sabato 25 febbraio 2017

Moonlight

123 - Moonlight (febbraio 2017)



È la storia di formazione di un ragazzo afroamericano, che definisce la sua maturità e il suo "divenire"' come essere umano, attraverso un'infanzia e un'adolescenza travagliate.

Il film analizza il processo attraverso tre momenti fondamentali che restituiscono il senso ben preciso di una storia: l'inizio, la transizione, la fine.
Non c'è molto ottimismo, anzi c'è una connotazione fortemente amara nel film di Barry Jenkins, che prima di approdare agli onori della cronaca per la sua inclusione nei salotti dell'Academy si era fatto una reputazione importante nel circuito indipendente, a cui appartiene per elezione tematica e stilistica. Il senso è quello profondamente intimistico e universale di una storia di emarginazione, di solitudine e di alienazione (come il blu intenso della composizione non fa che ricordarci) nonostante poi le contaminazioni e le diramazioni etiche non possano prescindere da un certo humus culturale: il ghetto, il traffico di droga, l'essere minoranza all'interno di un'altra minoranza, la fortuna o la sfortuna di avere o meno riferimenti che segnano il percorso evolutivo.

Il film dipinge un suo personale, suggestivo, ritratto di come un'anima così vulnerabile e sensibile nei confronti del mondo esterno possa trovare se stessa solo rinunciando a una parte di essa, e in questo è straziante, di un'infelicità sussurrata, distratta. Le immagini che ci mostrano questo stato d'animo provato e mutevole sembrano tele, dipinte e sospese nelle atmosfere crepuscolari che fanno da sfondo e contemporaneamente da guscio protettivo a questa prospettiva particolare, nella sua eterna connessione con il mondo, la sua bellezza, con gli altri, raggiunta o soltanto cercata.

Ed è infine questo il significato ultimo, quello di una ricerca, ascetica tanto è silenziosa e meditativa, tanto fissa lo sguardo sul punto oltre l'orizzonte; come se stesse guardando a un futuro fatale che conosce già.

Tutto questo il meraviglioso film di Jenkins lo scrive a chiare lettere con le immagini, gli sguardi ed i gesti, cucendolo in una regia, una fotografia, un montaggio e una recitazione che contribuiscono in parti uguali ad una storia che non ha quasi niente nel suo contenuto di troppo speciale - o di pretenzioso - ma lo filtra attraverso la nitida, fragile, unica lente di un'esistenza minacciata e disordinata, in qualche modo incompatibile con tutto quello che le ruota attorno, su cui i giudizi si sospendono.

In questo la regia versatile e armoniosa di Jenkins, così efficace sia a catturare la verità più interiore del suo protagonista avendo a che fare con tre diversi attori sia a non negarne le radici culturali (ambiente e libero arbitrio sono tiepidamente indagate), è magistrale nel tenere sotto controllo questo potenziale emotivamente trattenuto, impossibile da sviluppare a pieno, vacuo nella punteggiatura, reticente nei raccordi; c'è una sensazione ben determinata che rimane quando il film si chiude che è incancellabile dalla memoria, ed è che ogni punto di vista è espressione di una corresponsabilità, di un unicum a cui lo costringiamo, tutti insieme, non è possibile pensare di prescindere da questa realtà o dalla sua osservazione.

Un film che in un qualche modo, antidogmatico e tutto suo, si appropria di una dimensione spirituale, di una connessione fondamentale mediata da una regia attenta e scrupolosa; una visione che immortala davanti ai suoi occhi una strana danza di corpi sotto un chiaro di luna, di quelli che colorano la pelle di blu, un blu che ti si attacca addosso e che in qualche modo neanche noi vogliamo più scacciare via completamente.


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