domenica 2 dicembre 2012

Gli Hunger Games, fra fantascienza e avventura


53 - The Hunger Games (dicembre 2012)



È l'alba dei 74ª Hunger Games, e mentre la "Mietitura" (una lotteria mediante la quale una coppia di tributi di ognuno dei dodici Distretti in cui sono suddivisi i nuovi Stati Uniti sarà scelta per battersi all'ultimo sangue fino a decretare un unico e solo vincitore) si approssima, la protagonista Katniss Everdeen dà l'addio alla propria casa, alla famiglia, e alla sorella più piccola estratta a sorte e da lei sostituita come volontaria.
Si chiamano Giochi, e la loro istituzionalizzazione vuol rappresentare un divertimento, uno show, ma riflettono l'emblema di uno status quo che un'Autorità centrale ha imposto a coloro che anni prima avevano tentato di ribellarsi all'ordine costituito, in una rivolta finita nel sangue.
Gli Hunger Games servono a ricordare ad essi la loro sottomissione.

In un sistema immaginato sotto l'impronta futuristica di un autoritarismo di stampo Orwelliano nel quale tutti siamo severamente controllati per esserne educati (non il massimo dell'originalità) si apre una breccia grande quanto tutta l'America: la più qualitativamente scadente e becera forma di intrattenimento derivata nel reality show made in U.S.A. si accoppia ormai alle esigenze politiche di un regime mascherato da democrazia e ne compie il lavoro sporco. Il tutto con il sorriso sulle labbra, fra abiti sgargianti, amene cerimonie ed un pubblico lobotomizzato ed ormai talmente incapace di distinguere realtà e finzione da finire con l'essere l'inconsapevole alleato più prezioso del Governo.

Il primo capitolo della trilogia fantascientifica tratta dal romanzo di Suzanne Collins è servito in modo quasi compiacente allo spettatore, dimostrandosi da subito pedissequo rispetto al lavoro dell'autrice americana, senza spiccare per invenzioni registiche o di linguaggio.
Gary Ross (Seabiscuit, ma soprattutto Pleasantville) conscio del grande potenziale della storia (il libro è praticamente una sceneggiatura) lascia che questa parli da sé, riducendo al minimo le intrusioni e le sottolineature; come dimostra il banale montaggio, Ross si limita al compitino, dimenticandosi (o forse no) di imprimere un marchio che avrebbe probabilmente reso un servizio migliore al film.

Invece di soffermarsi sugli aspetti psicologici che risaltano nella mente della protagonista, sui rapporti umani fra gli sfidanti (o quantomeno quelli che intercorrono fra Katniss-Peeta; Katniss-Rue) e sul deprimente sottofondo sociale, ovvero su tutto ciò che avrebbe restituito almeno in parte lo spirito della storia (già di per sé non dotata di una profondità particolare e questo dice forse già tutto), Ross finisce col cercare di inserire tutto quanto il libro in 140 minuti di pellicola, senza peraltro marcare di grande ritmo il tutto.

L'esito finale non può che essere una concitata e seriale progressione di eventi che arricchisce sì il piano narrativo ma che è pur sempre limitata da un arido contorno. Quali sono le motivazioni dei personaggi? Cosa li tiene in vita? Qual è il punto in cui finiscono i freddi calcoli e cominciano i coinvolgimenti emotivi?
Qualche flashback allucinoide e brevi dialoghi non bastano a colmare questo vuoto.

Manca purtroppo anche gran parte della riflessione critica sulla società attuale (Americana, soprattutto), che con i suoi "ideali" dell'apparire ad ogni costo dovrebbe rappresentare abbastanza evidentemente un primo stadio di quel parossismo sociale descritto poi nella storia. Eppure le basi c'erano: una storia semplice, personaggi semplici, sentimenti comuni e dunque di semplice interpretazione. Servirebbe ricordare però come, quando si tratta di fare autocritica, i cineasti americani pecchino spesso di superficialità, quando non addirittura di riluttanza.
Solo che non sembra il caso di Ross (che pure un gioiellino come Pleasantville l'aveva pur sfornato), ed è deludente scoprire il contrario.

Diversamente, si rivela più che buona la componente d'azione della "battaglia", là dove forse Ross avverte più aderenza con la sua missione registica e può semplicemente raccontare quasi fosse uno spettatore egli stesso, curioso di conoscere il finale (sospeso, perché mancano all'appello due capitoli).
Discreto il confezionamento, incluso sonoro: non invasivo e sempre attento a riflettere quella soggettiva così importante nel romanzo.
Ma è sempre troppo poco, per un regista dal talento di Ross.

Buona la scelta di Jennifer Lawrence (particolarmente a suo agio nel ruolo che molte attinenze ha con quello che interpretò in Winter's Bone), decisamente meno felice quella di Woody Harrelson. Tanti caratteristi nel cast: fra gli altri, Stanley Tucci, Elizabeth Banks ed il sempiterno Donald Sutherland.


Scena scelta







lunedì 26 novembre 2012

Bug, un thriller paranoide che si addentra nella mente


52 - Bug (novembre 2012)



Agnes non dispone di molto: una stanza in affitto in un Motel sperduto nell'Oklahoma, un lavoro anonimo, qualche amico, un ex marito violento e un figlio scomparso anni prima.
La solitudine l'ha fortemente convinta di non valere più di una insulsa routine senza senso e con molta droga.
Quando l'amica le presenta Peter, misterioso uomo senza fissa dimora che va blaterando di insetti e di una fantomatica correlazione con esperimenti militari governativi cui fu sottoposto anni prima e che costituiscono il motivo della sua perenne fuga, il meccanismo dell'innesco è già bello che pronto.

L'assenza di forti legami da parte della donna infatti spiega perfettamente la sua debolezza e il perché la sua mente, particolarmente fragile e dunque plagiabile, costituisca l'habitat ideale per accogliere le fobie e le ossessioni di Peter, esattamente come quel "bug" (il doppiosenso che origina fra il significato letterale - insetto - e quello figurato - errore, difetto); ma non è solo questo: è la stessa ambiguità della storia che conduce lo spettatore stesso a vagliare più versioni della storia, fintanto che non riuscirà più a distinguerle.

Non si può parlare di questo film senza mettere in evidenza il grande mestiere che si annida nella sceneggiatura, nella caratterizzazione forte e tuttavia semplice (e perciò particolarmente efficace) di ogni suo personaggio. Il crescendo è mirabile, il tocco dietro la camera è netto.
Nonostante non si faccia che parlare per tutto il tempo in uno stesso luogo (la stanza del motel in questione; ma si potrebbe ugualmente parlare di un palcoscenico di teatro) non c'è una sensazione monotonia, di prolissità, perché il film non è solo quello che succede ma è anche se non soprattutto quello che lo spettatore pensa stia succedendo (interattività); perché la tecnica è di primo livello - le allucinazioni, i suoni, i cambi di registro offrono una gamma di percezioni inerenti al sottotesto ed il montaggio cuce tutto alla grande; e perché la recitazione è straordinaria.

In tal senso i personaggi sono resi estremamente bene, e le due interpretazioni di Ashley Judd e Michael Shannon (che ha più recentemente ottenuto la notorietà che merita nel crime drama "Boardwalk Empire") valgono molto di più di quanto lo scarso successo di questa pellicola possa suggerire.
Man mano che si procede, la paranoia aumenta fino alle soglie della psicopatia e poi le supera abbondantemente, raggiungendo un apice di tutto rispetto.

Dietro la cinepresa, il vecchio Friedkin, (quello de "L'esorcista") che non si smentisce e anzi migliora col passare del tempo, ritorna sulla scena del delitto, al suo genere preferito (thriller-horror vagamente inquietanti...) dando prova di conoscere meglio di chiunque altro la mente del suo spettatore, e di saperci giocare come pochi, dando vita ad un'enigmatica e suggestiva piccola perla ingiustamente snobbata.
Consigliato.


Scena scelta






Hesher


51 - Hesher è stato qui (novembre 2012)



Un dramma coinvolge la piccola unità famigliare di T.J. A sottolinearlo sono il suo sguardo inquieto, lo stato semi-vegetativo del padre e un'auto ridotta ad un rottame.
Il piccolo e cupo spaccato della vita del bambino produce immediatamente la sensazione di un'"intrusione" in un ambiente protetto, dolorosamente sottratto alla realtà del mondo che lo circonda. Talmente surreale è la circostanza che quando il singolare Hesher (un sempre più versatile e brillante J. Gordon-Levitt, che sveste i panni della commedia pura per abbracciare quella dai risvolti drammatici già con il recente "50 e 50") fa "irruzione" in casa del bambino e vi si stabilisce, sotto allo sguardo abulico del padre, la situazione sembra procedere senza sentirsi in dovere di spiegare almeno in parte la più totale assenza di incredulità da parte dei suoi protagonisti.

Partendo da una vicenda serissima, il film si ritrova così ad eviscerarne i contenuti un po' alla volta ma quasi controvoglia; o meglio attraverso un modo tutto proprio di concepire l'uomo con se stesso e con gli altri. Quasi come una rivoluzione interiore che si estendesse alla tecnica narrativa.
Così l'assurdo, il grottesco ed il surreale, usati come enorme cassa di risonanza per enfatizzare la metafora della morte, sono allo stesso tempo gli strumenti messi a disposizione di chiunque si trovi nella necessità di farci i conti.

Il modo in cui il lutto e la sua elaborazione vengono gradualmente gestiti in una sceneggiatura non particolarmente dotata di contegno o buon senso merita comunque un sincero apprezzamento per come la situazione viene affrontata (e non schivata, come si potrebbe pensare) attraverso la sdrammatizzazione e la black comedy.
Alla larga comunque dalle più argute e parecchio più audaci commedie dark di matrice britannica, l'impatto che questo film vuole ottenere è completamente personale.
E come tale potrebbe alleggerire l'anima dello spettatore o renderla particolarmente grave.

Ma questo è un film sulle relazioni che le persone hanno, sull'ineluttabile imprevedibilità della vita, ed infine su ciò che in seguito al sommarsi delle precedenti due cose riesce alla fine a determinare in noi una nuova coscienza, fino ad un dato momento a noi nascosta. Sull'aprire gli occhi e sull'illusione; sui tradimenti, a volte.
Ma con la consapevolezza, alla fine, che ci sono cose importanti che non riusciamo a vedere finché non le perdiamo, e che i veri nemici sono proprio quell'immobilismo, quel piangersi addosso che si possono sconfiggere solo attraverso l'azione, anche quando comporta la follia (come ad esempio l'omaggiare con un eccentrico elogio funebre un caro appena estinto).

Buoni sentimenti e lieto fine (che qui non vedrete) a parte, però, la cosa importante è che film come questi trovino finalmente una propria dimensione e un modo di raccontare storie su argomenti non facili senza dover per forza suonare falsi.
Perché l'arte può e deve mantenere una sincerità di fondo, soprattutto quando la posta in gioco si fa pesante, e la riflessione ci riguarda tutti.


Scena scelta





mercoledì 24 ottobre 2012

Una rilettura psicologica di Willard


50 - Willard il paranoico (ottobre 2012)



Willard vive una vita frustrata, costretto a badare all'anziana madre dai modi non proprio teneri ed orfano del padre che gli ha lasciato la casa in cui vive ed un posto (triste) nell'azienda da lui fondata, molti anni prima, ed ora gestita da un individuo abietto e meschino (il solito, quasi autocelebrativo R. Lee Ermey) che si prende gioco e profitto di lui e delle sue sventure.

E' l'abitazione, sinistra e dalle sfumature gotiche, ad assurgere al ruolo materno per Willard; rappresenta quella natura protettiva mancante da parte della genitrice e allo stesso tempo l'unico vero legame che gli resta con il compianto padre.
E' qui, più precisamente nel vecchio scantinato, che Willard farà l'incontro con topi e ratti, e dal tentativo di combatterli sorgerà invece una grottesca ed improbabile alleanza, per vendicare i torti subiti.

Remake dell'horror anni '70 "Willard e i topi", questo film porta un contributo più che sufficiente al genere che intende omaggiare (ed attualizzare).
Per quanto la trama non sia esattamente delle più sottili ed originali (ma d'altra parte è un remake), e i ritmi siano tutt'altro che forsennati, va però detto che la ricostruzione di scena, i colori scuri della fotografia, le musiche simil-dark e la compostezza stilistica della regia sono decisamente funzionali allo sviluppo di un soggetto che in mani diverse potrebbe rischiare di risolversi nel comico involontario.

Invece i silenzi ragionati e la notevole espressività di Crispin Glover donano al film una dimensione più grande. La personalità del protagonista, fortemente caricaturata, è frutto di un'introspezione psicologica ottimamente riuscita, tutta basata sull'esasperazione dei conflitti irrisolti, degli insuccessi e della vacuità degli appigli a cui Willard si aggrappa (la tenera amicizia che nasce con il topo) per ridurre al minimo la sua infelicità.
Attraverso un climax inevitabile, la vendetta sarà terribile, ma non priva di conseguenze ed inevitabili riflessioni finali sulla follia che molto deve alla letteratura dell'orrore principalmente esposta da Poe e Lovecraft.

Se infatti è innegabile che i roditori che accompagnano Willard si guadagnino l'attenzione dello spettatore, il vero viaggio - quello all'interno della mente di Willard - avviene ad un livello più occulto e fa leva su quelli che sono gli elementi nativi e primigeni della narrativa popolare di genere.
Perché, agli occhi è concesso di abituarsi alle peggiori e nefande visioni, ma ciò con cui la mente, nella sua infinita ed inesplorata vastità, può venire ad interagire conduce all'abisso in cui ciascuno di noi è, singolarmente, destinato a smarrirsi, risvegliando echi del passato di cui non si aveva percezione.


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domenica 16 settembre 2012

Il mondo attraverso gli occhi di Greenberg


49 - Lo stravagante mondo di Greenberg (settembre 2012)



Roger Greenberg (Ben Stiller) è appena uscito da un ospedale psichiatrico, quando il fratello e la famiglia si concedono una vacanza in Vietnam. L'impellenza di pensare alla bella casa e di badare al cane Mahler diventa così l'occasione per lui di dimostrare che è di nuovo pronto ad assumersi responsabilità, che può ancora esibire qualche utilità nel mondo reale.
Nel farlo, s'imbatte nella deliziosa Florence (Greta Gerwig), l'assistente personale della famiglia Greenberg, la quale, solerte ed amorevole, comincia con lui un complicato rapporto fondato su un'intesa reciproca tanto intensa quanto indefinibile.

Stiller presta il suo talento comico ad un ruolo che di comico non ha (se non per vie traverse) davvero nulla. Tuttavia, la potente latenza ironica di un personaggio definito "incapace di ridere di se stesso" emerge in sottofondo, silenziosamente insinuandosi e contrastando con ferocia il contegno simil-drammatico che l'attore tenta di darsi, innescando un'alchimia che funziona.
Mentre il suo personaggio è completamente fuori dagli schemi, instabile, ai limiti della follia, a fare da deciso contraltare è la Gerwig, che con grande capacità e naturalezza fa di Florence una persona fin troppo "raggiungibile", umana, ingenua, cosicché è semplice entrare in contatto con lei, comprenderne le emozioni.

La distanza che esiste nella realtà fra i due è elusa sia dalla percezione che uno ha dell'altra sia dall'idea, non proprio comune, che ognuno dei due ha della normalità; ma anche dalla fisicità stessa (il contatto fisico è facilmente accessibile, il substrato emotivo che comporta molto meno) a cui supporto si instaura una sincerità molto forte, che trova grande rappresentazione nella scelta durante i momenti chiave dei dialoghi, diretti e spontanei. Le stesse sequenze, pur caricate in parte di tutta la "stravaganza" di cui questo film è portatore, sono arditamente costruite all'insegna di una banalizzazione che finisce per sottrarre alla vista e al pensiero ciò che invece viene insinuato nel sottotesto.

Pur non potendosi certo definire una commedia romantica (e nemmeno una commedia, a parer mio), è però il rapporto con Florence quello che meglio definisce l'analisi del protagonista, il quale pur imperversando fra comparsate e reunion con vecchi amici, ricordi di giovinezza ed incursioni nei rimpianti dei propri fallimenti, non riesce ad evitare ciò che vorrebbe evitare, compiendo (forse) un primo passo verso la sua matura e tardiva formazione.
Si riescono ad avvertire note di grande dolcezza ed empatia nei confronti di questa pellicola, ma se la sensibilità ed il tocco delicato della regia di Baumbach sono magnetici ed assolutamente riconoscibili (il che va a merito del film) non sempre l'effetto spiazzante riesce ad andare a segno senza risultare fine a se stesso; non di meno, trattasi di un lungometraggio che non potrà che accontentare i fedeli sostenitori del genere. Un'opera che pur senza dirsi eccezionale arriva al traguardo: ha uno script interessante, si fa apprezzare, non è boriosa e non è un'altra di quelle commedie che pretende di ricavare un insegnamento per ognuno di noi dalla vita incasinata di uno dei protagonisti.

"Stravagante", è l'aggettivo che meglio si addice al microcosmo del protagonista, nonché al film stesso (sebbene il titolo originale manchi di questo cenno, ed evidentemente un motivo c'era); e nonostante ciò sia la dimostrazione, al solito, di come lo spettatore italiano si ritrovi ad essere continuamente imbeccato (ed imboccato) dalla critica nell'esplorazione cinematografica di quei film apparentemente distanti da un punto di vista culturale, non potrà però mancare di riconoscere in se stesso il bisogno di smarrirsi fino in fondo nei meandri dell'originale ambiguità di questo copione, vero punto di forza di un Noah Baumbach che ne è anche il regista.

Baumbach rimane fedele alla propria linea di pensiero, la corrente ideologica che lo spinse a girare (e a scrivere) l'ottimo (ma mai troppo citato) Il calamaro e la balena e il non-disconoscimento di quella sua forte appartenenza alla scuola dei grandi scrittori di pellicole indipendenti di cui è, ormai, uno dei massimi esponenti è ciò che ne rafforza il fascino, che ne avvalora, agli occhi di un ammiratore, la creatività.
Baumbach non scrive esplicitamente per intrattenere, né per far ridere o per stupire, ma inevitabilmente finisce per farlo. Ciò che viene osservato attraverso la sua personale lente è un mondo stracolmo di cose incomprensibili, un caos immane che disorienta, allontana ed intimorisce. E sono proprio i suoi personaggi, che molto hanno di autobiografico, ad incidere; perché la riflessione stessa è parte dell'esperienza e sorriderne, sebbene ci si arrivi attraverso strade del tutto contingenti o poco ortodosse, aiuta a dipingere un quadro generale in cui si può semplicemente tirare una riga e prendere coscienza della nostra (av)versione del mondo e di come imparare a farci i conti.

Da qui il sottofondo agrodolce comune ai suoi film del vuoto esistenziale, che può essere ingenerato da un dramma famigliare (il divorzio dei genitori) o dalla piega inaspettata della propria vita (la perdita di vista del significato, lo sgretolamento del sogno e la transizione verso l'età adulta, le aspettative, il realismo) che rappresenta sempre il punto di partenza ideale per raccontare del genus dell'evasione dalla realtà in un disperato tentativo di richiamare a sé qualche certezza, qualche garanzia di non mandare tutto all'aria.
Che sia il fingersi chi non si è, che sia l'isolamento o il rifuggire ogni genere di responsabilità, l'illusione porta con sé l'enorme fardello di una felicità utopistica, ma soprattutto l'assillante dubbio del cosa fare quando (e se) si presenta l'occasione di trasformarla in felicità reale.


Scena scelta




 



lunedì 5 marzo 2012

Drive, una mente complessa nella complessità moderna


48 - Drive (marzo 2012)



Il protagonista di questo film è un tipo solitario, taciturno, schivo. Al punto che di lui non sapremo nemmeno il nome, ma solo che si tratta di un driver, un pilota che si guadagna da vivere fornendo i suoi servigi al volante di una qualunque auto, senza badare troppo alla legalità o alla dignità del lavoro.

Ambientato nella suggestiva città degli angeli, delle cui luci sono inondate le riprese notturne che accompagnano il viaggio silenzioso lungo le strade metropolitane, questo Driver si fa notare poco per volta, non lesinando anche una serie di lungaggini manieristiche peraltro gradevoli, per poi esplodere in un vortice di violenza (e di clichè).

E' un film caratterizzato dai forti contrasti, condizionato pesantemente dal timbro del suo regista, che fa seguire ai ritmi molto cadenzati di partenza accelerate improvvise e che alterna scene di assoluta delicatezza ad altre di cui la violenza è solamente la rappresentazione visiva più immediata di un contesto genericamente più drammatico. E' anche un film di poche parole, letteralmente, dove ciò che non viene espressamente mostrato fa il paio con i lunghi silenzi espressivi e il non-detto diventa il miglior complice all'interno di un'opera che non vuole offrire risposte, ma le cui domande si prestano volutamente a più interpretazioni. Così lo spettatore diventa una parte integrante dell'equazione e non un semplice voyeur.

N. Winding Refn, che già ci aveva abituati alla sua schizofrenia stilistica dietro la macchina da presa con Bronson, prende spunto dal romanzo di Sallis per raccontare una storia di ordinaria criminalità che non fornisce di per sé appigli particolarmente nuovi al cinema (anzi), ma lo riveste del suo stile certamente intrigante ed usa gli strumenti a sua disposizione per raffigurare in Ryan Goslin (un'interpretazione abbondantemente sopra la sua media, la sua) il volto emblematico dell'alienazione e della solitudine, che non potrebbe trovare miglior espressione se non nell'immagine dell'uomo, singolo e sperduto, in una delle città più grandi e popolose al mondo.

Per farlo, Refn richiama a sé tutti i cenni, fin troppo ovvi, ad un capolavoro del genere, ovvero quel Taxi Driver il cui parallelismo è riscontrabile non solamente nella caratterizzazione del protagonista o nella violenza scaturente dalle vicende in cui è coinvolto ma anche nel sottotesto, nell'introspezione psicologica che tenta di mettere a nudo il dramma. E se Travis Bickle veniva travolto dalla propria follia mentale nel tentativo di districare la matassa del degrado a cui assisteva impotente e diventare eroe, qui il driver è una mente molto più lucida e fredda che si troverà suo malgrado a dover prendere forse per la prima volta una decisione che sarà la sola che realmente potrà prendere, traducendosi in un Real hero, un eroe reale dei giorni nostri.
L'uomo identificato nel tutt'uno con il mezzo (in questo caso un veicolo) diventa dimostrazione dell'incapacità di adattarsi alla necessità di legami personali e allo stesso tempo ne è strumento di indagine e di risoluzione.

Andando oltre quelle che sono le atmosfere - comunque validissime, consacrate da una colonna sonora piuttosto adatta e ben riuscita, caratterizzata dai suoni artefatti dei synth e sonorità in linea con quello che è il minimalismo visivo - di questo film non si può non apprezzare la regia non convenzionale di Refn (premiata a Cannes), capace di calarsi con indifferente naturalezza sia nella sinteticità dei silenzi che nell'impeto dell'azione e la cui verve creativa trova molta libertà: dalla scelta delle inquadrature all'assemblaggio di alcune sequenze particolarmente efficaci ed artisticamente degne di nota, dalla scommessa interpretativa su cui incardina buona parte del suo lavoro (la monoespressività di Gosling è più funzionale di quanto si pensasse) alla polivalenza concettuale del finale.

Il risultato è qualcosa di non trascendentale e forse con il sapore di scopiazzatura, d'accordo, ma dietro all'attenzione per la storia c'è un modo tutto personale di raccontarla che la rende a suo modo diversa e quindi interessante. Refn scongiura il pericolo di enfasi (visto il genere) e di logorrea spingendo forte sul tasto opposto e mettendo lo spettatore nella posizione di intuire e di interpretare. Parte del merito va ovviamente a Gosling, ma senza dimenticare una Carey Mulligan ridotta al minimo sindacale e i bravi attori di nicchia come Bryan Cranston, Ron Perlman e ovviamente quello stesso Albert Brooks che 36 anni orsono recitava proprio in Taxi Driver.
Sembra passata un'eternità, eppure le storie che ci rappresentano e che ci coinvolgono finiscono per rimanere sempre le stesse, come le canzoni.


Scena scelta









mercoledì 29 febbraio 2012

Frozen River, un punto di contatto


47 - Frozen River (febbraio 2012)



Ray (Melissa Leo) è madre di due figli, ma è anche una donna sola, costretta a trovare il denaro per mandare avanti la famiglia e pagare una nuova casa. Il marito, fervente giocatore d'azzardo, li ha derubati e abbandonati. Alla lunga, i conti da pagare aumentano e le poche soddisfazioni che l'onestà lavorativa le concede la spingono, inconsapevolmente, in una serie di eventi attraverso cui conoscerà Lila, non meno sola e non meno madre di lei, appartenente alla comunità dei Mohawk, e che si guadagna da vivere grazie a quel fiume ghiacciato: il St. Lawrence d'inverno, che delimitando la frontiera fra Canada e lo stato di New York, diventa una strada ai limiti della praticabilità per trasportare clandestini da una parte all'altra.

Le asperità con cui devono entrambe fare i conti sono immediatamente alluse attraverso lo sguardo delle glaciali ed inospitali lande nelle quali questa storia è ambientata; dove lo stesso fiume, nonostante sia simbolo di precarietà, rappresenta anche, nelle rispettive proporzioni, la possibilità per entrambe più concreta di ottenere una parvenza di normalità.
Come è nella natura dualistica delle cose, alla tensione che le accompagna in ogni "attraversamento", per ciò che implica (e che fa di questo film un thriller), si contrappone il legame empatico dettato dall'estrema somiglianza delle due situazioni.

Premiato col Gran Premio della Giuria al Sundance e con due Independent Spirit Awards, questo film prende le mosse dal sottobosco indipendente americano, capace ormai da qualche anno di sfornare in sordina lavori importanti, ognuno improntato al realismo portato alle sue estreme conseguenze per esigenze di fiction ma mirato ad illustrare condizioni spesso lontane dai riflettori del cinema statunitense.
Lo stile visivo-realizzativo è, non solo incidentale, ma direttamente traslato dalla realtà raccontata.
Così il minimalismo sottende la povertà, i grandi spazi inabitati la solitudine e via dicendo; mentre la mente richiama Fargo - archetipo del noir che si serve della sua rappresentazione visiva per raggiungere con essa una simbiosi - la strada ghiacciata unisce due punti sulla cartina, ma contiene anche un significato allegorico in grado di far riflettere sulla comunanza dei bisogni e dei desideri, trascendendo le diversità etniche, linguistiche, culturali.

Un thriller in piena regola, permeato dal dramma dello spaccato di vita che ha ad oggetto. Ha il merito di prendere molto poco e restituire intensità ed onestà allo spettatore.
Melissa Leo, premiata dalla Film Independent come miglior attrice, ricevette molti consensi dalla critica per questa sua interpretazione, nel complesso molto credibile.
Tarantino lo definì il "più emozionante thriller dell'anno".
Di certo offre un punto di vista particolare. E alla luce del rischio, oggi sempre più accentuato, di smarrirsi nel mare magnum della mediocrità che caratterizza certe sceneggiature, è difficile non apprezzare tentativi come questo. Dove "semplice" non diventa sinonimo di "insulso".









domenica 26 febbraio 2012

The tree of life, il mistero della vita secondo Malick


46 - The tree of life (febbraio 2012)



A sei anni di distanza dal suo ultimo lavoro - Il nuovo mondo - Malick torna ad appassionare il suo pubblico con The tree of life, ennesimo, sublime, esercizio di stile del regista texano che ci ha abituati negli anni allo strapotere delle immagini dei suoi film, quasi rendendoci dipendenti e succubi, persino in soggezione rispetto all'infinitezza dei mondi da lui ricreati, nei quali a volte ci sorprendiamo a perderci e a volte ritroviamo noi stessi.
Malick è esattamente questo: è il mortale che si lega all'immortale, l'abile alchimia capace di rendere indistinguibili la poesia della narrazione e l'esplorazione dell'ignoto.

In questo film, che è forse il suo più ambizioso, ritroviamo una storyline piuttosto semplice, netta, banale nella sua straordinarietà: quello del genitore che sopravvive al proprio figlio non è certo un soggetto inedito ma è, tuttavia, qualcosa di molto personale e quindi rispetto alla versatilità del messaggio che se ne vuole trarre parecchio audace, di per sé; e Malick non si accontenta certamente di raccontare, è un virtuoso: a lui piace addentrarsi, giocare, entrare nel vivo, anche dilungarsi. A questo va ad aggiungersi una complessità di linguaggio e una ricerca laboriosa quanto appagante del significato tale da rivestire la sua opera di un fascino raro.

La prospettiva principale è quella di Jack, la sua evoluzione in una famiglia rigorosamente cattolica degli anni '50 e del contrasto interiore fra la Natura, espressa dal padre autoritario ed intransigente e la Grazia, rappresentata dalla madre devota a Dio, pura e amorevole; ciò ne agiterà lo stato d'animo, rendendolo ansioso di dare un senso al risultato di quel conflitto e di conseguenza alla sua vita.
Il senso della vita diventa allora l'oggetto dell'indagine dal punto di vista del microcosmo del nucleo famigliare e dell'individuo in contrapposizione con il macrocosmo dell'universo, del Tutto; la comprensione dell'esperienza umana muove dal passato, dal big bang in poi, e su questo si calca la mano mentre sul piano strettamente più immediato si sprecano le citazioni bibliche e si fa largo uso del simbolismo religioso e dell'approccio spirituale.
Dal punto di vista concettuale, i parallelismi ed i rimandi sono tanto incisivi e notevoli che salta immediatamente alla mente il capolavoro di Kubrick 2001: Odissea nello spazio, citato anche da parte della critica e senza dubbio suggeritore ed ispiratore di alcune delle sequenze visionarie più memorabili, nel loro avvilupparsi con il sottofondo delle musiche (incredibili, anch'esse) di Desplat.

Mentre si dipana la storia della famiglia, di cui quell'albero che cresce in giardino è simbolo (biblico, letterario, terreno ed ultraterreno) e costruzione, siamo trascinati, su un livello differente pur se adiacente, nel climax della rappresentazione della creazione dell'universo, e poi ancora su quello di una realtà parallela che vede Jack adulto, eterea ed irreale.
La sovrapposizione ideologica si combina con quella visiva delle immagini, nitide e veramente fantastiche.
L'imperfezione raffigurata nel dilemma insolubile dell'impurità delle radici (il metaforico albero), che potremmo sintetizzare anche con il detto "le colpe dei padri ricadono sui figli", prende il sopravvento su qualunque velleità di scoprire realmente chi siamo e da dove veniamo.

Gli input sono talmente numerosi e a loro volta capaci di reindirizzare a livello interpretativo ad altrettante soluzioni che si finisce per smarrire quelle poche certezze che invece il film si prodiga a darci per tessere la trama e non perdersi nella vacuità di ciò che intende rappresentare.
Così, ne esce qualcosa di non facile assimilazione, ma di universale ed esteticamente impagabile: sul piano visivo, Malick dà il meglio di sé, aiutato dalla fotografia eccelsa di Lubezki, frutto di febbrili sperimentazioni, e dalle inquadrature sempre così azzeccate in ragione di una spontaneità ossessiva che accompagna a livello stilistico Malick da sempre.
La naturalezza di certe sequenze, a livello scenico - si pensi ad esempio al mancato sfruttamento delle luci di scena, sostituite dalla luce naturale che viene raccolta e profusa grazie ad accorgimenti scenografici e alla sottolineatura cromatica - la si ritrova anche nelle espressività degli attori, nella sorpresa che coglie l'occhio, nella ricerca paziente di simbiosi fra la vita umana e la vita di ciò che la ospita.

Il risultato finale è un'opera straordinariamente potente, colma di significati e che racchiude in sé un potenziale anche maggiore, e non potrebbe essere altrimenti, avendo avuto l'"impertinenza" di riunire elementi filosoficamente e contenutisticamente complessivi, ma anche molto antitetici, dell'esperienza e del pensiero umano, pur restituendo comunque un'impronta specifica, più spirituale, facile imprimatur riconoscibile e per altro già enuncleato nell'incipit della voce fuoricampo all'inizio del film, che preclude già alla difettosità dell'umano sapere ciò che invece è consentito all'onniscienza perseguibile attraverso la virtù.

Una volta tirate le somme, individuati i paragoni con le opere precedenti del regista - e naturalmente anche con quelle di altri - quel che rimane è una matassa di sensazioni non troppo dissimile a quella di un universo, in costante espansione, che ci risucchia in sé e nel quale, come ci ricorda questo The tree of life possiamo solo tentare di abbozzare un riscontro del tutto personale e soggettivo se davvero vogliamo avvicinarci alla verità.


Scena scelta








venerdì 24 febbraio 2012

Payne torna con 'The Descendants', ci era mancato


45 - The Descendants - Paradiso Amaro (febbraio 2012)



Elizabeth King è una donna sposata, ha due figlie, conduce una vita agiata ed avventurosa nell'isola di Kaua'i (Hawaii), un posto incantevole, un paradiso.
Un giorno, mentre partecipa ad una gara in barca, ha un incidente ed entra in coma. Il marito, Matt (George Clooney), cerca di raccogliere i pezzi, ma la cosa non si dimostra facile per lui che è spesso lontano da casa, dalla sua famiglia, praticamente un estraneo in terra propria.
I suoi avi hanno lasciato a lui, e agli altri cugini eredi (descendants), vastissimi appezzamenti dell'isola, ma ora si rende necessario vendere in fretta o rischieranno di perderla.

Mentre quindi si avvicina per Matt il momento di prendere una decisione, è l'incombenza del dramma famigliare ad offrirgli importanti spunti di riflessione e l'occasione di fare il punto sulla sua vita, di fermarsi per un attimo e fare un bilancio.
Come in Little Miss Sunshine, l'unione, anche forzata, della famiglia diventa una reazione simbolica alle sferzate impresse dalla malasorte su una base già traballante. Più ci si spinge a raschiare e più i segreti nascosti in profondità vengono a galla, riportando alla mente, come puntualmente ci chiarisce il monologo d'apertura, che nonostante l'umana idealizzazione del paradiso, nessun luogo sulla Terra è vagamente immune dai problemi; che, in altre parole, la perfezione non esiste.
Partendo da questo presupposto che è una vera dichiarazione distensiva, di semplicità e di normalità, il film si sdoppia, mostrandoci una doppia anima: quella pura e intonsa rappresentata dalle scenografie patinate e dalle locations hawaiiane e quella mortale, terrena, della complessità tragicomica della vita dei suoi protagonisti, sempre pronti a vestire di ironia le situazioni di conflittualità.

Non è nuovo per Payne lo spunto della ricerca interiore così come non lo è il pretesto del lutto, usato con grande naturalezza dal regista (vedi A proposito di Schmidt) a fungere da valvola di sfogo, e a liberare le emozioni con energia in un vortice misto di dramma e di humour, ragionevolmente dosati con equilibrio lungo il film, diretto ancora una volta egregiamente (ma non può più essere una sorpresa per nessuno).
Anche se il rischio dell'insopportabile morale è dietro l'angolo, e qualche espediente può essere più di intoppo che di utilità, il film ha il grande merito di risultare scorrevole e gradevole nonostante l'indubbia gravità degli argomenti trattati, anche perché Payne costruisce, in chiaroscuro, tutto quanto attorno a quel concetto di paradiso con cui gioca sin dai titoli di apertura e lo suggella come metafora, se ne serve per ribadire il bisogno di capire qual è il proprio posto, di sentirsi a casa: il senso di appartenenza realizzato grazie all'esplorazione interiore di sé.
Le radici che ci mantengono al sicuro, quando sembriamo pensare che la sola risposta sia fuggire.

Si conferma il grande amore per il gusto del racconto dell'autore, ma a sedimentarsi è anche se non soprattutto la delineazione dei suoi personaggi, tutti così immediatamente interessanti, autoironici, divertenti od eccentrici, segnati da una profondità quasi letteraria ma al tempo stesso figli di una mente che ha sempre come epicentro le esperienze comuni della vita. Non a caso i suoi personaggi sono estremamente realistici, spesso affrontano crisi esistenziali, sono afflitti dai problemi che tutti conosciamo e cercano di uscirne con la stessa genuinità.
Gli stilemi sono perciò anche qui quelli classici della commedia indipendente, caratterizzata dai toni drammatici mitigati da una leggerezza di fondo, uno humour talvolta anche caustico, ma mai banale.

Il fatto che si tratti di una storia tutto sommato abbastanza semplice non significa che sia arida dal punto di vista concettuale, e se la sceneggiatura (in candidatura), per quanto non si basi su intuizioni particolarmente geniali od originali, è il piatto forte di questo film davvero molto ben riuscito, non sono da meno da un lato l'interpretazione degli attori e dall'altro la ricreazione delle atmosfere, sia visive che sonore.
L'impatto di questa combinazione riesce ad essere tremendamente efficace, e mentre Payne pianifica le fermate e pondera il tragitto da seguire, lascia alle scenografie, alle musiche, alla liricità e all'esplosività dei dialoghi convincenti gran parte della ragione per cui vale, in sostanza, la pena di vedere questo film.
Ad arricchire il contesto funzionante di attori (dalla sorprendente Shailene Woodley, ai Robert Forster, Judy Greer e Beau Bridges) ci pensa paradossalmente un Clooney che fa di tutto per allontanarsi dal concetto di attore; è ordinato, funzionale, mai ingombrante, cioè perfetto. Un'interpretazione stranamente tenuta in gran conto anche dalle platee più in linea con altri canoni di cinema.

E se questo film trova un grande riscontro da parte della critica (fra cui si aggiunge quella dei Globes, che ne hanno premiato film ed interpretazione maschile), se il pubblico non ha potuto fare a meno di affezionarsi ad esso, si tende a pensare che un motivo, in fondo, ci sia.
5 le nominations (film, regia, attore, sceneggiatura, montaggio) che non sono solamente la prova di un lavoro ben fatto, ma anche la conferma che l'Academy si stia progressivamente disponendo anche verso un certo genere di pellicole che in effetti meriterebbero più attenzione.
Perché, una volta aperta la mente, è difficile tornare indietro, soprattutto se hai conosciuto il cinema di Payne.


Scena scelta







giovedì 23 febbraio 2012

The Help, un affresco storico e sociale


44 - The Help (febbraio 2012)



Jackson, Mississippi, anni '60.
Aibileen Clark, aiutante domestica, viene intervistata per conto di "Skeeter" Phelan, aspirante giornalista-romanziera che in attesa di scrivere qualcosa di significativo si è procurata un lavoro di poco conto nel giornale della ridente cittadina. Nera la prima, bianca la seconda.
Il film si apre così, già tracciando e proiettando su di sé con questo simbolismo quella che sarà la ricorrente tematica della distanza e di quella barriera invisibile fra le razze, in uno degli Stati del profondo sud d'America più conservatori ed ostili all'accettazione dell'uguaglianza etnica.

Il paese intero è come assopito, asservito ad un codice di regole non scritte che fa capo al costume imposto tempo prima dai bianchi e ricchi coloni, perpetrato per molti anni e praticato ormai per osmosi.
Nella ricostruzione storica, si evidenziano in rassegna i grandi accadimenti che segnarono la lotta per i diritti civili, da Medgar Evers (un ragazzo proprio del Mississippi) a JFK e Marthin Luther King; ma è un sottofondo silenzioso, perché la t.v., i giornali, e in generale quello che accade nel mondo non sembra reale, non lo è perché il rigorismo estremista su cui è fondato l'interesse a mantenere lo status quo poggia su antiche e robuste radici.

In un regime fondato sull'odio, sulla paura, sulla legalizzazione della prevaricazione, è proprio la resistenza alla rassegnazione a porre le premesse per un cambiamento, che certamente non può essere materiale, concreto, ma in "The Help", libro che verrà scritto da Skeeter con l'intenzione di raccogliere le testimonianze di tutte le domestiche della città, si scorgeranno le prime parvenze di un risveglio delle coscienze teso ad ottenere la restituzione di quella dignità negata.
E se l'inganno e la mistificazione sono le armi più efficaci per mantenere il divario con la servitù, allora sarà solo attraverso la ricalcatura e la parificazione anche in questo aspetto, che sarà possibile smuovere le cose.

In questo film tutto al femminile, nel quale le figure maschili compaiono solo per ricordarci che sono le donne le assolute protagoniste, sia che tengano le redini del matrimonio sfornando bambini e assumendo aiutanti, sia che siano in prima linea contro la disuguaglianza e la discriminazione qualunque sia il colore della loro pelle, spicca anche una bella caratterizzazione della comunità, nella quale sono, giocoforza, i ceti della scala sociale ad essere al centro delle dinamiche più coinvolgenti.
E se sono i titoli, i possedimenti, le appartenenze e le apparenze ad innescare il circolo vizioso nel quale si radica l'ipocrisia di una società che prende come garantiti determinati valori, sono poi, invece, gli affetti e le cure delle derelitte aiutanti ad insegnare il contrario.

E' questa matassa fatta di sentimenti contrastanti, di credenze che si contraddicono, di un'illogicità morbosa e tollerata a fare presa, a prescindere dalla reale capacità di capirlo e di combatterlo, proprio come naturale è la codardia e commendevole il coraggio.
Solo quando il secondo si ribella al primo, solo quando si capisce che si ha tutto da perdere ma anche tutto da guadagnare, il passaggio viene completato.

Sarà Skeeter ad iniziare questa "crociata", anche se non pienamente consapevole, perché fisiologicamente incapace di comprendere l'altrui mondo, e viceversa.
Si avvertirà sempre la deferenza dei neri nei confronti dei bianchi, e simmetricamente se non il sussiego, perlomeno l'incapacità di vestire pienamente i panni dell'altro da parte dei bianchi; solamente l'estraneità dal contesto modificherà questa prospettiva: in Miss Stein, che tenterà di sfruttare il momento storico per averne un ritorno editoriale, o in Miss Foote, chiaramente un pesce fuor d'acqua.
E ovviamente nella stessa Skeeter, corteggiata dal "gruppo" per via della sua discendenza privilegiata, ma restia ad abbracciarne la forma mentis.

Film sincero e accorato, ennesimo manifesto dell'antirazzismo, trasposto dal romanzo omonimo di Kathryn Stockett (sceneggiatura non originale). Una storia a tratti vibrante, di per sé drammatica perché evocativa di un periodo buio, ricreato ad arte con sapienza.
I sentimenti messi in gioco sono autentici, come lo è la prova delle sue attrici, su tutte l'eccezionale Viola Davis (destinata all'Oscar), ma anche la validissima Emma Stone e la non protagonista Octavia Spencer.
Impegnato, e già di per sé quindi rimarchevole, anche se nel suo genere si potrebbe definire un po' "infallibile", The Help è una continua provocazione nella sua graffiante messa alla berlina della superficialità e della mediocrità dell'etichetta, con la messinscena realistica e allo stesso tempo così fuori dal mondo atta a ribadire l'assurdità di certe situazioni viste con gli occhi di oggi; ma c'è anche un chiaro messaggio di speranza, che è conciliabile con l'adagio "il tempo è sempre galantuomo", e che risiede nella maturità delle coscienze dei posteri. Il tramite è qui la carta stampata, ricettacolo di segreti inconfessabili e simbolo di riscatto, conclusione ne è l'avallarsi di una morale forse non facile con cui interagire, ma fruttuosa.

Elegante, preciso, commovente, The Help trova nella storia e quindi nella sua componente più viscerale la sua più grande attrattiva, anche se non è da disdegnare certamente il lavoro sul piano scenico.
Ma è nell'incisività del racconto e dei suoi personaggi, così umani e quindi facilmente suscettibili di empatia, che lascia il segno; si può convenire che il suo punto forte sia indubbiamente la recitazione.
Difficile che l'Academy lo lasci a mani vuote. E se per film e regia i giochi sembrano già fatti, sarebbe il caso che alcune delle attrici di questo film venissero premiate.
Perché, francamente, senza di loro, parleremmo di altro.


Scena scelta








mercoledì 22 febbraio 2012

War Horse, la favola di Spielberg


43 - War Horse (febbraio 2012)



War Horse è la storia di un puledro, un mezzosangue. Un cavallo veloce, certo, ma non abbastanza robusto per trainare o essere d'aiuto nei lavori delle aperte campagne del Devonshire.
Siamo in Inghilterra, all'alba dello scoppio della prima guerra mondiale. Presto, Joey - così viene battezzato il cavallo dal fedele addestratore Albert Narracott - si troverà suo malgrado a fronteggiare il campo di battaglia, costretto a dire addio alle praterie nelle quali scorazzava libero, e si ritroverà al centro di una serie di vicissitudini attraverso le quali si compirà il suo destino. Diventerà un War Horse , cioè un cavallo da guerra.
Avrà diversi nomi e diversi padroni, ma la costante dell'orgoglio e della tenacia, doti inculcategli dal giovane Narracott, lo preserveranno dalla morte, addivenendo ad un lieto fine, francamente prevedibilissimo.

Nel tentativo di raccontare quest'avventura in formato famiglia abbastanza peculiare, segnata da una storia tragica ma allo stesso tempo favolistica, Spielberg confeziona un prodotto per la verità piatto, finendo per incarnare il tipico canovaccio americano, retto dalle illustrazioni archetipiche della fiera tradizione dell'eroe e inciampando nei soliti sensazionalismi maniacali che irrimediabilmente squarciano la realtà con punte di improbabile e di grottesco che alla fine liberano una risata involontaria.

Perché se è vero che gli spunti drammatici non mancano, non si può nemmeno pensare che sia per l'ennesima volta il magico e il sovannaturale, siano essi racchiusi in un cuore umano o animale, a mettere le cose a posto, a trarre d'impaccio dall'ineluttabile certezza della sofferenza.
Il film si regge per gran parte sull'austerità, sul penoso distacco del cavallo dal suo padrone, l'allontanamento necessario ad entrambi per fortificare l'amore dell'uno per l'altro, gli ostacoli escogitati per dare l'impressione che la notizia più lieta sia sempre più lontana.
Poi, mentre l'incubo più grande del lobotomizzato spettatore sembra sul punto di avverarsi, ecco che Spielberg fa una cosa deplorevole: esce dal film. Lo interrompe con la stravaganza e con l'assurdo. Lo fa nel tentativo di strappare un sorriso, di sdrammatizzare, di invitare a riflettere (tra virgolette). Ma il tentativo è goffo quanto è forzato, e la conclusione è che il meccanismo si inceppa.
E quale che sia l'intento, non si può fare a meno di storcere il naso per questa intrusione.

Viene meno il patriottismo (almeno quello) e la partigianeria spicciola (anche perché l'America non c'entra nulla); così la guerra può diventare una volta di più metafora e l'indomito cavallo che viene adoperato alla stregua di uno schiavo sopravvive oltre che per sé, anche per la speranza che la vita trionfi sulla morte. Tutti coloro che avranno il destino di trovarlo sulla propria strada, in un modo o nell'altro, gli rimarranno legati quasi che il suo essere speciale sia visibile solo a certuni.
Il tema della lotta, onnipresente, è terreno, ed è di questo mondo; ma al cavallo viene impressa una raffigurazione antropomorfa, come se egli fosse in grado di dimenticarsi che non è umano. Egli porta con sé l'anima del suo padrone, ed è questo ibrido che ne scaturisce a gettare su di lui un'aura protettiva, come un deus ex machina che il regista gli cala sopra in ogni momento di criticità, accompagnandolo per mano proprio come fa con lo spettatore.

I consueti valori del singolo, famiglia-patria-e-dio, messi alla prova in un contesto più grande, più doloroso come quello della guerra, non segnano una novità gran che sorprendente; se non che, il fango viene alzato pesantemente dagli zoccoli di un cavallo, fra le trincee. Animale che è cosa viva e furente, la bestia che per mettersi in salvo è costretta a sopportare le bestialità (naturalmente) degli uomini (più bestie della bestia medesima, c.v.d.).
Uomini che, però, riusciranno a smettere di trucidarsi e torneranno fratelli per un momento, accomunati dalla pietà.
In questo modo, Spielberg, dimostra di non interessarsi più di tanto alle vicende nelle quali suo malgrado Joey si imbatte, elevando invece il suo protagonista a Forrest Gump del regno equino, e costruendo tutto intorno uno scenario verosimile per corroborare questo suo arbitrio.

Spielberg è notevolissimo quando si tratta di raccontare storie, impossibile non trovare in parte avvincente anche questa, soprattutto perché anche senza scavare più di tanto nella psiche umana, si accontenta di cogliere nella superficie di ognuno dei suoi spettatori l'essenza dell'esistenza: la vita e la morte.
Per questo, la guerra forma l'oggetto delle sue attenzioni, all'interno vi ritroviamo tutti i temi più eviscerati di Spielberg: lotta, coraggio, fratellanza, spirito, umanità, crudeltà e debolezza, libertà, redenzione. E per questo la sua documentata e febbrile passione per la rilettura della storia lo portano ad essere appassionante anche qui, in alcune sequenze oggettivamente inattaccabili.
Ed è altresì indubbio che sul piano stilistico-formale il signor Spielberg sia effettivamente inappuntabile; le scenografie stupende, la fotografia sontuosa, le musiche del fido John Williams. Tecnicamente un film fatto benissimo, riscontri ce ne sono.
Ma può bastare?

Se si guarda indietro, ci si chiede oggi come mai il cinema stenti tanto a proporre idee nuove. Ma non è tanto l'idea, infatti, quanto il suo sviluppo a latitare, è l'obsolescenza di un certo insieme di valori che si riflette sul modo di fare cinema che inevitabilmente invalida la veridicità ed il bisogno di immedesimazione del pubblico.
Poi capita di imbattersi nell'ennesimo film didascalico, quasi da collezione Disney, e capita di scoprire che il suo realizzatore non è una persona qualunque.
E, beh, forse è proprio quando sono i grandi a scivolare, che i piccoli del proprio tempo non riescono a capire come stare in piedi...


Scena scelta







martedì 21 febbraio 2012

Un viaggio nel cinema: "Hugo"


42 - Hugo (febbraio 2012)



Un inedito Scorsese ci trascina pronti-via, con forza, in una stazione ferroviaria. Due sono i suoni che odiamo, in sottofondo: il sibilo dei treni a vapore che partono ed arrivano, e il ticchettio senza soluzione di continuità degli orologi.
Sono gli occhi di Hugo Cabret (Asa Butterfield) a rivelarci, con fare clandestino, il viavai di persone indaffarate, ignare della sua presenza e del fatto che sia lui, e non più lo zio Claude, ad occuparsi degli orologi.
Il padre, orologiaio, è morto lasciandogli in ricordo un vecchio taccuino e un automa, un uomo meccanico rinvenuto in un museo ma ormai da tempo senza vita.
Hugo cerca disperatamente di ripararlo, convinto che sia la chiave di un messaggio nascosto grazie al quale conoscerà finalmente le risposte alle sue domande.

Isabelle (Chloe Moretz), una ragazzina piena di immaginazione in cerca di un'avventura paragonabile a quella dei libri che le piacciono tanto, lo accompagna alla biblioteca del sig. Labisse; qui scoprirà che il minaccioso giocattolaio che lo ha sorpreso a rubare e gli ha sottratto il taccuino del padre non è semplicemente il padre adottivo di Isabelle, ma uno dei più grandi pionieri del cinema, che ha cancellato le sue tracce da molto tempo: nientemeno che George Méliès (lo straordinario, nonché usuale, Sir Ben Kingsley)
Il bambino, orfano e solo al mondo, troppo piccolo per conoscere altro che quello che gli è stato insegnato, fa della sua curiosità e della sua abilità gli strumenti per ridare ad un vecchio uomo, dimentico ed afflitto dalla forzata negazione di un passato che gli è stato portato via quella magia che pensava di aver perduto per sempre.

Scorsese fa largo uso della metafora rappresentata dagli onnipresenti orologi: il loro funzionamento dipende da automatismi e tante componenti meccaniche che lavorano assieme ed allora e solo allora sono in grado di dettare il tempo in maniera perfetta, riprendendo a fare ciò per cui sono stati creati. Allo stesso modo, George è costretto a sospendere le proprie emozioni, estromesso da un ingranaggio nel quale il suo genio fantasioso di illusionista non può trovare più posto; il tempo si ferma per un momento lunghissimo, e riprende a scorrere solo quando tutti i pezzi sono al loro posto.
Mentre, sul piano narrativo avviene questo, Scorsese si addentra, ad un livello ancora diverso, in un altro viaggio nel tempo: quello del cinema.
Ci si aspetterebbe che a parlare dei grandi della cinepresa, coloro da cui tutto cominciò, fossero i grandi prosecutori della loro opera. E allora chi, è più adatto di Scorsese, per raccontare quest'avvincente storia, omaggiante l'epoca dei primi vagiti del grande schermo? Il tempo in cui i primi proiezionisti cominciavano a rapire alle strade le folle curiose.
Quella che sembrava una moda, e poi divenne il cinema.

La cinepresa di questo film riprende un vecchio cineasta, felice all'inverosimile nel ripensare ai tempi in cui il cinema si fondeva alla magia e significava sperimentare continuamente, per stupire ogni volta di più, per meravigliare. Ma, dietro la cinepresa, si agita impetuoso il cuore di un altro uomo che non sogna di meno. Il risultato è una full immersion delle più avvolgenti atmosfere che, almeno il 2011 cinematografico, abbia saputo restituire all'occhio succube dello spettatore.

La fotografia di R. Richardson spicca, ma sono i costumi, le scenografie e la colonna sonora di Howard Shore a finalizzare il tuttuno concepito nella mente di Scorsese, e prima ancora di Brian Selznick (dal cui romanzo è trasposto Hugo).
E, come in un film Felliniano, veniamo piacevolmente sorpresi dalla girandola di personaggi che animano la stazione: dal poliziotto intransigente e alquanto grottesco (non a caso interpretato dal caratterista Baron Cohen), alla fioraia misericordiosa, all'anziana signora seduta sempre allo stesso posto.
Il tutto mentre i treni continuano a sbuffare, il tempo scorre ma tutto sembra sempre lo stesso. Proprio come in un incantesimo.
Lo stesso protagonista, Hugo Cabret, per il quale Scorsese attinge a piene mani dal romanzo picaresco, funge da pretesto per affrontare anche un'indagine del cinema dal punto di vista sociologico; a come le masse ne condizionarono il successo, a come le asperità sociali in generale rappresentino in senso figurato un punto di incontro verso i sogni: così, Hugo si farà strada attraverso un mondo ostile, che lo vuole in un orfanotrofio ed infelice, ma lotterà contro le insidie e solo sconfiggendole riuscirà a trovare la chiave per giungere al lieto fine, condensato nella riscoperta di se stesso da parte di Méliès e nella rivalutazione dell'opera del cinema.
E' dunque attraverso queste misure che siamo dirottati nel treno preso in avvio di film in direzione di altri binari, ormai in disuso, e che tuttavia lasciano intravedere all'orizzonte le manifestazioni visive di uno spettacolo destinato a durare, fin tanto che esisteranno orologi a segnarne il tempo.

Per contro, è proprio il suo coinvolgimento totale e passionale, e la sua chiara immedesimazione quasi sopraffatta nel racconto, a condurre Scorsese in un tripudio di enfasi tale da rimuovere in lui qualsiasi filtro e censura, anche, se non soprattutto, alla retorica...
E così, appaiono ridondanti determinate scelte, poco calibrate in funzione di un messaggio che perde un po' di autenticità, e che invece di essere intuito consapevolmente dallo spettatore finisce per rischiare di sembrare artificioso e preconfezionato.
All'insistenza si unisce anche il timbro impresso ai dialoghi, oltre che piuttosto banali, non realmente in grado di funzionare e di esercitare una presa paritetica allo scopo prefisso.

Un film più di forma che di sostanza, e in questo non c'è nulla di male, ovviamente.
Il gradimento e l'affetto sorgono spontanei, per questo Hugo , forse anche troppo...
L'accuratezza dei dettagli, lo stile grafico, l'avventura nell'avventura, i ritmi ragionati, sono tutti strumenti che donano un'armonia unica. Ma a parte gli ammiccamenti per i cinefili, l'impresa di Scorsese è destinata a scontrarsi contro lo scoglio rappresentato dalla pretesa di conciliare verità storica, onestà di linguaggio e spettacolo per un vasto pubblico. E anche il più grande dei maestri può fallire.

11 le candidature agli Oscar. Se le merita tutte.


Scena scelta








lunedì 20 febbraio 2012

Il Baseball secondo "Moneyball"


41 - Moneyball - L'arte di vincere (febbraio 2012)



Bill Beane è il general manager della squadra di baseball degli Oakland Athletics, l'unico ex giocatore di questo sport a rivestire quella carica e l'unico abbastanza folle da prendere seriamente in considerazione una rivoluzione dell'intera filosofia su cui si basa non solo la storia del gioco, ma che alimenta gli stessi pilastri sociali ed economici che reggono l'industria nel paese.
I giornalisti, gli esperti, il suo stesso staff diventano le forze invisibili contro cui si batte, perché rappresentano la concezione per lui sbagliata del baseball; una visione univoca, covata da menti ristrette che si credono infallibili e scommettono contro di lui.

Dopo la sconfitta con i titani dei NY Yankees nella finale dei playoff del 2001 e l'essere stati depredati dai medesimi dei loro tre giocatori più forti, Beane comprende quanto impari sia il duello, quanto improbo sia il tentativo di competere contro l'impero del denaro che foraggia il meccanismo; un sistema nel quale l'unico modo in cui Davide può sconfiggere Golia è quello di adattarsi al gioco, evolversi.
Quello che Beane propone è una sorta di darwinismo sportivo.

E' così che, dopo aver conosciuto ed assunto Peter Brand, neo-laureato a Yale in economia che gli espone alcuni suoi pensieri sul baseball, i due mettono a punto una strategia incentrata sui numeri, anziché sui nomi; le statistiche sono il punto di partenza di un nuovo approccio c.d. sabermetrico, matematico e scientifico, volto a sostituirsi all'esperienza e all'intuito.
Questioni come l'età, lo stato di salute, l'attitudine dei giocatori distraggono dal vero obiettivo e dal risultato espresso dalla teoria, per la verità molto semplice e radicalizzante, secondo cui vince "chi conquista più basi".

I due formano un team estremamente bizzarro, l'uno l'antitesi dell'altro. Ma l'intesa funziona perché entrambi hanno più di un motivo per credere in quello che stanno facendo.
Ed è proprio l'estraneità ai concetti fondamentali ed il mancato assorbimento degli insegnamenti rudimentali del gioco da parte di Brand a suggerire a Bean una diversa e funzionante chiave di lettura per aprire porte altrimenti blindate e a condurlo in modo sempre più convinto lungo il percorso intrapreso già molto tempo prima.

I continui flashback ci mostrano infatti le immagini di un giovane Beane giocatore, riempito di promesse e sogni successivamente disattesi. Sarà lo spartiacque della sua vita, oltre che della sua carriera. Da questo insuccesso, basato su una scelta fin troppo scontata, dipenderà il successivo scetticismo nei confronti di tutto l'ambiente che lo circonda, delle opinioni degli stessi che nella sua mente sono coloro che lo illusero, che lo presero in giro, originando il suo desiderio di rivalsa.

Il film lo rappresenta come un cinico disilluso, ma per lui non esiste nulla di più sentimentale del baseball.
E' spietato quanto basta per svolgere il suo incarico, ma è il primo a calarsi con empatia nei panni dei giocatori che deve tagliare.
E' un tipo concreto, senza fronzoli: comprende le metafore, ma non le accetta. La vittoria è la vittoria, la sconfitta è la sconfitta, e non ci sono sfumature in mezzo. E' proprio questo che lo rende quasi "Achabiano", e, di conseguenza, simpatico.
Il suo contributo porterà a sconvolgere il "know-how" di base del sistema, e la sua perseveranza frutterà ad altri i titoli di cui si sarebbe voluto fregiare lui.
La sua geniale intuizione lascerà un solco profondo sul futuro del baseball, portando i suoi concorrenti ad imitarne le idee, e tuttavia egli non riuscirà ad ammettere con se stesso di aver "vinto", nemmeno in un questo senso.
Il forte attaccamento ai suoi valori e alla sua ossessività, lo porta al punto di rifiutare un'offerta vertiginosa da parte di una delle più blasonate squadre di baseball americane per il solo motivo che non è questo che per lui significa il baseball.
Vincere non significa semplicemente riuscirci, ma riuscirci alle proprie condizioni; non è un semplice mestiere, è un'arte. E solo chi possiede il suo background è effettivamente capace di percepirne le sottigliezze.

La sfida è per lui vissuta in maniera compulsiva, molto nervosa, al punto che non riesce ad andare alle partite, non ascolta le radiocronache, le sequenze con lui nell'auto che guida senza meta consolidano una prassi quasi autoterapeutica.
Di lui, sul piano strettamente personale, di ciò che esula dal baseball, sappiamo ben poco: ha una figlia, una ex moglie. Ma non ci sono legami intimi, né ne traspare l'intenzione. L'unico sentimento vagamente accostabile all'affetto realmente visibile è quello per la figlia, che lo incoraggia a credere in se stesso.
Ed è solo in quei momenti che può sentirsi legittimato a tornare indietro alla sua infanzia precocemente bruciata, a quella parte di lui che gli manca.
Quella stessa parte che, essendo stata dimenticata, lotta per riemergere e gli impone di credere in qualcosa di improbabile: Davide che batte Golia.

Il film, tratto dal romanzo Moneyball: The Art of Winning an Unfair Game di Michael Lewis (sceneggiatura non originale alla quale ha contribuito lo zampino di Aaron Sorkin, in nomination) è estremamente trasparente, sin da subito.
Il plot è lineare, articolato e tecnico, ma lineare.
Colui che ci si addentra da profano - e vale non solo per il non-sportivo, ma anche per chi non conosce il baseball, più simile ad una religione in Patria, che non ad uno sport -, farà fatica all'inizio a capire di cosa di parla.
Le riunioni tecniche, le discussioni, le trattative, sono tutti elementi manageriali che servono a fornire l'idea generale, ma non si può considerare un film sul baseball, quanto semmai, un film su un uomo che vive del baseball, senza avere la minima idea di cos'altro fare.

Brad Pitt si guadagna un'altra nomination interpretando una parte veramente impressionante, agevolata dall'ottima spalla fornitagli da Jonah Hill (anche lui candidato, come supporting actor). Fra i due esiste una chimica anche fuori, cosa che rende un buon servizio al film.
Sono i loro dialoghi a raccontarci quello che sta succedendo, mentre Miller fa uso delle voci fuoricampo, dai cronisti ai commentatori sportivi (espediente tipico dei titoli sportivi) idoneo a dipingere la cosiddetta "normalità" della maggioranza e a riprodurre anche sullo spettatore le sensazioni di assurdità e di diffidenza che accompagnano i due, pur rafforzati vicendevolmente dalla loro intesa, motivati dalla convinzione di essere nel giusto.

Oltre alla nomination per il miglior film, e alla recitazione, questo Moneyball trova ottimi riscontri anche sul piano tecnico: montaggio, sonoro sono lì a dimostrarlo.
In conclusione, film scritto bene, recitato anche meglio, magari meno appassionante dei soliti, ebbri e retorici lungometraggi su questo sport made in U.S.A., ma sincero ed oggettivamente apprezzabile, al di là dell'esclusività del micromondo di cui parla.

D'altra parte, così come l'arte di vincere, anche l'arte di raccontare una storia deve fare affidamento sulla conoscenza degli strumenti del mestiere. Si entra forse un po' troppo negli aspetti "off-the-field", a scapito dell'universalità della storia.
Se l'obiettivo era quello di attirare a sé i discepoli del gioco e fare una bella figura sull'Academy (che ama ogni cosa sia emblema dell'America, e il baseball non lo è meno dell'Aquila di mare o dello Zio Sam) allora è un lavoro ben fatto. Viceversa, probabilmente qualcuno finirà per dimenticarlo in fretta.


Scena scelta







domenica 19 febbraio 2012

Midnight in Paris, brilla di luce propria


40 - Midnight in Paris (febbraio 2012)



Le strade parigine sfilano in apertura di film sotto le musiche evocative di Sidney Bechet, jazzista americano in attività negli anni '20, l'età dell'oro per Gil (Owen Wilson, qui in versione Alleniana, cosa che gli riesce niente male), scribacchino a comando delle major hollywoodiane ma al contempo aspirante romanziere in cerca di una risposta alla domanda delle domande, nella vacuità dell'esistenza che conduce.
Un nostalgico smarrito nel caos e nella frenesia della modernità.

Il contrasto fra gli ansiogeni Stati Uniti, terra di conquista del capitalismo e simbolo eterno della fatuità e la Francia, che si presta al ruolo di purificatrice delle anime in pena, inadatte a conformarsi ai precetti del loro tempo, si rispecchia nel divario fra Gil e Inez, tanto netto quanto superficiale è la considerazione che l'uno ha dell'altra.

Lui, che si ispira a Fitzgerald ed Hemingway, che trova sollievo nelle lunghe passeggiate notturne lungo la Senna e sogna di essere bagnato dalla pioggia, attirato dalle vecchie musiche di Cole Porter e dai richiami di un passato (forse) irraggiungibile e sfocato nella sua visione del tutto idealizzata e distorta di un'epoca che possiede tutte le attrattive che il presente non ha; lei, diretta emanazione di un padre duro e puro, yankee d.o.c., dalle idee politiche estremiste, condotto e trattenuto a Parigi solo dai suoi affari e di una madre snob da cui percepisce ed impara a misurare il valore delle cose della vita dal loro prezzo.
Mentre lei viene irretita dalla favella ipnotica di un intellettualoide superbo e pomposo, per Gil si aprono le porte del passato, esattamente a mezzanotte, come in un episodio di "Ai confini della realtà": vedrà esattamente ciò che desidera vedere, verrà a contatto con gli artisti e gli intellettuali di cui sa tutto, vivrà al centro delle sue stesse fantasie, coltivando un'illusione che scoprirà essere comune a tutti gli artisti quanto umane sono la curiosità e la nostalgia e quanto desiderabile è la prospettiva di conoscere se stessi al di fuori di un presente nel quale ci si sente fuori posto, cullati dall'irrealtà di un posto più familiare ed ospitale.

Allen ricaccia in questa sua ennesima gemma tutta quella magnifica ironia che gli conosciamo bene, condita però da una punta di serafico distacco, rimescolando gli ingredienti classici dei suoi film: l'emarginazione sociale, l'incomprensione, l'idea repellente della realtà nevrotica e ossessivamente ripetitiva (perfettamente sintetizzata dal pragmatismo esasperato e dallo sfarzo fine a se stesso), che allontana l'uomo dai suoi impulsi naturali e dall'indagine personale cui ognuno di noi sarebbe destinato, ma allo stesso tempo mette in guardia lo spettatore che troppo in fretta si fosse immedesimato nella fantasticheria del protagonista, Gil, e lo fa proprio attraverso le parole di quest'ultimo: il presente è sempre meno soddisfacente del passato, perché è la vita stessa ad essere insoddisfacente; ma sono le scelte, quelle vere, pur se prese su presupposti illusori a rendere meritevole di essere vissuta la vita.

Sono le divagazioni, le distrazioni e le fughe da ciò che è reale a far capire a Gil quanto siano importanti virtù come il coraggio e la fiducia in ciò che si ricerca in quanto artisti, ma è solo attraverso il più intricato labirinto rappresentato dalla realtà e dalle innumerevoli vie che vi si intersecano che gli sarà davvero possibile cambiare ciò che non lo appaga, cominciare ad essere sincero con se stesso.

Il tutto con in sottofondo Parigi, che diventa la protagonista assoluta (come New York lo era stata per "Manhattan") con le sue stravaganze, i suoi ricordi e le impronte della sua gente sul povero turista americano. Ci sono, forti, le usuali note jazz cui Allen è da sempre affezionato e, ancora una volta, Allen lascia aperta una porta al surreale e al fantastico, dopo "Scoop" e "Harry a pezzi".
Belle e interessanti le ricostruzioni storiche, i personaggi variegati della società parigina sono volutamente caricature, tratteggiate a bella posta per soddisfare il subconscio di Gil, ed è attraverso di essi che lui comprende ciò che non sapeva di volere.

Ottimo cast (ovviamente), e numerose le star (su tutte K. Bates, M. Cotillard, A. Brody) che si sono gettate a capofitto al servizio del lavoro di un Maestro, che più invecchia e più migliora. Certo, col tempo diventa meno esplosivo e meno profano, ma ne guadagnano l'armonia e l'espressività.

Nominations, scontate, per film, regia, sceneggiatura originale e scenografia, per Midnight in Paris c'è stata anche la (piccola) soddisfazione di essere stato anche il film più prolifico di Allen ai botteghini italiani.
Se non altro, non è mai troppo tardi per imparare...


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domenica 29 gennaio 2012

The Artist, un ritorno alle origini


39 - The Artist (gennaio 2012)



Hollywood, 1927. George Valentin (Jean Dujardin) è uno dei più famosi attori del cinema muto, la sua popolarità tocca vette impareggiabili, il personaggio dei suoi film è come quello fuori: amabile, pittoresco, talentuoso. E' un vero e proprio istrione, ma è anche orgoglioso, e impulsivo. Come quando si prende le scene (e gli applausi) tutte per sé, o quando fa di una semplice fan incontrata sulle passerelle la co-protagonista del suo nuovo film, con buona pace del produttore (un John Goodman che è sempre un piacere vedere).

Il tempo passa in fretta, e arriva il 1929: sul cinema incombe l'introduzione del sonoro, sull'America il crack di Wall Street; mentre le sale cinematografiche vengono invase dalle seducenti promesse della nuova frontiera auditiva, comincia il declino di Valentin, d'un tratto obsoleto, fuori luogo, ridicolo, quasi. Viene scaricato dalla Kinograph, la sua casa cinematografica, che svolta con una nuova star: Peppy Miller (Bérénice Bejo), la ragazza da lui notata e aiutata qualche anno prima.
L'ascesa di lei è anche il contemporaneo declino di lui, è una rottura definitiva: nello stesso incedere in cui muore il seguito di Valentin, muore l'uomo, l'anima, l'artista. Colui che mai si piegherà alle effimere amenità introdotte dalle trovate commerciali a buon mercato. L'inflessibile devozione alle proprie idee è temprata dalla strenua orgogliosa resistenza ad un cambiamento troppo difficile da venire, perché interiore, perché capace di mettere in discussione tutto ciò in cui crede.

Persa la sua strada, persa gran parte dei suoi averi per ovviare alle difficoltà economiche e perse (quasi) tutte le persone che può considerare care, trova nell'improbabile (il fedele cane amico) e nell'inconfessabile (Peppy) le chiavi della sua salvezza e di quell'autoindulgenza che lo porta a rivoluzionare non solo il concetto di sé, ma anche, forse, la stessa opinione che egli può avere dell'arte stessa.

Il film di Hazanavicius è un film che trova la propria originalità, paradossalmente, in un ritorno alle origini del cinema; il film, quasi interamente muto, e girato nel vecchio classico b/n si fonde con i film (muti anch'essi, ovviamente) di cui narra, entrando nella sfera del metacinema e (ri)facendo suoi gli strumenti base della recitazione. L'unico sottofondo è quello delle musiche (peraltro splendide, di Ludovic Bource); se la rivoluzione sonora infierisce i suoi colpi sul protagonista, lo spettatore non conosce miglior fortuna, perché egli si deve immedesimare in Valentin, che fino all'ultimo cercherà di mantenere la propria integrità.
Ed è solo con l'abbandono del residuo rifiuto e con l'accettazione da parte del protagonista, che lo spettatore può conoscere finalmente ciò che si nasconde al suo orecchio: per la prima volta le musiche si fermano, lasciando ad un assordante silenzio e alle prime parole udibili degli attori l'onore di chiudere un film la cui apertura rappresenta ormai il passato, proprio come il cinema muto rappresenta i primordi dell'industria cinematografica.

Nostalgico, questo "The Artist", non è passato inosservato alla Foreign Press Associated, che l'ha premiato con ben 3 Golden Globes, mentre l'Academy gli ha riservato il più alto numero di nominations in vista degli Oscar 2012 (10).
Di sicuro è un film che farà parlare di sé: regia, sceneggiatura originale, musiche. La prova degli attori è, in buona sostanza, ecumenica: su livelli altissimi quella dei due attori protagonisti, Dujardin e Bejo, ma tutto il contorno funziona, grazie all'esperienza di attori formidabili, quali John Goodman, James Cromwell e persino Malcolm McDowell in una breve apparizione.

Una felice intuizione, in definitiva, e anche se a volte non si perdona al cinema la sua vena retro e citazionista (sia cinefila che extracinefila), non si può non guardare a questo lavoro con quell'affetto sincero con cui pensiamo ai primi pionieri di un'arte che col passare del tempo si raffina, accresce le proprie potenzialità comunicative con un arsenale visivo e sonoro sempre più notevole, ma che forse allo stesso tempo si distanzia sempre più dalle esigenze di un pubblico che, decadi a parte, rimane sempre lo stesso.


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Lasciami entrare (Låt den rätte komma in)



38 - Lasciami entrare (Låt den rätte komma in) (gennaio 2012)



Oskar osserva il suo riflesso: guarda una vittima ma immagina un carnefice; nella sua mente prendono forma i contorni di un equo giustiziere capace di ristabilire l'equilibrio perduto e dare definizione al concetto di giustizia, o almeno al concetto bambinesco di giustizia, rinchiuso in una mente giovane, sì, ma anche logora e prigioniera di una esistenza che ha per lui ben poco di soddisfacente.
Eli lo osserva, di notte, compiere il suo strano rituale come un gioco, senza capirne il significato; ha dodici anni come lui, ma la sua esperienza le ha insegnato cose diverse.

A guardarli a prima vista non potrebbero essere più diversi, né le rispettive storie potrebbero essere raccontate senza riconoscervi una scissione radicale, antropologica, palese quanto la differenza fra il giorno e la notte. Eppure è il sottofondo comune rappresentato dal bisogno di essere intimamente compresi, per la prima volta da qualcuno, a forzare l'unione delle loro solitudini, a mostrare ora in una luce totale un volto prima raffigurato solo a metà.
Oskar si affaccia così, finalmente, al di là del muretto eretto a riparo della sua incolumità, mentale prima ancora che fisica. Per Eli non c'è invece cambiamento, nessuna possibilità di permettersi di avere pietà di ciò che è; può solo fare i conti con la realtà e lottare per la propria sopravvivenza.

Nel rigido clima innevato si confondono gli sguardi di ghiaccio, privi di emotività dei due protagonisti, fino a perdere le tracce del resto dell'universo che li circonda (enfatizzato dalle potenti immagini di assuluti vuoti e silenzi dello scenario svedese) e riconoscere solamente l'empatia, che prima ancora di ogni altro gesto o verbo sintetizza l'amicizia-affinità fra i due ragazzi. Mentre intorno a loro vagano le macchiette paesane del tutto irrilevanti, essi si isolano nel migliore microcosmo da loro creato e lo rinfocolano con il desiderio di una fuga da una società triste e impotente, come l'ultima sequenza sembra suggerire.

T. Alfredson adatta per il cinema il romanzo di Lindqvist, obbedendo oltre che alla sceneggiatura dello stesso romanziere, a tutti i canoni della mitologia vampiresca, emblematica nel titolo stesso (solo chi viene invitato può legittimamente entrare), non mascherandosi semplicemente dietro agli stilemi dell'horror-thriller con le cruente scene in cui il sangue sgorga abbondante e le facce contorte o deturpate disturbano l'immaginario dello spettatore, ma delinenando un più complesso e profondo legame capace di resistere e di alimentarsi della barbarie inevitabile, un vincolo di sangue dentro e fuori la metafora. Il tutto elaborato con l'eleganza e la stessa simmetria con cui una morte fa da contrappeso alla salvezza di una vita.

Conta un remake anglofono (Blood Story), ma anche solo per una questione sentimentale, preferisco gli originali. Questo film non potrà contare su un cast di livello, o su trucchi visivi incredibili, ma in un certo senso è proprio la naturalezza e la genuinità di determinate scelte a rendere il film riuscito; ciò senza contare l'enorme impatto di alcune sequenze (come quella verso la fine, della piscina) avvalorate da una più generale attitudine a mostrare il lato B, anziché dirompere in affrettate (e banali) scene splatter di ormai risibile effetto.

Un film (da me) inaspettato, originale, che coglie l'enfasi di un lungo momento che va oltre il bieco superficialismo dell'argomento di cui pare trattare. Un calarsi progressivo in uno scenario sovrannaturale di per sé, ma tratteggiato di ondate di dettagli che riportano alla mente e al centro di tutto l'uomo, e il modo che ha di relazionarsi con il "diverso".


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