lunedì 10 febbraio 2020

1917

152 - 1917 (febbraio 2020)





Prima guerra mondiale, l’esercito britannico sta per lanciare un’offensiva sul fronte occidentale approfittando dell’apparente ritirata della linea difensiva tedesca. Quello che il battaglione agli ordini del Colonnello Mackenzie non sa è che si tratta di una ritirata strategica e che l’attacco va annullato per evitare una strage: i soldati Schofield e Blake ricevono la missione di portare il messaggio a destinazione attraversando le linee nemiche e le campagne francesi.

Ispirato dai racconti di guerra vissuti in prima persona dal nonno, Alfred, Sam Mendes scrive (in collaborazione con Krysty Wilson-Cairns) e dirige un film tanto epico quanto intimo, tanto spettacolare nella forma quanto semplice e diretto nei contenuti.

L’idea di una regia così soggettiva, parziale, continuamente rifuggente lo stacco di montaggio (che è solo un artificio, poiché il film è in realtà montato per sembrare un intero piano-sequenza) quasi da moderno modello videoludico rende necessariamente coinvolgente la disperata missione dei due soldati, catturata in medias res nella sua paralizzante difficoltà, prolungata dall’abisso di un’incertezza vinta con il coraggio di chi sa di non potersi fermare e dunque così, sempre dinamica ed essenziale. Attraverso i movimenti di macchina in steadicam caratterizzati da insistiti pedinamenti interrotti solo qua e là da panoramiche esplorative, Mendes individua il suo nucleo narrativo nei suoi due personaggi principali, mantenendo sempre quell’instabilità di fondo (“ce la faranno?” “Arriveranno in tempo?” “Chi dei due è il vero protagonista?”) che è caratteristica primigenia della guerra.

Se la regia è definibile come la necessità di fingere per dire la verità, l’opera di Mendes vi adempie perfettamente, anche tralasciando la relativa libertà con cui spesso il genere di guerra permette di interagire, il suo lavoro è enorme, imprevedibile quanto annichilente, tanto studiato e calcolato quanto onesto nel suo messaggio.

Mendes è in qualche modo riuscito nell’impresa di realizzare un film antimilitarista, un film che parla di piccoli e involontari eroi, quelli dimenticati dalle cronache e mai menzionati nei libri di storia e di cui veniamo a conoscenza solo tramite racconti ormai vecchi di un secolo, che è allo stesso tempo in armonia con le sue immagini, che guarda atterrito ciò che lo circonda ma non può fare a meno di fissarlo estasiato, che nelle scene campestri catturate dal suo occhio onnipresente e vigile, fin dove si perde, si fonde in contemplazione di una natura placida e immota, atavicamente bella anche se oltraggiata e completamente indifferente alle sorti degli uomini che la calpestano.

C’è qualcosa di poetico nell’unisono in cui il silenzio rompe il sordo, occasionale, rimbombo dei proiettili e delle granate, nel modo in cui la natura stessa delle cose si frappone come un ostacolo fra l’uomo e il suo destino, e si lega allo sforzo umano, al sacrificio dell’uno per la moltitudine - di fronte ad elementi metafisici come questi, che è particolarmente probabile non notare all’interno di un film così rapido, drammatico e pieno di scene d’azione, si fa strada la riflessione in cui deve essere sintetizzata la guerra stessa: l’eroismo convenzionalmente detto esiste davvero o è piuttosto il richiamo più viscerale e antico dell’uomo che sente nella perdita anche di una sola vita umana, amica o nemica che sia, il peso insostenibile del proprio fallimento umano?

Da un lato è chiaro come Mendes abbia voluto configurare il suo film in un’ottica di grandi valori, valori come la fratellanza, il coraggio e la paura, tutta quell’infinitudine di pathos che inevitabilmente l’epica guerresca porta con sé, ma è attraverso l’ingegno del suo stile di racconto e dunque della sua grande regia ad imporre quei valori, che non sono mai affidati alla banalità di dialoghi stereotipati, o scene strappalacrime o di forte impatto ed anzi, proprio la sua sfida si basa sul nascondersi, sulle continue deviazioni da sentieri già tracciati, sull’urgenza di lasciare fuori ciò che è ornamento, terribile ma sempre ornamento, per mettere a fuoco solo la stretta necessità di un obiettivo vicino eppure così lontano.

Il film di Mendes è un film che virtualmente ha tutto, capace di attrarre ogni sensibilità umana, di ricordarci quanto è brutto temere per la propria vita o testimoniare la morte di un amico mentre ci rivela le contraddizioni di una natura che attraverso l’amicizia, l’empatia, la solidarietà, la compassione, l’humanitas è pur sempre degna di essere celebrata... finché quella stessa natura non si ribella contro se stessa provvedendo al suo stesso annientamento.





domenica 9 febbraio 2020

The Irishman

151 - The Irishman (febbraio 2020)



















È la storia di Frank “Irishman” Sheeran, passato da soldato veterano durante la seconda guerra mondiale a sicario della malavita newyorkese attraverso una serie di contingenze e conoscenze personali che ne segnano il cammino.

A trent’anni da Goodfellas (1990) e venticinque da Casino (1995), Martin Scorsese sembra qui completare una sua trilogia ideale di storia americana, quella particolare storia dentro alla storia che ha legato l’ambiziosa ascesa internazionale degli Stati Uniti agli interessi e agli intrecci politici e criminali interni. In un’epopea virtualmente infinita da raccontare, e che non ha mai smesso di affascinare il grande regista americano (dall’esordio di Mean Streets fino alla TV con Boardwalk Empire), si inserisce qui la storia di un uomo che è stato al centro di quella particolare congiunzione fra sindacati e malavita in un momento cruciale della storia; è di particolare importanza tenere presente come in questo caso Scorsese sposti l’obiettivo della macchina da presa dal contesto storico all’analisi psicologica e, in definitiva, umanistica, del personaggio che segue in soggettiva.

Lo intuiamo fin dai primi secondi di film, quando uno stupendo movimento di macchina ci introduce, come un fantasma dal passato, al Frank Sheeran ormai rinchiuso in un’ospizio che racconta la sua storia in flashback.
In questo senso è uno Scorsese non meno complesso e destrutturato del solito: la vicenda si snoda su tre diversi piani temporali, allo scopo di fornire una serie di impressioni che restituiscono il ritratto del suo protagonista, ma dai ritmi delle inquadrature decisamente più compassati, dai dialoghi meno essenziali e più improntati all’analisi dei rapporti personali piuttosto che alla fascinosa punchline con cui Scorsese stesso ha definitivamente plasmato l’immaginario gangster con i suoi film, il regista modifica la prospettiva, come se lo Scorsese storiografo si facesse da parte, o si rendesse strumentale ad uno Scorsese più interessato ad uno studio del personaggio, come se guardasse indietro non solo al passato dell’America ma anche alla propria carriera, al suo significato.

Se l’azione concitata, l’umorismo grottesco e sfrenato, i personaggi “larger-than-life” di Goodfellas e Casino producevano immagini che si alimentavano della propria stessa ferocia, fagocitando ogni secondo del film, è piuttosto evidente come invece qui Scorsese, rischiando l’accusa di essere ormai al capolinea, abbia voluto svuotare completamente il suo film di una qualsiasi energia cinetica, di quella furia adrenalinica che assieme al susseguirsi degli eventi narrati finiva per portarsi via anche le persone lasciando solo i gusci dei loro personaggi, al fine di portarci dentro al suo film, di entrare nei meccanismi dialogici e psicologici che hanno cementato la cultura criminale, delle convenienze e delle conseguenze che ogni decisione porta con sé.

Se i film precedenti erano più calibrati sulla patogenesi della violenza tout court come schema criminale per spartirsi il potere, questo film ha più a che fare con il rapporto con cui la violenza si lega all’anima di chi ha scelto quella violenza, invitandoci a una riflessione più seria e dignitosa sul tema tanto spesso spettacolarizzato e velocemente consumato, e quindi inconsciamente accettato, metabolizzato, adattato al modello consumistico occidentale che sembra ormai essersi completamente dimenticato di cosa significhi fermarsi a riflettere e comprendere e che vuole invece tutto subito e tutto in serie.

Scorsese ha fatto ovviamente un film sulla malavita, un film che corona una carriera passata a raccontare storie perfettamente americane e che echeggia degli altri grandi capolavori del cinema di genere, ma questo è percettibilmente un film che chiede di più a se stesso, più rigoroso, quasi permeato da uno spirito religioso: c’è un senso di profonda solitudine nella vita del suo “Irlandese” Frank, un male dell’anima con cui la sua particolare resilienza ha imparato a convivere: forse, sembra dire Scorsese, quando riesci a giustificare quello che fai - qualunque cosa sia - trovando conforto e legittimazione in un qualsiasi rapporto umano in grado di trasmetterti un senso di affetto, perfino di famiglia... beh allora, si può essere molto soli e comunque trovare motivi per continuare a fare quello che si fa.

Scorsese ci ricorda che niente passa indenne, e se non è la legge, la società o la famiglia a condannarci, è il tempo che inesorabile passa e seppellisce tutto. Il suo compito, da attento osservatore della storia, è ricordarci in che modo tutto è collegato; e la sua vocazione, da grande osservatore della natura umana, è ricordarci che tutto quello che facciamo rimane con noi e prima o poi, reclama una resa dei conti.



sabato 8 febbraio 2020

Once upon a time in... Hollywood

150 - Once upon a time in... Hollywood (febbraio 2020)


Rick Dalton - assieme al suo fido compare Cliff Booth (la controfigura/stuntman) - è un attoruncolo di B-Movie Western riciclato in uno stereotipo di un genere ormai in declino (the bad guy) che sopravvive solo grazie all’entusiasmo delle nicchie di fan e ai tentativi seriali della TV. All’apice di questo momento storico - siamo nel 1969 - il restyling prodotto dall’avvento dei grandi spaghetti western italiani, gli offrirà la chance di allungare la sua carriera, prima dell’inevitabile e definitivo ritiro.

Sono anche i mesi immediatamente precedenti al massacro di Cielo Drive: in una scena hollywoodiana in fermento (siamo sulle colline di Bel Air) Sharon Tate tenta la sua scalata al successo, compare come attrice nei suoi primi film e si lega al regista e futuro marito Roman Polanski.

Come anticipato dalla crasi del titolo, Tarantino riunifica, con l’apparente intenzione di farli convergere, due filoni che sono il suo amore per i western (in particolare quelli italiani) e la storia di Hollywood. Attraverso un montaggio alternato in stile Jonathan Demme (Il silenzio degli innocenti), che ha comunque nelle vicende di Rick Dalton il suo principale punto di vista, assistiamo alla lunga, lunghissima preparazione ad un finale di inevitabile violenza più o meno parodistica.

Perché se da una parte Tarantino gioca con se stesso - il feticismo per il cinema, il montaggio frammentato - promuovendo in senso ironico come vicenda principale la storia di un personaggio che non ha nulla di particolarmente interessante, del tutto estraneo al divismo ma in qualche modo comicamente ambizioso, dall’altra l’ambizione (ad emergere nella competizione, piuttosto che a lasciare un impatto nella società) si imbottiglia di continuo in un percorso che non porta mai a nulla.

Gioca in effetti al gatto con il topo, sfuggendo di continuo al confronto drammatico e facendo leva sull’immaginazione dello spettatore, sulla sua abilità logica nel ricomporre pezzi di una simil-ucronia che ricorda per certi versi il suo Inglorious Basterds, ma che non possiede nemmeno una frazione di quell’intensità emotiva.

Tarantino è spesso stato tacciato di autoreferenzialità, ma sembra qui aver voluto davvero fare un film solo per se stesso, un elaborato quanto sterile esercizio di stile di immotivata lunghezza e formato: un film che appare stiracchiato, stanco, che si consuma per lunghi momenti in una tensione trascinata, senza energia o mordente in quella che è sempre stata la sua specialità, ovvero la brillantezza dei dialoghi e l’imprevedibilità narrativa.

Una minuziosa ricostruzione che sembra avere un unico messaggio, inscritto nel finale tanto atteso: quello di una rivincita morale, forse stizzita e comunque del tutto personale nei confronti di quella parte di critica che lo ha sempre accusato di alimentare un immaginario di violenza, di vivere costantemente in una fantasia per ragazzini. La folle tesi - secondo cui la violenza in TV e nei film giustifica quella sociale - viene letteralmente messa in bocca ad una degli hippie che assalteranno (sbagliando ad interpretare la storia... di Hollywood in un delirio Mansoniano) la casa di Dalton, chiudendo ermeticamente su se stesso sia il discorso narrativo che il commento autoriale sulla violenza del film, evidentemente spinta all’eccesso parossistico e ben lungi dal volersi propagare nella sensibilità pubblica della tragedia del caso Sharon Tate. Dopo averla messa in vetrina, dopo averla letteralmente messa in mostra (il suo nome sulla locandina del film che poi lei stessa andrà a vedere, come fosse una spettatrice piuttosto che un personaggio del film), Sharon troverà la salvezza grazie a quello stesso cinema che Tarantino qui omaggia e incarna; è questo e soltanto questo il trait d’union dei due nuclei narrativi. Tarantino riscrive, o per meglio dire, evade dalla storia inventandole un vicino (il Rick Dalton di Di Caprio) che rappresenta quel cinema vecchio e stanco a più riprese vilipeso e assassinato dalla critica mainstream con l’accusa di scarsa qualità artistica e di fomentare i più bassi istinti... finché alla fine il piano letterale si fonde con quello figurato e Tarantino porta a casa il risultato con un compiaciuto sorriso, mancando di nuovo all’appuntamento con il confronto.

Al di là della sottigliezza di un finale che ha il merito di mettere in discussione i pregiudizi (siano i nostri di spettatori o quelli dei critici cinematografici), risvegliandoci dal torpore delle due ore abbondanti precedenti, il film riesce in modo incerto, senza mai convincere; ad un livello artistico è come se fosse una sintesi, o piuttosto un compendio, più sbiadito e annoiato, dell’intera opera Tarantiniana. Per un cineasta che ha fatto del cinema d’evasione e di intrattenimento il suo marchio di fabbrica, questo è un film complessivamente mediocre, a corto di idee originali, raramente o mai capace di titillare la fantasia dello spettatore se non tramite escamotage d’exploitation, abitato da personaggi anonimi, appiattito da dialoghi fiacchi, continuamente schiacciato sotto il peso di una pseudotensione infantile come di chi non veda l’ora di guardare l’espressione sulla tua faccia alla rivelazione di uno scherzo a lungo atteso.

Il comodo guscio dell’ironia riesce sempre a redimerlo, ma questa volta, probabilmente, serve prendere atto che venti minuti non bastano a fare un buon film.



venerdì 7 febbraio 2020

Marriage Story

149 - Marriage Story (febbraio 2020)



















Charlie e Nicole sono legati da un matrimonio infelice, ridimensionato dalle aspettative che ciascuno dei due ha a proposito della loro relazione. Divisi fra New York (dove si trova la compagnia teatrale del primo) e Los Angeles (dove vive la famiglia della seconda) e con un figlio piccolo da crescere, questa è la storia della loro separazione.

Baumbach riprende quei segni autobiografici che aveva già approfondito da una prospettiva più diretta e immediata in The Squid and the Whale, storia di un ragazzino coinvolto nel doloroso processo di allontanamento dai propri genitori durante il loro divorzio — un’occasione per rielaborare ed esorcizzare il dramma famigliare personale.
Qui il regista fa come “un passo indietro”: tanto soggettivo ed appassionato era stato prima quanto osservatore calmo e imparziale in questo caso, con una regia clinica, che anziché giudicare vuole analizzare, che invece di lasciarsi trascinare dalle emozioni le canalizza in un racconto disilluso che è un gioco di voci e di punti di vista, di dialoghi interiori, di anime messe a nudo.

Attraverso un procedimento che ricorda molto l’ultimo Bergman (ovvi i riferimenti sia a Scene da un matrimonio che a Fanny e Alexander), incalzato da un’indagine scrupolosa dei desideri e delle paure umane che prima ancora di essere studio, introspezione psicologica è quasi un dialogo della natura umana, Baumbach rifiuta nettamente di aderire ai cliché - pur mantenendo nel suo impianto narrativo i tipici stilemi narrativi americani dello storytelling di genere per prenderli di mira assegnando alle figure stereotipate un valore ironico o di critica - e invece pone l’accento sulle vicende umane in contrapposizione a quelle materiali.

Potrà sembrare forse irrealistico il grande silenzio contemplativo, la facilità di comunicazione che caratterizza gran parte delle discussioni dei due protagonisti, letteralmente divisi (geograficamente, emotivamente, legalmente) là dove prima formavano un’unità, ma Baumbach dimostra che si può fare un grande film sul dolore senza dover urlare: a questo film non mancano certo la rabbia e una buona dose di scene madri che lo elevano ad un livello drammatico assoluto, ma esistono storie semplici che sono complicate dalla mancanza di ascolto. Baumbach si assicura che ascoltiamo tutte le voci del suo film, dandoci modo di ricostruire il passato, di formarci un punto di vista neutro, e ancora più importante di entrare in sintonia con le motivazioni di entrambi: un vero miracolo di film.

Semmai, la presa di posizione riguarda tutto quello che sta attorno: dai limiti imposti dalla distanza fisica, al tempo che inesorabilmente cancella sogni e speranze, alle pressioni sociali, fino alla schiera di profittatori e avvoltoi che pasteggiano sulla disgrazia innescando un teatrino della miseria umana a cui i due protagonisti riescono intelligentemente a sottrarsi.

Talvolta iper drammatico (come non ricordare la meravigliosa sequenza del litigio?), talvolta nostalgico e sognante; fitto di dialoghi senza essere verboso; ora disilluso, ora risolto nelle rivelazioni del dramma confessionale lungo approfondite esplorazioni spirituali che sfociano in puri attimi di lucidità e compassione, il film è tutto magnificamente recitato ed ispirato particolarmente nelle interpretazioni di Scarlet Johansson e di Adam Driver, capaci di una dignità, di una vulnerabilità, di un tono ed un’espressione che dà la sensazione di una continua ricerca, artistica oltre che individuale, all’interno dei rispettivi microuniversi che rappresentano. È impossibile assistere in questo film ad un qualsiasi dialogo fra i due e non captarne tutto l’amore, il rispetto, il trattenuto dolore che viene a malapena tenuto a bada per imporre all’orgoglio e ai più negativi impulsi egoistici il senso di una storia che ha più risonanza di un pezzo di carta, che non finisce solo perché ci si dice addio; ed in senso più lato è il racconto del fallimento con cui chiunque di noi deve fare i conti prima o poi nella vita: è impossibile affrontarlo senza rimanerne in qualche misura annichiliti, ma si può essere onesti con se stessi e con gli altri, si può crescere e maturare facendo la cosa più giusta, anziché quella più conveniente.

Il cinema indipendente di Baumbach ce lo ricorda perché ci permette di vedere i suoi personaggi per quello che sono realmente anziché sulla base dei soliti stereotipi che nel cinema narrativo classico servono a far procedere la storia; in un certo senso il film ha più a che vedere con il teatro che con il cinema (o le web TV), è la somma esatta di una straordinaria sceneggiatura e di grandi interpretazioni, il resto è vago, scarno, come un sottofondo di scarsa importanza. Le concessioni sono autobiografiche, le dinamiche interne caratterizzate da coerenza e realismo e la sua regia sa essere geniale e spiazzante (come nella sequenza introduttiva) mentre allo stesso tempo si nasconde e mostra la sua resistenza a concedersi, vince la tentazione di autocelebrarsi.

Anche le nevrosi famigliari, da sempre segno distintivo del suo cinema e a volte esagerate fino alla caricatura o all’eccesso dialogico destinato a mostrare la corda (vedi il riuscito a metà The Meyerowitz Stories) sono diluite con credibilità e naturalezza nelle trame di un disagio che ha bisogno di essere sempre all’interno del discorso per poi essere arginato e metabolizzato.


Con un occhio al passato (il già citato Bergman, ma anche capisaldi come Kramer vs Kramer, The Crowd di King Vidor, ecc) e uno al presente di un panorama indipendente (di cui Baumbach è uno dei moderni pionieri) che riesce sempre più a mettere in mostra la propria grandezza, film come questi ci ricordano che il cinema del 2020 non è solo lo spettacolo visivo dei grandi blockbuster e nemmeno l’asettico, indifferenziato paradigma del mondo on-demand dominato da un’offerta spesso anonima, ma anche il risultato di nuove possibilità dell’industria che garantiscano agli autori più originali una sempre maggiore libertà creativa, necessaria per un cinema che sappia guardare avanti senza dimenticare agli enormi traguardi che ha raggiunto. Ogni tanto capita di dover assistere a un grande film per conservare quest’ottimismo.




giovedì 6 febbraio 2020

Little Women

148 - Little Women (febbraio 2020)



















A un paio d’anni dall’esordio alla regia, Greta Gerwig torna con un nuovo adattamento del classico generazionale di L.M. Alcott, “Piccole Donne”; una storia che porta incisi ovviamente molti significati, capace di offrire molti spunti in ogni epoca, e che non è scelta casualmente dalla sua giovane regista, tanto evidentemente affezionata al materiale originale da aver elaborato una ottima sceneggiatura quanto attenta e sensibile ad un discorso autoriale inserito in un periodo di grande respiro come quello contemporaneo, in cui i secolari valori del libro, figli di un periodo più rigoroso del nostro possono esaltare quella dimensione femminile e femminista che è fortunatamente sempre meno difficile portare all’attenzione dell’opinione pubblica e quindi del grande cinema.

Film, come la storia, infatti molto femminile, dalla tensione emotiva e dall’occhio delicato e attento ai dettagli della regia alle scelte di un felice cast, ben diretto e pressoché perfetto sia a livello di matching sia di interpretazioni: a spiccare sono chiaramente Saoirse Ronan (che continua il suo sodalizio vincente con la Gerwig) e Florence Pugh, rivelazione di un’annata per lei florida di successo e plausi della critica che l’ha vista svettare anche in Midsommar.

Come nel precedente Lady Bird, l’uso del montaggio si rivela decisamente l’arma in più nel tentativo della Gerwig di dare un taglio moderno alla storia, evitando il più possibile quel ristagno che il contegno classico ha sempre dato alle vicende delle sorelle March, e puntando invece sulla velocità dei dialoghi, su ritmi tagliati con l’accetta e su un montaggio alternato che spiega il presente con il passato, e viceversa.

L’intuizione è delle migliori e permette alla Gerwig di dare grande coerenza, grande organicità all’insieme, come se il suo film effettivamente vivesse di una grande spontaneità, un’energia, uno slancio emotivo che non scade mai nel bieco sentimentalismo quando veicola una morale che può sembrare semplicistica e ormai superata come quella dei romanzi. La Gerwig è troppo intelligente per cadere in questo errore e punta invece, attualizzandoli, quei temi talmente immortali da intersecarsi fatalmente con i destini dei suoi personaggi, che diventano espressione di un colore e di una forza di carattere che fuoriesce dalla pagina, ma a tratti sembra completamente allontanarsene, velando di una elegante ironia laddove una mano pesante sarebbe caduta nella più banale delle trappole.

In fin dei conti, questa è una questione personale per la Gerwig... non solo perché è il suo film (suo in tutti i sensi, scritto, diretto e voluto) e non solo perché la sua protagonista è di nuovo la magnifica Saoirse Ronan che è l’anima del film ma in un certo senso è anche di più, come se fosse la sua estensione (del resto “Little Women”, libro di famiglia, è sia il titolo del film che del libro che Jo si vedrà pubblicare) ma soprattutto perché questo è un film intimo, “piccolo” come “little” sono le sue protagoniste, che non dimenticano mai le loro radici né rinnegano i propri valori, anche lì dove la convenienza renderebbe loro la strada più facile.

Allo stesso modo per la Gerwig si tratta di integrità artistica, di onestà di racconto, di rimanere fedele allo spirito del romanzo senza farci dimenticare che le cose non cambiano mai troppo, e che anche quando lo fanno abbastanza da permettere a una donna nel 2019 di scrivere il finale che vuole scrivere, di raccontare la storia nel modo che ritiene migliore, rimane pur sempre un mondo in cui chi è più debole deve lottare per la propria indipendenza, per l’entusiasmo nei confronti di ciò che ama.

Un piccolo, grande film che è inconsapevole delle proprie qualità, cosa che lo rende ancora più degno di stima.


mercoledì 5 febbraio 2020

Jojo Rabbit

147 - Jojo Rabbit (febbraio 2020)



Ultimi anni della seconda guerra mondiale, un paesino tedesco. Jojo è un ragazzino che cresce secondo i valori e gli ideali della Hitler-Jungend, accecato dal fervore fanatico, cresciuto da una madre segretamente coinvolta nella resistenza e all’improvviso travolto da un compito che appare più grande di lui: diventare un buon soldato nazista in un’atmosfera di continuo dileggio, cameratesca prevaricazione. Per quanto vittima del suo contesto, Jojo è esso stesso l’antitesi della ferocia incarnata dal regime; è solo un ragazzino strano e confuso, che crede di avere un filo diretto con il Fuhrer in persona (Takika Waititi, il regista).
Alle sue spalle, una famiglia dimezzata ma ancora perfettamente sana, che si allarga quando un giorno Jojo scopre Elsa, una giovane ragazza ebrea poco più grande di lui rifugiata a casa sua, a sua insaputa.

Waititi continua la sua felice tradizione con la commedia satirica, gli elementi sono anche qui pressoché dati: l’ovvia ironia, il ribaltamento delle prospettive, l’assurdo come mezzo per porre in atto una riflessione.
Senonché l’argomento è più delicato di quelli che aveva trattato in precedenza (fosse un divertissement come la discussione dei cliché vampireschi o l’attenzione alla dignità delle minoranze etniche filtrata attraverso il genere d’avventura) e il sentimento grottesco che ne è il risultato non sembra sempre in perfetto equilibrio.

Il suo intento è molto chiaro, schematico, quasi banale: giocare con gli stereotipi per mostrare la stupidità nell’esaltazione, il grottesco paradosso nella follia rigorosa e razionale dell’obbedienza cieca alle regole a cui si finisce per credere solo a causa del potere esercitato dalle autorità su una mente debole (sia quella di chi si conforma, o quella di un bambino).

Il film affila le proprie armi verbali, disorienta fin da subito, attrae con le sue premesse comiche prospettando qualcosa che, però, con il passare dei minuti non si concretizza; l’antimilitarismo didattico e pedante, un’ironia troppo calcolata, una generale facilità nel mostrarsi a un moralismo invadente, che non lascia realmente mai spazio a una riflessione personale, e nemmeno molto originale... nel complesso hanno l’effetto opposto a quello preventivato dal suo regista, e la prevedibile maturazione del personaggio principale sembra quasi non avere ragione d’essere.
Quest’ultimo è sviluppato attraverso l’amicizia (che quindi presuppone il contatto, la conoscenza in opposizione al distacco asettico propugnato dalle più pure teorie sulla razza) fra Jojo ed Elsa: l’aspirante e biondissimo oppressore, timido ed insicuro e la sventurata vittima, coraggiosa e fiera, e alle porte il lupo, più o meno vero e certamente non realistico, anzi caricaturale, del soldato tedesco pronto all’ispezione.

Sarebbero quasi ingredienti da fratelli Grimm: un black humour da fiaba gotica in cui il male è sempre puramente simbolico, con l’astuzia infantile che funge da mezzo di sopravvivenza, in un racconto in cui la fantasia e il reale si incontrano in un crocevia nebuloso e la morale prende le sembianze dell’ammonimento, pone paletti in grado di segnare la “giusta strada”.

Allora a ben vedere forse il problema centrale del film sta nella sua “ricezione”, nel senso che se lo si interpreta come allegoria, come “film di formazione”, rivolto soprattutto ad un pubblico più giovane (cd. Young Adult) e coetaneo ai protagonisti del film, allora va dato il merito a Waititi di due cose: da una parte di aver dimostrato che si può scherzare con la tragedia per mostrarne le contraddizioni e quindi avvicinarsi ai suoi temi per creare i presupposti di una riflessione; dall’altra l’abilità di informare ed educare senza mai tradirsi o spingersi ai confini del lecito. Waititi gioca in effetti fin troppo pulito, ed è da qui che muove la principale obiezione della seconda interpretazione.

È l’ingenuità di chi si aspetta un qualche tipo di commento sociale ultroneo, o piuttosto un’opinione dissacrante a rimanere più ferita da questo film: non è forse Waititi ad essere inadatto a questo scopo, ma più che altro la sua funzione ad essere diversa. Di film deliberatamente eccessivi, che si prefiggono finalità d’exploitation e di catarsi, sull’argomento, ce ne sono già e sono semplicemente altri.

Basta analizzare il tipo di umorismo piuttosto infantile di cui il film si serve: un umorismo mai davvero caustico, corrosivo, che non lascia mai il tranquillo e sicuro seminato del politically correct... quasi come una qualche auto-moderazione di fondo serpeggiasse continuamente nei dialoghi, come se si volesse evitare di offendere qualcuno tranne che il buon senso.

Di nuovo, il problema centrale, ammesso che ce ne sia uno, è forse da riscontrare nella sensibilità che certi argomenti provocano in rapporto alla libertà del tutto personale che ognuno di noi ha di articolare il proprio linguaggio per esprimere un’opinione, ovvero della satira. Se un fallimento c’è stato è qui, è forse nell’aver calcolato male le misure e i toni mescolati così da formare, talvolta, un guazzabuglio che non si sa bene come interpretare, a cui si fatica ad assegnare una qualche coerenza. In questo senso la scelta un po’ fuori sincrono dei siparietti di Waititi nei panni del Fuhrer: forse avrebbe avuto più senso un’unica apparizione in un dato momento, perfettamente studiato, motivato, del film; ma questa continua dialettica priva la storia della sua naturale ingenuità e rifocilla al contrario uno spartito ridondante e monocorde.

Un film che, preso come satira o come discorso personale, non ha un grande valore artistico. Ma questo non significa comunque che sia un brutto film.




martedì 4 febbraio 2020

Joker

146 - Joker (febbraio 2020)





La lunga, inesorabile, irreversibile discesa nel baratro della violenta follia di Arthur Fleck, ovvero Joker, secondo Todd Phillips passa attraverso l’esperienza quasi insostenibile del dolore quotidiano, dell’umiliazione, dell’alienazione secondo modelli che si rifanno platealmente ai temi classici dell’esistenzialismo; e non sono casuali, a questo proposito, i riferimenti più o meno ovvi a Taxi Driver: così l’ambientazione cupa e claustrofobica della Gotham City grottescamente stilizzata e canonizzata attraverso Batman, diventa qui lo scenario più realistico, più familiare di una città che ha più cose in comune con la New York di Scorsese.
La gioventù allo sbando e la corruzione morale della società post-Vietnam, quella in cui il De Niro (altro tratto comune) di Taxi Driver scivolava silenzioso senza trovare conforto o riferimenti diventa qui lo spettro di una società fantasma, nelle intenzioni del suo autore non troppo distante da quella attuale, incurante e distratta dalla propria sete di protagonismo, che avverte le pulsioni sociali del proprio tempo e si prepara a recepirle non appena raggiunto il punto di non ritorno.

Ed in effetti, il film Phillips è un costante esercizio di esagerazione, di deformazione; perfino nel suo concept di partenza, nella sua idea di ripensare i canoni del Joker (cattivo per definizione, ridotto ad una menomazione fisica che è lo specchio della sua abiezione morale) come un personaggio dei nostri tempi, o che i nostri tempi potrebbero produrre, e quindi di umanizzarlo lungo il processo che genererà il mostro (che come ci insegna la tradizione del racconto horror è lo scarto vergognoso di una società che nasconde la propria paura per ciò che non è normale) è di quelle che suscitano curiosità.
Se tutto quello che riguarda la tua esistenza è sofferenza e falsità, e se non è possibile trovare aiuto, affetto, o perfino un’identità di seconda mano con cui presentarsi al mondo, allora la strada è segnata.
Se non c’è più spazio per l’umana compassione, se perfino la povertà e la malattia mentale sono trattate con indifferenza, allora l’unico agente aggregante è la violenza, la sopraffazione, il rovesciamento delle prospettive, sembra veicolare la perversa retorica del film.

Phillips rincara la dose e la straordinaria intensità di Phoenix prende il sopravvento: è probabile che molti dei concetti su cui ruota la sua interpretazione fossero studiati a tavolino, ma niente può preparare o spiegare quello che il protagonista di questo film è in grado di mostrare.
Le maschere di trucco come artificio per nascondersi, la risata come simbolo palindromo di una tragicommedia che attraversa la malattia prima e la follia criminale poi, la violenza pseudo-farsesca, pseudo-rivoluzionaria (e più che altro populistica, assurda, blandamente motivata) che rifà il verso a V per Vendetta... tutti questi sono elementi con cui la sceneggiatura gioca, e a cui la regia stenta a dare una forma riconoscibile, e che in assenza di una prova psicologica così di spessore come quella di Phoenix rischierebbero di affondare in un grande pasticcio.

Ma in qualche modo la tensione emotiva, l’essenza primitiva che si agita all’interno di questo film, l’empatia che trascende i confini geografici o fumettistici entro cui questa storia è ricompresa, invitano a prendere atto di un racconto che si tiene insieme da solo, non senza occasionali sbandate ma comunque maturo abbastanza da essere preso sul serio.

Il film può solo biasimare se stesso invece per la scarsa originalità che caratterizza diverse scelte autoriali (è nello stile manierato che si avvertono le più grosse difficoltà della regia), condite poi spesso da trovate ad effetto o completamente vuote di significato; è solo la meravigliosa catarsi che lo sguardo egoista sul suo protagonista procura ad impedire la consapevolezza di un film che ha poco da dire di nuovo o di sostanziale rispetto alle sue stesse ambizioni, che crolla sotto il peso nichilistico della sua cupezza senza dare davvero alcuna motivazione per cui qualunque cosa nel film accada nel modo in cui accade, senza appello alcuno.
Nello sforzo di rovesciare quel manicheismo di fondo che è irriducibile nella forma fumetto, Phillips ha realizzato un film-fumetto tanto atipico nella forma quanto simile nella sostanza, e per di più commettendo l’errore madornale di confondere cinema d’evasione e realismo.

L’indeterminatezza, l’ambiguità che anche nella nostra esperienza umana ci guida tra lucidità e oblio, tra relativismo e realtà oggettiva, tra cosa sia reale e cosa no... sono questi temi immortali, quelli che danno respiro alla performance del Joker, a rendere accattivante questa storia, a spingerci a credere nelle verità del film, alla sua vacua estetica decadente, ma non si possono ignorare le sue debolezze fingendo che non esistano proprio come non si può ascoltare lo sproloquio di un pazzo senza inorridire profondamente.


lunedì 3 febbraio 2020

Ford v Ferrari

145 - Ford v Ferrari (febbraio 2020)





Ford contro Ferrari.
Per un titolo che annuncia già tutto in partenza, anticipando quello che sarà un film dai classici connotati da biopic (il momento di crisi, le difficoltà che sembrano impossibili da superare, il senso della sfida, il duro lavoro, il momento clou, le conclusioni), sviluppato in una sceneggiatura tanto laboriosa e incalzante quanto drammaticamente priva di soluzioni innovative, di uno storytelling capace di mettere insieme realtà e finzione ad un livello artistico credibile, l’opera di Mangold non è affatto un film da disprezzare.

È vero: risente immancabilmente dei difetti prodotti da una visione, come quella Hollywoodiana, ormai legata indissolubilmente a quell’America che del resto questo film racconta (e con cui quindi viaggia in sincronia attraverso il percorso storico di quegli ultimi anni ‘60), con la sua mania di protagonismo, la sua lucidità industriale e commerciale, la sua attenzione ai piccoli dettagli che fanno di una grande macchina una macchina vincente e parimenti di un film un prodotto; e se questa è una storia del piccolo contro il grande, dell’artigiano contro la multinazionale, dello spietato meccanismo dell’industria contro l’onestà del lavoro, della cieca ricerca del profitto contro l’impetuosa passione che lega il raggiungimento dei propri obiettivi al sacrificio... beh, allora questo film, pur nella sua parziale disonestà formale, è però abbastanza onesto da collocarsi in una posizione veramente neutrale, respingendo in ugual misura l’arroganza di chi vuole vincere senza rispetto per i propri avversari e il disfattismo di chi si sente già sconfitto, riuscendo a sentirsi americano nel modo forse più autentico e nobile, personale.

E allora la strada, nelle sue infinite metafore in cui ci viene servita in questo film, è impervia e piena di tratti ciechi e sconnessi, ma come tutte le grandi metafore ha il potere di aggregare, di creare un’illusione collettiva: Ken Miles, il pilota cocciuto e solipsistico a caccia del giro perfetto ed Henry Ford (II), circondato da una schiera di cagnolini che lo scavalcano e decidono al posto suo perché fondamentalmente incapace di prendere le redini della sua stessa azienda, non potrebbero essere più distanti, non potrebbero assegnare un valore più diverso alla strada che hanno davanti. Ciò che in questa distanza incolmabile li accomuna per un attimo è la competizione, è la qualità tipicamente umana e narcisistica di essere all’altezza della situazione, di non deludere le attese.
È così, sembra dirci il film, che nascono le più spontanee prove memorabili della Storia: con delle promesse improbabili a cui si finisce per credere sempre più, finché il miracolo non si allontana dalla sua stessa definizione, finché l’uomo e l’idea si avvicinano fino a toccarsi.

Ford v Ferrari è sicuramente un film molto ben rifinito e confezionato, con il solito gran montaggio che i film di Mangold possiedono, avvincente nel suo modo di raccontare e coinvolgente nelle sequenze d’azione riprese in soggettiva, che chiariscono il vero punto di vista di una regia pulita, diligente, piuttosto canonica anche nei suoi manierismi, nelle sue sottolineature oltre il limite del didascalico, nei suoi motivi centrali.

La coppia Damon-Bale è una garanzia di successo (in tutti i sensi) e, per quanto il trasformismo di Bale non colpisca ormai più di tanto l’occhio più attento alle grandi performance degli ultimi anni, è comunque sorprendente che non goda di una ancora maggiore reputazione: questo film gli offre la possibilità di dimostrare quanto sia immenso nel dare coerenza a qualcosa che in apparenza sembra non averne e spesso, anche senza dover parlare.

Contrariamente a quanto si possa pensare, non è un film “per appassionati”; sembra invece piuttosto chiaro come Mangold abbia cercato di avvicinare i fanatici ad un pubblico più generalista, capace di immedesimarsi nei suoi temi universali, o di rivivere e leggere in un dato periodo storico la cifra di cosa significhi rimanere se stessi davanti ad eventi più grandi delle nostre forze, là dove tutto cambia ma mai niente cambia davvero. E nemmeno le cose che più sono importanti per noi.


domenica 2 febbraio 2020

Parasite

144 - Parasite (febbraio 2020)





Una famiglia koreana, allo sbando finanziario e ridotta a vivere in una baraccopoli, mette in atto tutte le proprie risorse di ingegno per attuare un piano originale che li porterà al servizio della facoltosa famiglia Park e a risolvere il problema della disoccupazione, ma non tutto può essere pianificato...

Bong Joon Ho, sulla scia di Okja e soprattutto Snowpiercer, ma in generale di quasi tutto il suo cinema, torna su quelle tematiche a lui tanto care le quali, a seconda del fatto che vi convinca o meno della sincerità del suo discorso autoriale, possono in uguale misura muovervi a compassione o farvi storcere il naso e respingervi sotto il loro influsso populistico.

La sua poliedricità stilistica, il suo più completo controllo dei ritmi del film, acquisiti ormai attraverso una serie di prove registiche che lo consacrano fra i migliori cineasti mondiali contemporanei, è sempre mirata in qualche modo a conciliare l’aspetto più critico a quello d’evasione; il cinema d’autore che sa riflettere una determinata visione della società ma sa anche intrattenere, sa rendersi narrativo e imprevedibile.

Questo film può essere una graffiante commedia satirica, può essere un apologo o un racconto morale, si tinge delle tinte sociali di un dramma borghese, si trasmuta in horror surreale e attraversa la tragedia classica che si incarna nella metafora sempre più attuale e concreta dei nostri tempi, intersecando fantasia e realtà, allegoria e stretta necessità. È un film camaleontico, che sfugge continuamente alle definizioni, che sa attingere a diversi registri di linguaggio, ma a cui non sfuggono le sottigliezze di una storia ben congegnata, stilizzata in un messaggio che arriva forte e chiaro.

E allora la ricca famiglia borghese, così fuori dal mondo reale da vivere circondata dal lusso e dal silenzio rotto solo dall’occasionale pioggia estiva, talmente isolata e adagiata al sicuro del proprio rifugio costruito sull’agio dei soldi da non sospettare nemmeno le altrui peggiori intenzioni, rappresenta quel tipo di idillio così anacronistico e fuori dalle statistiche economiche dei nostri tempi che inconsapevolmente diventa qualcosa a cui è necessario, prima ancora che utile, ambire.
In questa metafora che ci parla dell’uomo ridotto alla sopravvivenza e, quindi, senza più vergogna o morale propria, si innestano i temi del possesso, dell’avidità, delle differenze di classe. Il “parassita” può esistere solo così, nutrendosi di ciò che a sua insaputa gli passa l’”Ospite”. In questo incrocio di rimandi (biologici, etico-sociali, filosofici), Bong Joon ho rischia continuamente di mescolare elementi di matrice diversa, ma è così bravo ad impastare la storia all’interno della sua stravagante allegoria che tutto trova una sua dimensione esatta, ora seria e puntuale, ora complice e divertita.

Niente sembra accadere sul serio eppure percepiamo l’intima verità del film, la frustrazione che riesce a liberare nei suoi momenti più fisici e diretti, che sono lì assieme alle considerazioni su quest’umanità, che altro non può se non tornare ad uno stato selvaggio, nascondersi dalla luce e dalla propria dignità negata, imbarbarire i propri sistemi di linguaggio, di comunicazione e infine cancellarsi dalla memoria e dalla coscienza del mondo per poi imprimervisi a livello inconscio, sempre tornando nella forma di spettri, spiriti senza requie da un’aldilà; un’entità che è insieme complesso di colpa, inconscio collettivo.

Le proporzioni del film di Bong Joon Ho sono talmente vaste che non è facile percepirle attraverso i meandri di una storia che, figurativamente, si svolge praticamente in un’unica ambientazione, ma - come in Snowpiercer - è proprio qui la grandezza visionaria di tutto, il salto di un’immaginazione rivolta al concreto, ad un discorso diretto e particolareggiato. Il fatto che per gran parte del suo svolgimento, il film sembri prendersi poco sul serio non va a diminuire la sua integrità complessiva, ma è semmai sintomo del disagio moderno incarnato in differenze sociali che sembrano assurde ed insostenibili, nel ruoli chiave delle istituzioni che diventano vere e proprie caricature, e in disegni improbabili di emancipazione che si schiantano nella tragedia più assoluta con la leggerezza e i toni cartunistici di un film di Kung Fu.

Operativamente chirurgica, asettica, la regia scivola come un occhio invisibile in questo caos lampante finché non entra sempre più nella carne viva di una ferita aperta; e al contrario dello svolgersi della storia al suo interno (che non va esattamente come pianificato) il film procede sempre lungo le coordinate del suo itinerario, perfino quando si diverte a deragliare.