lunedì 20 febbraio 2017

Hacksaw Ridge

119 - Hacksaw Ridge (febbraio 2017)



Ispirato alla storia di Desmond Doss, primo obiettore di coscienza dell'Esercito americano, questo Biopic di Guerra è diretto da Mel Gibson a dieci anni dal suo ultimo film, dodici dal controverso e saturo di violenza La Passione di Cristo.

Non è cambiato molto, da questo punto di vista: le ampie pennellate di retorica che dovrebbero servire a una morale antimilitarista (ambigua) si annacquano nel sangue che sgorga sugli efferati campi di battaglia raffigurati con un realismo di dettaglio paragonabile a quello dei precedenti lavori, confermando un'estetizzazione della violenza, della stessa essenza umana più primitiva che, più che giustapporsi a livello tematico in un atteggiamento critico, sembra quasi un edonistico sfondo in cui sfoggiare l'ostentazione astratta, e forse pretestuosa, di un'etica.

Di fatto l'esperimento di Mel Gibson è quello di contrapporre (in un concetto anziché in uno stesso uomo) le due personalità Jungiane (come già in Full Metal Jacket, che peraltro è implicitamente citato) esasperando la dicotomia fra ciò che è e ciò che dovrebbe essere; in altri termini, all'impraticità rigorosa della morale Non-Violenta contrappone la necessarietà (che è la definitività del film, e sta qui tutta l'ambiguità del risultato) della guerra che è la radice della violenza stessa: uccidere è sbagliato e tutto quello che vediamo dovrebbe servire ad avvalorare questo punto... ma poi l'ingenuità in cui cade il film è quella di affermarne l'eroismo, l'impurità nel coraggio, di farsi attrarre dalle sue sembianze più affascinanti, idealizzate e insidiose.

Idealmente, il regista divide il suo film in due parti, seguendo l'impostazione classica di tutti i War Movie (Background-Arruolamento e Partenza-Addestramento-Battaglia), con una verbosa prima ora in cui sintetizza il punto etico del protagonista (nel bel mezzo di un abuso di stereotipi di ogni genere: dalla parte familiare-sentimentale stiracchiata alle scopiazzature stilistiche ai danni di Kubrick, Malick, Spielberg - tre autori che hanno contribuito in maniera decisiva al genere e da cui è difficile pensare di staccarsi) per approdare poi a una seconda parte più aderente alle capacità del suo autore.

Quando il film entra nel suo apocalittico secondo atto è infatti la macchina da presa, insieme agli effetti speciali e al montaggio (John Gilbert, l'uomo di Peter Jackson), a prendere il sopravvento; il vivo dell'azione, la raffigurazione dell'arena, il senso del dettaglio per catturare sempre l'attenzione dello spettatore, l'adrenalinica sequenza che sembra un tutt'uno in cui trova sfogo la fuga nella realtà (c'è una citazione che schernisce il Mago di Oz, piuttosto eloquente) permettono al racconto di procedere e alla battaglia storica dell'Hacksaw Ridge di inquadrare meglio l'umanità dei personaggi (anche se solo di coloro che Mel Gibson vuole vedere come tali, ovviamente).

Un film che in conclusione si discosta quel tanto che basta dai più diretti e indiretti paradigmi da giustificare l'intenzione finto-provocatoria ma il film, preso per qualcosa di più dell'ennesimo capitolo spettacoloso su un libro mai davvero chiuso dal Cinema, è di quelli davvero incapaci di lasciare qualcosa di duraturo dopo di sé.


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