 2017)



Ispirato alla storia di Desmond Doss, primo obiettore di coscienza dell'Esercito americano, questo Biopic di Guerra è diretto da Mel Gibson a dieci anni dal suo ultimo film, dodici dal controverso e saturo di violenza La Passione di Cristo.

Non è cambiato molto, da questo punto di vista: le ampie pennellate di retorica che dovrebbero servire a una morale antimilitarista (ambigua) si annacquano nel sangue che sgorga sugli efferati campi di battaglia raffigurati con un realismo di dettaglio paragonabile a quello dei precedenti lavori, confermando un'estetizzazione della violenza, della stessa essenza umana più primitiva che, più che giustapporsi a livello tematico in un atteggiamento critico, sembra quasi un edonistico sfondo in cui sfoggiare l'ostentazione astratta, e forse pretestuosa, di un'etica.

Di fatto l'esperimento di Mel Gibson è quello di contrapporre (in un concetto anziché in uno stesso uomo) le due personalità Jungiane (come già in Full Metal Jacket, che peraltro è implicitamente citato) esasperando la dicotomia fra ciò che è e ciò che dovrebbe essere; in altri termini, all'impraticità rigorosa della morale Non-Violenta contrappone la necessarietà (che è la definitività del film, e sta qui tutta l'ambiguità del risultato) della guerra che è la radice della violenza stessa: uccidere è sbagliato e tutto quello che vediamo dovrebbe servire ad avvalorare questo punto... ma poi l'ingenuità in cui cade il film è quella di affermarne l'eroismo, l'impurità nel coraggio, di farsi attrarre dalle sue sembianze più affascinanti, idealizzate e insidiose.

Idealmente, il regista divide il suo film in due parti, seguendo l'impostazione classica di tutti i War Movie (Background-Arruolamento e Partenza-Addestramento-Battaglia), con una verbosa prima ora in cui sintetizza il punto etico del protagonista (nel bel mezzo di un abuso di stereotipi di ogni genere: dalla parte familiare-sentimentale stiracchiata alle scopiazzature stilistiche ai danni di Kubrick, Malick, Spielberg - tre autori che hanno contribuito in maniera decisiva al genere e da cui è difficile pensare di staccarsi) per approdare poi a una seconda parte più aderente alle capacità del suo autore.

Quando il film entra nel suo apocalittico secondo atto è infatti la macchina da presa, insieme agli effetti speciali e al montaggio (John Gilbert, l'uomo di Peter Jackson), a prendere il sopravvento; il vivo dell'azione, la raffigurazione dell'arena, il senso del dettaglio per catturare sempre l'attenzione dello spettatore, l'adrenalinica sequenza che sembra un tutt'uno in cui trova sfogo la fuga nella realtà (c'è una citazione che schernisce il Mago di Oz, piuttosto eloquente) permettono al racconto di procedere e alla battaglia storica dell'Hacksaw Ridge di inquadrare meglio l'umanità dei personaggi (anche se solo di coloro che Mel Gibson vuole vedere come tali, ovviamente).

Un film che in conclusione si discosta quel tanto che basta dai più diretti e indiretti paradigmi da giustificare l'intenzione finto-provocatoria ma il film, preso per qualcosa di più dell'ennesimo capitolo spettacoloso su un libro mai davvero chiuso dal Cinema, è di quelli davvero incapaci di lasciare qualcosa di duraturo dopo di sé.


domenica 19 febbraio 2017

Fences

118 - Fences (febbraio 2017)



Dramma teatrale intenso e struggente, il terzo film dietro (e contemporaneamente davanti) la macchina da presa di Denzel Washington è la trasposizione cinematografica di una storia scritta per Teatro e successivamente Cinema dal drammaturgo August Wilson, che per lo spettacolo vinse il premio Pulitzer.
E il coinvolgimento emotivo di Denzel, che lo ha anche co-prodotto e che si è assunto l'onere e l'onore della regia dopo l'insistenza di Wilson a che fosse diretto da un afroamericano, è del tutto evidente.

L'attore, che conta comunque su una formazione teatrale ed aveva già recitato nell'opera originale di Broadway (vincendo un Tony) proprio al fianco di Viola Davis, è il centro vitale di un film, come si dice in questi casi, "di attori", di abilità recitative, pathos, linguaggio del corpo; il magnetismo di Washington è qualcosa di quasi inspiegabile, di primordiale, connettivo - ci sono altre belle interpretazioni nel film (Viola Davis con il suo personaggio secondario sotto ogni aspetto e tuttavia perfettamente dignitoso si conferma probabilmente una delle assolute migliori attrici in circolazione, e da sottolineare anche Mykelti Williamson che rinnova con buona credibilità uno stereotipo come quello del reduce di guerra spezzato dalla tragedia della vita), ma per quanto belle, e sono belle davvero, in qualche modo scompaiono davanti al titanismo della performance del suo protagonista. Ma quel che sorprende di più è anche il buon lavoro in fase di direzione.

La sceneggiatura mastodontica coagula ogni minuto del film e il cast è talmente ben assemblato e preparato da risaltare di per sé su un lavoro così culturalmente significativo e strabordante, ma la chimica d'insieme, l'attenzione reciproca per i tempi recitativi, il supporto corale che permette al suo protagonista assoluto di uscire dalle righe è il risultato di una direzione ottima e attenta, sia nei suoi lunghi periodi di dialoghi fulminanti e corrivi che nei suoi interludi di meritato silenzio.

Quei "Fences" sono gli steccati costruiti, nella narrativa dell'opera, da mani forti, manly (da uomo), e sono anche barriere costruite per tenere lontano ciò che è in grado di ferire una seconda volta; questo tema, delle seconde occasioni, degli errori che condizionano una vita, delle colpe ereditate da padri aggressivi e violenti è in qualche modo il ritratto cinico e generazionale di un'America che si sente responsabile per la propria vulnerabilità.

Dell'America che garantisce a tutti lampi di sogno Americano, che si culla nelle sue convinzioni piccoloborghesi, che sbarca il lunario come può, che fatica e preserva l'importanza della famiglia, delle radici, della concretezza della working class e ovviamente delle ferite annose trascinate dietro di sé come il masso di Sisifo.

È una degenerazione lenta e silenziosa, di anni, decenni, che esplode con la movimentazione culturale e generazionale di un'epoca, e di una storia familiare che atterrisce perché la sua china è inevitabile. "I tempi cambiano" ma non per chi non dimentica, non per chi non è in grado di dimenticare che la sua vita è finita prima di cominciare.
Un certo tipo di America un po' meno giovane che sa anche, finalmente, osare di abbatterle, quelle barriere, ma che, prima di farlo, deve venire a capo del proprio passato.


sabato 18 febbraio 2017

Hell or High Water

117 - Hell or High Water (febbraio 2017)



Dopo essersi ricongiunti, due fratelli iniziano a rapinare banche di provincia commettendo piccoli furti, per riappropriarsi del ranch di famiglia.
Un Ranger prossimo al pensionamento si mette sulle loro tracce.

L'elettrizzante ambientazione di Hell or High Water è di quelle da far passare inosservata perfino la pur evidentissima e stilosa apertura, con quel long-take e la conseguente panoramica che preannuncia già il tema principale del film.
L'arido e brullo scenario del Texas semidesertico è molto più di un incommensurabile, suggestivo fondale, racchiude idealmente il senso narrativo dell'America della frontiera (come già il Western, di cui questo film è effettivamente un omaggio, o un prosecutore moderno) e dell'America degli Indiani e i Cowboys, come più volte suggerito fra le pieghe della trama.

I tropi classici sono trasformati in funzione dell'evoluzione del tempo e della legge, ma anche della prospettiva: dove prima Indiani assaltavano carovane ora gli "Indiani" cioè nella metafora stringente del film i poveri, gli sconfitti, gli ultimi della società assaltano le banche del Dio capitalista dei pronipoti dei Cowboys, dei Coloni, lo stesso che ha confinato i veri Indiani nelle riserve e negli stereotipici Casino.

Con questa impalcatura che richiama in piccola parte, anche attraverso i toni seppia della fotografia e gli stilemi narrativi il No Country for old men dei fratelli Coen, la storia procede poi sui binari di un Thriller abbastanza classico, ma è un Thriller con una sua morale di fondo, personaggi ben definiti (e ottimamente interpretati), scambi di battute sempre motivati dalla situazione capaci anche di essere penetranti o caustici con poche parole, in cui persino le ricalcature (il Ranger biascicante e caricaturalmente razzista interpretato dal grande Jeff Bridges, piuttosto che l'ex-galeotto che ne sfida l'autorità, ecc.) assumono una loro parte nel gioco adrenalinico dell'azione che è la principale preoccupazione del film.

È in effetti divertente da guardare, le sue immagini non stancano e il montaggio sembra quasi ripudiare il senso iperdinamico dell'Action moderno, rimanendo sempre fedele a una sua idea intima di racconto, di sviluppo verosimile che trova riferimento nella buona capacità di mescolare il cinetismo irrequieto che sottolinea i momenti clou con il senso dell'attesa, dell'approfondimento, della coloratura della storia.

Diventa allora qualcosa di più di un piccolo divertissement, diventa una faccenda personale (e come tale, fatalmente irrisolta) con cui si è chiamati a interagire e a rispondere del fatto che pur essendo un film essenzialmente senza novità, coinvolge e sorprende fino in fondo, come il vero cinema d'intrattenimento non fa più da un pezzo.



venerdì 17 febbraio 2017

Hidden Figures

116 - Hidden Figures (febbraio 2017)



Un tempo lo Spazio interessava quand'era ripreso nel vivo delle sue missioni, qui invece, forse per la prima volta, ci viene mostrato quello che c'è dietro; quasi annullati i riferimenti visivi spettacolari o le odissee di cosmonauti coraggiosi, quelli che vediamo sfilare dietro le quinte sono solo uomini, ma soprattutto donne, con la testa immersa in numeri e calcoli in cui le riprese mozzafiato hanno lasciato il posto a simil-documentaristici filmati di repertorio: il contesto è noto, piena guerra fredda, la corsa allo spazio mette di fronte USA e Unione Sovietica. Ciascuna fa ricorso a tutte le risorse, in primis intellettive, a sua disposizione.
A stagliarsi sullo sfondo, ovviamente già prevedibile in tutti i suoi cliché, arrangiamenti stilistici, codici narrativi, c'è la storia insolita quanto veritiera di tre donne afroamericane che cambiarono il destino delle spedizioni lunari culminate con lo sbarco del 1969.

Naturalmente è un film molto Americano, non solo perché rientra nei suoi canoni tradizionali di cinema, non solo perché è un fatto di cronaca che riguarda particolarmente la sua storia, ma perché in una terza, ma delle tre più significativa, veste è anche la metafora progressista del nostro tempo: l'America di oggi come allora deve essere la numero uno (come da atavico stampo grandeur) di un mondo competitivo ma può farlo solo se resta unito, accettando dentro di sé la propria diversità e il contributo di tutti, specialmente delle minoranze etniche e dell'"ei fu" gentil sesso.

Un richiamo all'attualità e al tema della parificazione assieme alla denuncia storica mai troppo stantia di un tema ormai noto, ma in un contesto in cui si battono tutte le più prevedibili strade della discriminazione (siamo nei centri di analisi della Nasa, nello stato ancora segregazionista della Virginia, profondo sud) il moto d'orgoglio più evidente all'interno del film non è tanto di matrice razziale quanto femminista.

Tutto il film è giocato in maniera davvero leggera, spiritosa, su questa serie spropositata di riferimenti culturali disseminati in una sceneggiatura scontata fino alla fine, i cui personaggi sono perennemente illuminati da un'aura idealistica (perfino l'assurda inverosimiglianza paternalistico-eroica del personaggio di Kevin Costner allora pare per assurdo credibile) o sentimentalistica e gli ostacoli sono abbattuti da uno spirito e un'ossessione tipicamente Americani, nel senso artificioso del termine.

Il tocco del film è tanto più efficace quanto più si avvicina al ritratto quotidiano, banale, dell'ovvio; allora sì che possiamo credere che in fondo le tre donne in questione siano state davvero questo: donne, esseri umani, con esigenze calpestate, intelligenze snobbate; ma sono solo periodi che inframezzano un tono fastidiosamente perentorio e cattedratico di un film che vuole arrivare a definire un punto d'onore e il pur importante senso biografico si perde inevitabilmente dove comincia la stucchevole conclusione moralistica di tutte le storie del paese a stelle e strisce: è sufficiente cambiare gli addendi e il risultato non cambia.

A Hidden Figures, cui non fa difetto una certa antioriginalità anche tecnica (come ogni buon film sulla Nasa, non mancano le riprese più gettonate, dalle lente e drammatiche carrellate orizzontali ai piani ravvicinati degli ingegneri della missione, fino alle didascalie conclusive), si può solo rimproverare il "sé" più grave, più rigoroso che sta nel pensare alla propria mentalità come la zuccherosa panacea di ogni male sociale e soprattutto come a qualcosa ancora di attualità ideologica nella più grande categoria dei generi di intrattenimento.

Se il film non affonda sulla sua stessa obsolescenza lo deve in particolare alla bravura del cast nel sostenerne i toni - Taraji P. Henson (buona l'evoluzione del suo ruolo) e in minor parte Octavia Spencer - che dimostra come un personaggio possa anche essere umano, perfino quando è un genio (come l'Alan Turing di The Imitation Game, o lo S. Hawking di The Theory of Everything, solo per citare due film recenti prodotti per assecondare scopertamente la stessa idea Hollywoodiana, noiosa e superata) se solo ci si ricordasse che il Cinema dovrebbe renderlo tale.


giovedì 16 febbraio 2017

Loving

115 - Loving (febbraio 2017)



Una coppia interrazziale della Virginia viene condannata a lasciare lo stato dopo il matrimonio, proibito dalle leggi segregazioniste in vigore.
Il film racconta la loro esperienza nei nove anni in cui tentarono di tornare a casa combattendo contro quelle stesse leggi e la loro ingiustizia.

Il film di Nichols è centrato nella sua urgenza storico-sociale, si rende conto dell'importanza della cronaca mentre allo stesso tempo vorrebbe soltanto poter penetrare nelle menti e nei cuori dei suoi due protagonisti; ma vuole evitare a tutti i costi la melassa, la saturazione retorica, le spinte melodrammatiche che sono inevitabilmente dietro l'angolo. Propende quindi per un racconto scarno, ridotto all'essenzialità di ciò che è autoevidente, su cui non serve calcare la mano: la sua regia è ferma e invisibile, la sua illuminazione precisa e allusiva nelle placide istantanee del naturalismo della fotografia; gli sguardi persi nel vuoto e la spontaneità espressiva dei suoi attori, specialmente nel ritratto della bontà pura e ingenua di Ruth Negga, lo aiutano in questo, nel rendere con grazia il passaggio che consacra quel lungo incedere.

Nichols trova qui elementi di continuità con il suo Cinema (anche in Take Shelter l'idea di un riparo, di una casa, era al centro di una storia di Pater Familias e di marginalità sociale) e come al solito insinua attraverso il montaggio o la recitazione anziché scavare nell'indignazione noiosa della storia, come se questa dovesse prorompere lentamente nei simbiotici ritmi compassati del film da un circuito psicologico inesorabile.

La precisione non serve a uno scopo più passionale (come in Todd Haynes, ad esempio) ma a confinare entro limiti più certi un furore contenuto, dignitoso, e tuttavia tenace. La dilatazione del tempo che lo pervade, attraverso i silenzi esasperati e le giustapposizioni di montaggio che spezzano la narrazione, diventa dunque essa stessa il racconto di un film orchestrato intorno ad un un tempus fugit logorante che si colora in parti uguali del dramma sociale a sfondo storico e del civil right movie, ancora così rilevante in senso Hollywoodiano specie nell'atto conclusivo della vicenda (tanto da attirare con una certa confezionatura di maniera qualche considerazione agli imminenti Oscar).

La piattezza della sceneggiatura di per sé non rappresenta per Nichols un appiglio particolarmente facile da cui trarre qualcosa di completamente personale come è il suo cinema, e per essere un film che appartiene per elezione ad un genere tra i più narrativi e didascalici, questo lo limita un po' nel risultato finale; tuttavia il regista, con il suo stile asciutto, nella sua direzione sottrattiva degli attori che ha a disposizione, nella sensibilità di racconto mette del proprio in un lavoro che risuona di un'atmosfera umana, piena di calore, e che sa anche essere provocatorio (come nel cross-cutting che racchiude con la sua struttura la tappa obbligata del finale); le parole non sono mai soddisfacenti quanto le suggestioni evocate dall'intimità delle immagini e quasi mai servono alla pace dei sensi.

I lavori di Nichols sono irrimediabilmente accomunati da un fascio di domande che continueranno a risuonare nella vostra mente anche finito il film, sia che attingano ad un immaginario onirico e fantastico sia che richiamino l'attribuzione di un senso di giustizia: i suoi due protagonisti sono due persone a cui, nella loro età migliore, è stato negato di essere se stessi e di esserlo nella propria casa; condannati a fuggire dalla propria identità, di coppia e di persone, a inseguire un senso d'appartenenza.
Il film con la sua struttura cristallizzante, sembra congelare e anestetizzare persino l'Amore (il Loving che ironicamente coincide con il cognome dei due coniugi), come se fosse momentaneamente inaccessibile, impraticabile.

Nonostante i trascorsi (che quasi passano in secondo piano, nell'economia del film) i Loving erano solo due persone semplici che volevano qualcosa di semplice, e a cui non interessava passare per attivisti, pionieri; nessuno dei loro atti ha una desinenza politica, o polemica. La loro tragedia personale quindi è solo umana, il film che la racconta sceglie questa unica via per provare a cominciare a capire.
È in fondo tutto quello che è concesso fare.




mercoledì 8 febbraio 2017

Wiener-Dog

114 - Wiener-Dog (febbraio 2017)



Grande dissacratore della società Americana, pioniere del genere indipendente, autore coerente, Solondz torna con Wiener-Dog, un film "ad episodi" che più comico di quanto suggerisca su due piedi la scelta stessa del suo titolo non può sperare di diventare (nonostante di certo ci provi): il Cane-Wurstel, letteralmente, è il cane dall'aspetto ridicolo ed incerto che assurge ad animale di compagnia di quattro personaggi vulnerabili tutti alle prese con un senso di solitudine e di smarrimento, avvinghiati dalle spire della mediocrità intellettuale che li circonda; diventa quindi l'unico riconoscibile leitmotif di un altrimenti apparentemente vago schema con cui il regista prosegue il suo discorso.

Discorso, alimentato dalla consueta dialettica sensibile e feroce, iniziato più di vent'anni fa contro il politically correct, contro le infide ipocrisie piccolo-borghesi, l'implicita corruzione della loro scala di valori.
In Wiener-Dog lo sguardo è ancora più spaesato e per questo ancora più incattivito quando ne mette a fuoco la gravità; ovviamente Solondz non sceglie la strada del muso-contro-muso (sarebbe il primo ad uscirne distrutto), ma invece dilaga in una pastosa comicità parossistica che non tiene conto di nessuna regola preconcetta, né estetica (il "buon gusto" su cui ama calpestare o come in questo caso... defecare) né morale.

Il teatrino dell'umanità è qui per Solondz nella sua più forte evidenza di disfacimento: favolette "morali" con cui si nega caparbiamente la compassione, il consumismo, l'abbandono cinico alle pulsioni egoistiche, l'individualismo sfrenato, la perdita più totale di riferimenti; ad essi, e all'analisi generale, il regista lega una sorte sempre avversa e sempre peggiore del suo "tema trainante", un po' come il gatto legava le storie dell'orrore nei vecchi gialli all'italiana, il suo cane lega gli orrori sottili di un popolo che non ha più riguardi per nulla: lui li sfida a dare del loro peggio.
Nell'episodio di DeVito in particolare Solondz si prende anche il tempo e il distacco satirico per autoriflettere sulla vacuità del suo ambiente, di cui spezza le regole linguistiche (attraverso il montaggio) e, come Cronenberg di recente, ne smaschera un generazionale distacco dal "buon senso": ma è proprio questo che lui vuole stanare, portando l'estremizzazione sotto i riflettori di un'umanità svanita nella più disarmante e nichilistica perdita di valori e, ancor peggio, di quello che un tempo forse era un naturale senso di assistenza, di compassione, di interesse per le cose e di un impegno che non dava per scontato il fine di cui era strumento.

Oltre che con l'evidenza stravagante del racconto, Solondz ne parla anche con i toni brillanti (e quindi falsi, o sfalsati) e tematici della fotografia e la violazione cosciente di una serie di implicite norme del nominato "buon gusto" estetico del film, come il trash o l'uso del contrappunto sonoro e del ralenti con finalità provocatorie: proprio perché non si riconosce nell'idea patinata che l'immaginario di cui sta criticando la forma ha contribuito a divulgare, il regista lo mette nel mirino tout court, lo ri-immagina, e lo supera.

Alla fine, il povero "Wiener-Dog" che ha fatto una pessima fine in ciascun segmento, ciascuno dei quali sottintende la sua intrasmissibilità, è diventato semplice carne da esibizione, reperto da museo. Il "migliore amico dell'uomo" si è transustanziato in una forma inutile (e sorda all'interesse umano): il segno pedestre di una civiltà che ha abbandonato ogni nobile istinto e ne ha fatto la propria consapevole vetrina, troppo ottusa per esserne perfino orgogliosa. L'arte moderna.

Il ritratto è, come spesso in Solondz, di quelli quasi senza speranza, e per questo un po' troppo spesso non utile ad un'indagine ad un livello superiore, che non si limitasse a prendere nota (con distacco superiore) di una realtà apocrifa, ma quando Solondz decide di staccare il pilota automatico e si ferma a riflettere sul significato più profondo e umano di quello che sta osservando, la sua etica produce i risultati migliori, rendendo i suoi film sempre interessanti, sempre passibili di un'empatia ormai rara da trovare.

Astenersi animalisti.


lunedì 6 febbraio 2017

Toni Erdmann

113 - Toni Erdmann (febbraio 2017)



È il tentativo di riconciliazione fra un padre e una figlia che sono, alla fine di una separazione naturale (lei è ora una dirigente di una società di consulenza, lui un istrionico ex insegnante di musica) diventati opposti ed estranei l'uno all'altra a tenere il punto di una commedia che ha i toni graffianti e surreali della farsa, e rispetto alla cui natura un po' tutta la frizione circostante (dallo sguardo sulla global economy alla contrapposizione fra materialismo e innocenza) non fa che reiterare l'urgenza del quesito. Quello che vediamo è verosimile o no?

Maren Ade, la sua regista, scruta per quasi tre ore dentro alla viscosità di questo rapporto multiforme, tipicamente tedesco, che è quasi insondabile per natura, che ha bisogno di essere più cose contemporaneamente. Sequenze che possono dare l'impressione aspra di un input drammatico sono al contempo speronate da una recitazione o da trovate improvvise che hanno l'effetto di una catarsi. Qui trovano apertura il travestitismo, l'eclettismo, il gioco puerile, la persecuzione simil-spiritistica e i feticismi degli oggetti di scena (i denti di Winfried che quasi rimandano alla tragicomicità del Conrad Veidt di "L'uomo che ride") di due persone che dentro e fuori dal film, sono due attori. Che si vestono di strati per rendersi irriconoscibili. E che come in un duello in palcoscenico, si sfidano e si compenetrano.

Perché il film resta per lunghi tratti uno studio su se stesso, sui suoi risultati di dubbio gusto semantico, sulle profondità emotive da cui si è attratti ma di cui non si può affrontare la realtà, e del bagliore di un ricordo (l'infanzia, un legame ricercato in una memoria condivisa come una canzone pop) che viaggia sottopelle nell'involucro di un tempio dedicato alla serietà, monotona ed esasperata, del ritratto moderno.

Così è lo spoglio da questa armatura (il "mettersi a nudo" fisico e figurato, che deve passare dalla sottrazione di qualsiasi artificio precedentemente imposto secondo entrambi i binari) mediato dal grottesco della sciarada a riappropriare due persone di quello stesso ricordo, a permettere loro (forse) di imparare a conoscersi di nuovo.

Per quanto abbozzato, per quanto nemmeno completamente cercato, il significato centrale del film della Ade resta comunque un segno lineare in un'opera che sfiora a tratti un'astrazione di parvenza eccessiva; eppure lo stesso "nonsense", il gioco di sguardi dei due protagonisti, il calvario e il disagio emotivo rafforzano di minuto in minuto la sensazione di conoscerli, e che attraverso noi, anche loro diventino sempre più indispensabili l'uno all'altra. Che capiscano che la loro strada solitaria, la loro strada senza l'altro, è essa stessa un non significato.

La genialità del film sta in questa sua irresistibile sfuggevolezza bohemienne, in cui il discorso è tanto rarefatto nel sottinteso quanto sempre pronto ad esplodere fatalmente nell'eruzione del kitsch ma che non gli impedisce comunque di segnare il suo punto: ma solo lo sguardo personale dello spettatore a volte può essere tanto scrupoloso da ricollegare i fili delle due esperienze e sostenere alla base un lavoro narrativamente ben giocato, mai noioso, e completamente originale come questo.