domenica 19 febbraio 2017

Fences

118 - Fences (febbraio 2017)



Dramma teatrale intenso e struggente, il terzo film dietro (e contemporaneamente davanti) la macchina da presa di Denzel Washington è la trasposizione cinematografica di una storia scritta per Teatro e successivamente Cinema dal drammaturgo August Wilson, che per lo spettacolo vinse il premio Pulitzer.
E il coinvolgimento emotivo di Denzel, che lo ha anche co-prodotto e che si è assunto l'onere e l'onore della regia dopo l'insistenza di Wilson a che fosse diretto da un afroamericano, è del tutto evidente.

L'attore, che conta comunque su una formazione teatrale ed aveva già recitato nell'opera originale di Broadway (vincendo un Tony) proprio al fianco di Viola Davis, è il centro vitale di un film, come si dice in questi casi, "di attori", di abilità recitative, pathos, linguaggio del corpo; il magnetismo di Washington è qualcosa di quasi inspiegabile, di primordiale, connettivo - ci sono altre belle interpretazioni nel film (Viola Davis con il suo personaggio secondario sotto ogni aspetto e tuttavia perfettamente dignitoso si conferma probabilmente una delle assolute migliori attrici in circolazione, e da sottolineare anche Mykelti Williamson che rinnova con buona credibilità uno stereotipo come quello del reduce di guerra spezzato dalla tragedia della vita), ma per quanto belle, e sono belle davvero, in qualche modo scompaiono davanti al titanismo della performance del suo protagonista. Ma quel che sorprende di più è anche il buon lavoro in fase di direzione.

La sceneggiatura mastodontica coagula ogni minuto del film e il cast è talmente ben assemblato e preparato da risaltare di per sé su un lavoro così culturalmente significativo e strabordante, ma la chimica d'insieme, l'attenzione reciproca per i tempi recitativi, il supporto corale che permette al suo protagonista assoluto di uscire dalle righe è il risultato di una direzione ottima e attenta, sia nei suoi lunghi periodi di dialoghi fulminanti e corrivi che nei suoi interludi di meritato silenzio.

Quei "Fences" sono gli steccati costruiti, nella narrativa dell'opera, da mani forti, manly (da uomo), e sono anche barriere costruite per tenere lontano ciò che è in grado di ferire una seconda volta; questo tema, delle seconde occasioni, degli errori che condizionano una vita, delle colpe ereditate da padri aggressivi e violenti è in qualche modo il ritratto cinico e generazionale di un'America che si sente responsabile per la propria vulnerabilità.

Dell'America che garantisce a tutti lampi di sogno Americano, che si culla nelle sue convinzioni piccoloborghesi, che sbarca il lunario come può, che fatica e preserva l'importanza della famiglia, delle radici, della concretezza della working class e ovviamente delle ferite annose trascinate dietro di sé come il masso di Sisifo.

È una degenerazione lenta e silenziosa, di anni, decenni, che esplode con la movimentazione culturale e generazionale di un'epoca, e di una storia familiare che atterrisce perché la sua china è inevitabile. "I tempi cambiano" ma non per chi non dimentica, non per chi non è in grado di dimenticare che la sua vita è finita prima di cominciare.
Un certo tipo di America un po' meno giovane che sa anche, finalmente, osare di abbatterle, quelle barriere, ma che, prima di farlo, deve venire a capo del proprio passato.


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