lunedì 6 febbraio 2017

Toni Erdmann

113 - Toni Erdmann (febbraio 2017)



È il tentativo di riconciliazione fra un padre e una figlia che sono, alla fine di una separazione naturale (lei è ora una dirigente di una società di consulenza, lui un istrionico ex insegnante di musica) diventati opposti ed estranei l'uno all'altra a tenere il punto di una commedia che ha i toni graffianti e surreali della farsa, e rispetto alla cui natura un po' tutta la frizione circostante (dallo sguardo sulla global economy alla contrapposizione fra materialismo e innocenza) non fa che reiterare l'urgenza del quesito. Quello che vediamo è verosimile o no?

Maren Ade, la sua regista, scruta per quasi tre ore dentro alla viscosità di questo rapporto multiforme, tipicamente tedesco, che è quasi insondabile per natura, che ha bisogno di essere più cose contemporaneamente. Sequenze che possono dare l'impressione aspra di un input drammatico sono al contempo speronate da una recitazione o da trovate improvvise che hanno l'effetto di una catarsi. Qui trovano apertura il travestitismo, l'eclettismo, il gioco puerile, la persecuzione simil-spiritistica e i feticismi degli oggetti di scena (i denti di Winfried che quasi rimandano alla tragicomicità del Conrad Veidt di "L'uomo che ride") di due persone che dentro e fuori dal film, sono due attori. Che si vestono di strati per rendersi irriconoscibili. E che come in un duello in palcoscenico, si sfidano e si compenetrano.

Perché il film resta per lunghi tratti uno studio su se stesso, sui suoi risultati di dubbio gusto semantico, sulle profondità emotive da cui si è attratti ma di cui non si può affrontare la realtà, e del bagliore di un ricordo (l'infanzia, un legame ricercato in una memoria condivisa come una canzone pop) che viaggia sottopelle nell'involucro di un tempio dedicato alla serietà, monotona ed esasperata, del ritratto moderno.

Così è lo spoglio da questa armatura (il "mettersi a nudo" fisico e figurato, che deve passare dalla sottrazione di qualsiasi artificio precedentemente imposto secondo entrambi i binari) mediato dal grottesco della sciarada a riappropriare due persone di quello stesso ricordo, a permettere loro (forse) di imparare a conoscersi di nuovo.

Per quanto abbozzato, per quanto nemmeno completamente cercato, il significato centrale del film della Ade resta comunque un segno lineare in un'opera che sfiora a tratti un'astrazione di parvenza eccessiva; eppure lo stesso "nonsense", il gioco di sguardi dei due protagonisti, il calvario e il disagio emotivo rafforzano di minuto in minuto la sensazione di conoscerli, e che attraverso noi, anche loro diventino sempre più indispensabili l'uno all'altra. Che capiscano che la loro strada solitaria, la loro strada senza l'altro, è essa stessa un non significato.

La genialità del film sta in questa sua irresistibile sfuggevolezza bohemienne, in cui il discorso è tanto rarefatto nel sottinteso quanto sempre pronto ad esplodere fatalmente nell'eruzione del kitsch ma che non gli impedisce comunque di segnare il suo punto: ma solo lo sguardo personale dello spettatore a volte può essere tanto scrupoloso da ricollegare i fili delle due esperienze e sostenere alla base un lavoro narrativamente ben giocato, mai noioso, e completamente originale come questo.



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