martedì 21 febbraio 2017

Lion

120 - Lion (febbraio 2017)



Saroo, un bambino di un villaggio Indiano si perde alla stazione dei treni mentre aspetta il fratello più grande, e senza sapere come finisce a Calcutta: disperso insieme ad altri ragazzini come lui, fra le falangi di un sistema criminale sommerso che ha mercificato quelli come lui in una vera e propria tratta, troverà alla fine una famiglia adottiva in Australia, dove cercherà di ritrovare le sue radici.

Quello dipinto dal film, la cui sceneggiatura è tratta dalle memorie del vero Saroo Brierley, è quindi un dramma sociale oltre che privato e umano, che occupa un lasso di circa vent'anni, e lo fa attraverso la narrazione di un viaggio che ha quasi le sembianze di una missione santa, una qualche sorta di ricongiungimento spirituale.

Questo è l'impatto, l'impressione immediata che lascia un film talmente semplice e modesto da apparire dimesso; un film, nella sua spontaneità, davvero ben diretto e fotografato - la Fotografia è a tutti gli effetti co-protagonista, si pensi alle sue vedute immortalate dai campi lunghissimi iniziali (un'estensione che schiaccia il piccolissimo protagonista nello sperduto paesaggio rurale) o i toni rarefatti di una fotografia fumosa che descrivono una realtà non ben afferrabile attraverso il punto di vista di un bambino di quattro anni.

L'urgenza di Saroo è confusa, annebbiata; non è in grado di comunicare, non conosce il nome del posto da cui proviene, non ha che un grappolo di nomi e l'amore per i suoi cari a guidarlo mentre si fa strada nella consapevolezza di cosa significhi smarrirsi fra le moltitudini urbane. In generale il film è ben costruito e avvolgente, nella sua prima parte che è anche quella più riuscita, proprio in questo suo essere talmente angosciante da varcare le soglie più oscure della solitudine, di quella solitudine più completa e annichilente che la pellicola sa miracolosamente rendere trasmissibile; non si può spiegare che per mezzo di sensazioni, come quella di trovarsi in mezzo a migliaia di autentici sconosciuti lontanissimo da casa.
L'impeto del film è dunque quello di un ritorno, di una rappacificazione anche interna, di coscienza.

Alla regia di Davis, tutto sommato così diretta, e schematica, va ascritto il merito di riuscire bene a creare quel senso di stupore e di attesa che coincidono con lo sguardo di Saroo, con l'aspettativa incerta del futuro, con la sua ricerca. Lo straniamento e l'indifferenza circostante schiacciano sotto il peso di svariate atmosfere l'irrequietezza di un'anima tormentata - come sottolinea il frequente uso dei particolari. Questa non è solo una storia con un suo preciso inizio e una fine, è anche a suo modo una condizione universale, astorica, un segno presente in qualunque appartenenza ed affetto e come tale trasversale, comunicabile.

L'incredibile storia che ci viene raccontata si carica così di una sinistra poesia di redenzione che lega le musiche iper-drammatiche di O'Halloran ( Marie Antoinette ) alle diapositive del ricordo, e del dolore distante: in tutto questo astrattismo, la sceneggiatura serve comunque anche a ricordarci, come sempre meno accade nel cinema moderno, che nella vera storia di cui si fa traduttrice, la tecnologia (il Demone del XXI secolo, come piace considerarla), riveste anche un ruolo positivo, che può concretamente aiutare le persone là dove trent'anni prima comuni drammi come quello qui narrato erano, e continuano ad essere, all'ordine del giorno.

Il film ne costituisce preziosa memoria, come tutti i piccoli film indipendenti che hanno a cuore il mondo in cui nascono e crescono, e di cui nel loro piccolo spesso riescono anche a parlare.


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