lunedì 29 dicembre 2014

Impromptu #1

C'era un mondo invisibile che era visibile solo per chi credeva di crederci, per tutti gli altri era invisibile.
Quelli che cercavano di metterlo a fuoco non dovevano fare altro che decidere di spremere gli occhi, concentrarsi, contrarre tutti i muscoli e focalizzare la porta del mondo invisibile. Poi sarebbero entrati, e con loro, in fila, tutti gli altri.
Il mondo invisibile era per loro perfettamente integro, accogliente, morbido, le luci soffici e tutto era patinato, al proprio posto, esattamente dove doveva essere.
Dentro era tanto bello che una volta entrati non sentirono più il bisogno di uscirvi, come una bolla enorme che inglobava tutto quello che le capitava a tiro, e dava un senso a tutte le cose, sottraendolo a tutte le altre.
Non c'erano parole d'ordine, chiavi, serrature, nient'altro serviva per entrarci se non la convinzione che esistesse. Era così poco, e insieme, così tanto.

Cosa ne sia stato di coloro che vi entrarono tanto tempo fa non è dato saperlo, perché noi siamo ancora da questa parte, ad aspettare qualche segno.

Forse faremmo bene a cercare meglio.

giovedì 11 dicembre 2014

Scemo & + Scemo 2


85 - Scemo & + Scemo 2 (dicembre 2014)




Sono passati vent'anni e Lloyd è ora rinchiuso in una clinica psichiatrica, ridotto in una sorta di stato vegetativo. Per tutto questo tempo l'amico Harry ha continuato a fargli visita, lo ha accudito e si è prestato alle peggiori nefandezze, vittima inconsapevole del rapporto - scopriremo - tutt'altro che spento che lo lega al vecchio compagno di scemenze.

Dietro c'è la prima delle tante gag che ci aspetteranno come prevedibile che fosse, e soprattutto la scoperta della malattia di Harry, malattia che lo costringerà a cercare un nuovo rene e, di conseguenza (se vi pare che ci sia un salto logico no, non siete voi) a mettersi in viaggio verso la ricerca della figlia che pensa di aver avuto anni prima.

Il sequel dell'ormai ventennale film dei fratelli Farrelly mostra immediatamente di che pasta è fatto: autocitazioni a gogo, battute spiazzanti e tossiche, nuovo lustro a pose e atteggiamenti già impressi nella memoria, iper-accentata demenzialità in ogni sua componente; in una parola: fedeltà a se stesso.
Nonostante qualche naso storto, I Farrelly colpirono una discreta cerchia di fanatici con quel film, ed ecco perché ne fanno un sequel: nessuno di loro avrebbe voluto vivere in un mondo in cui non fosse possibile sapere cosa ne era stato dei due scemi per eccellenza. Quello che non poteva che rivelarsi un affettuoso viaggio nei ricordi è alla fine un film divertente e guardabilissimo, con un dolce retrogusto di "crescita interrotta" che ferma il momento e ci ri-proietta nel passato.
Proprio quando non ti aspetteresti che i cari vecchi Harry e Lloyd non possano più sorprenderti e diventare più stupidi di così, ecco che ti smentiscono e raggiungono nuove, inesplorate, vette.

Ed è questo il bello, la sua totale assurdità, la resiliente forma di un'amicizia che se non fosse per gli aspetti fisici alquanto cambiati dei suoi protagonisti, non si direbbe proprio essere passata per un arco di tempo così lungo, talmente è uguale a com'era.

Per essere un film per aficionados, e con tutto sommato poche pretese non è per niente male: la sceneggiatura è così e così e l'impianto narrativo è meno convincente, percettibilmente meno spontaneo e un po' più pigro del precedente capitolo; spesso è forte la sensazione che la scrittura navighi a vista, non tanto nell'intreccio (da manuale, per una commedia dei Farrelly) ma nella qualità dei suoi sketch, però poi c'è l'evidente forzatura recitativa dei suoi attori, con la loro brillantemente demenziale espressività e straordinaria chimica dei bei tempi a rendere anche le battute più squallide, trash, o autoreferenziali particolarmente divertenti quantomeno per il genere, proprio come ti aspetteresti dal tuo feticcio preferito.

Dopo un discretamente vivace avvio, se il film non cola a picco sotto il peso delle sue stesse esagerazioni - Lloyd è più aggressivo, disgustoso e fuori luogo che mai; Harry invece ben più remissivo e questo ricalibra il peso specifico della coppia - lo deve proprio alla giusta formula di intensità su cui riescono ad accordarsi Jim Carrey e Jeff Daniels (due attori che in film di questo tipo non sono soliti vedersi spesso), di nuovo insieme, bellamente ricoperti di ingenua vanagloria, folle irresponsabilità, stolta complicità e uniti dal cattivo gusto per gli scherzi che, fra il non-sense più esilarante e l'eccesso di politically incorrect, regalano ancora ottimi momenti di Harry e Lloyd.

Ma, pur essendo un chiaro omaggio a se stesso (ritroveremo comparsate, scene e scenografie pressoché identicamente ricreate, farciture narrative aggrappate ai cenni lasciati in sospeso la prima volta che li abbiamo conosciuti) il film ha decisamente troppi momenti di "non-so-cosa-dire" in cui attinge al suo diretto passato per sviare l'attenzione dal fatto che nella sostanza del plot non c'è molto altro, oltre ad una reunion tanto attesa (almeno dai suoi fan), un viaggio on-the-road che ricalca molti suoi prevedibili clichè comici e un nuovo, profondo assaggio di una celebrazione di stupidità di cui è sempre un po' bello poter dire di essere stati testimoni, ancora una volta.

Almeno, finché non ti uccide.
O forse anche in quel caso.


Scena scelta










lunedì 24 novembre 2014

Grand Budapest Hotel


84 - Grand Budapest Hotel (novembre 2014)




Per il suo ultimo film Anderson sceglie questa volta per ambientazione il maestoso Grand Budapest Hotel, simbolo di una consuetamente bizzarra storia d'amicizia, quella fra Gustave H, il suo concierge, e Zero Moustafa, il "lobby boy", sullo sfondo fantastico di un'Europa immaginaria da qualche parte a cavallo fra le due guerre, negli anni '30.

Apparentemente non c'è molto in questo film che non fosse contenuto già nel precedente cinema di Anderson o che ne segni una novità, ma in qualche modo ne è però allo stesso tempo la quintessenza, la sublimazione: come nel recente Moonrise Kingdom si rinnova la centralità di un'affinità temprata dalle ostilità circostanti e messa alla prova da un amalgama incerto di personaggi stilizzati, oltre il quale il ricorsivo tema della fuga può trovare nuovamente sfogo.

Ma pur mantenendone saldo il tono, questa volta il regista si avventura più per sentieri impervi, includendo elementi di una severità mai vista prima: scava tutto intorno ai suoi due protagonisti, e al loro stravagante rapporto (e al suo soggettivo rapporto con loro prima ancora), una specie di nicchia, di riparo ideale da eventi tragici o grottescamente drammatici che poi traduce nel suo usuale gergo autoriale pervadendolo di una morbida ironia, confondendo l'immaginario lucente di un'illusione con l'esattezza visiva di uno scenario che gli fa da contraltare.

I suoi film sono perfettamente riconoscibili, codificati nella sua impronta barocca, nell'affettazione comica enfatizzata attraverso il non-sense, nella banda di habituè di cui si contornia e nella vivace caratterizzazione dei suoi sempre memorabili personaggi; anche qui, fedelmente, fra idiosincrasie e stranezze, la loro costruzione è tenace, intima, ossessiva, impulsiva... e sorprendentemente veloce, come la storia che si delinea ed il suo modo di raccontarla.

È un Anderson in grandissima forma quello che vediamo qui, che imprime un ritmo pazzesco ad ogni scena, simbiotizzando ogni dialogo con le inquadrature, lasciando che il sonoro vi entri naturalmente quasi a cadenzare la schizofrenia visiva cui segue quella di una narrazione, molto tipica, che in effetti non ha un mordente particolare e che pur ricalcando gli elementi prioritari del suo cinema d'avventura subisce la manifestazione di una scrittura un po' più caotica e dispersiva del solito; e che in assenza di tutta questa impalcatura rischierebbe di vedersi soccombere su se stessa.

Ma il film con le sue prospettive forzate e i suoi ritmi convulsi ce lo fa dimenticare perché non lascia letteralmente il tempo di metabolizzarne il dinamismo, fra ripetute carrellate orizzontali, vignette, trucchi visivi, e ansiogeni movimenti di macchina a cercare i suoi personaggi, con una camera quasi violentata per assecondare la pulsione frenetica di un'urgenza imprecisata; una struttura che si mostra apertamente nelle didascalie, nelle illustrazioni e in una organizzazione spiccatamente romanzesca proprio come a voler accreditare le opere di Stefan Zweig, da cui trae fondamento.
Ogni immagine è una paradisiaca coltre di sfaccettature, perfezionata nella sua lucidità e servita alacremente alla sensibilità dello spettatore.

La progressione che si staglia davanti al privilegiato occhio di quest'ultimo è quella di un'assurda cronaca, in quadri e parole, sostenuta "solo" dalla bellezza di ciò che si vede e, alla fine, anche di ciò che non si può vedere; Anderson non esce allo scoperto, seppellisce i significati fra le righe delle bizzarrie dei suoi protagonisti, non è mai banale, è invece raffinato e sofisticato e pian piano restituisce la nuda essenza di un legame affettivo che resiste all'eventuale inverosimiglianza dello stesso (o degli eventi che lo formano); attua, infine, un'opera di alleggerimento, sostituendo uno ad uno ai suoi stessi vezzi figurativi un dolore che affoga lentamente lontano dal suo cuore, e la cui eco poetica ed artistica ha lo stesso peso illusorio dell'evasione romantica, colorata e trascendente del mondo inventato dal suo autore che, ugualmente, si scopre striata di una ferale fatalità.

A risaltare è un film a cui la netta contrazione dei tempi gioca a favore piuttosto che il contrario e le cui interpretazioni (soprattutto di Ralph Fiennes, ciliegina sopra ad un un cast come se ne vedono pochi) ne escono, se possibile, avvalorate in accento e profondità.
La sua marcia non conosce tregua, prende lo spettatore e lo avviluppa, lasciando dietro ogni angolo più di qualche stimolo a proseguire nella curiosità.
Se la narrazione è a presa rapida, l'immagine è un battito di ciglia: nella meravigliosa istantaneità visiva che Anderson realizza c'è tutta la tecnica registica desiderabile ed immaginabile lasciata a danzare fra le scenografie inenarrabili di Adam Stockhausen e Anna Pinnock, gli oggetti di scena, i costumi immaginifici della stessa Canonero di Barry Lyndon, l'uso delle luci e dei colori sgargianti dal grande contrasto della fotografia del fidato Yeoman, in un culto della messa in scena sbalorditivo in cui ogni dettaglio, molto più che curato, rapisce l'occhio sottraendolo quasi alla sostanza per condurlo all'affermazione prepotentemente della forma.

Con la sua eleganza compositiva, la ricercatezza e la compostezza di una scena sempre ricca di significati nascosti e di riferimenti, il film è mozzafiato e salva in parte o del tutto le piccole lacune di una sceneggiatura più sconnessa e meno riuscita di altre delle quali però non si avverte il peso, proprio perché il mestiere di Anderson la rende comunque avvincente.

Là dove qualcuno risulterebbe invasivo, fastidioso, ripetitivo, Anderson torreggia raccontando di una commedia niente affatto colossale, facendo collimare il mezzo espressivo con una visione ben chiara di quello che vuole, o non vuole, davanti alla cinepresa. Con un effetto ammaliante.
Chiunque ami il cinema amerà questo film.

Opera matura e consapevole, piena di tutta la cifra stilistica della cinematografia di Anderson che segna un nuovo apice nel suo più materiale disegno artigianale, appassionato; stracolmo di cinema come il Cinema moderno sa esserlo sempre meno; e, se anche non sarà il più organico o consistente dei suoi film, poco importa: gli universi che è in grado di creare e di far sopravvivere alla memoria hanno una potenza molto maggiore della singolarità delle storie o dei personaggi in sé.
Qualcosa che vale sicuramente un po' del nostro tempo.



Scena scelta










mercoledì 19 novembre 2014

God bless America


83 - God bless America (novembre 2014)




Dettaglio, lenta carrellata verticale dall'alto, leggeri ed insofferenti movimenti di macchina, ralenti; mentre la voce fuori campo di Frank Murdoch racconta il decadimento della sua vita in una società che lo ha portato alla depressione.
Stupidità, maleducazione, cattiveria gratuita e sadismo hanno ormai preso pieno possesso di un Paese cinico che si guarda allo specchio e si compiace di quel che vede, che non dà cenno di vergognarsi di non conoscere alcun limite della decenza.

Sono solo i primi minuti di uno scoppiettante incipit, e sono anche quelli più fatalmente incisivi di un film tremendamente divertente almeno quanto corrosivo è il suo contenuto ed ispirato il suo linguaggio.

L'affresco al vetriolo che Goldthwait, autore ed in precedenza attore comico, compie della società, della sua società, è quello di una tragicità talmente estesa ed impossibile da commisurare che l'unico modo per affrontarla è l'esagerazione.
Attraverso l'analisi di Frank, il pastiche televisivo e i dialoghi serrati, emerge un quadro parossistico da cui nessuna figura, per quanto autoritaria sia, esce indenne, con i media a guidare il grande carrozzone.
Dove le buone intenzioni si trasformano in diffidenza e accendere il cervello è solo sinonimo di frustrazione.

Con una difficile situazione personale, resa ancor più dolorosa dal rifiuto della figlia di vederlo, dalla perdita del lavoro e da gravi problemi di salute, allora Frank (un grande Joel Murray) è naturalmente portato a vedere nella degenerante realtà che gli sta attorno quegli stessi negativi tratti evolutivi (involutivi?) che sembra rimasto l'unico a non riuscire a sopportare.

Provocatoria, caustica, dissacrante, la satira del film di Goldthwait fa pieno centro nella sua continua deformazione e trova, nel portare ogni singolo episodio alla sua estrema caricatura, un risultato di rara efficacia comica che, fra il più sofisticato politically incorrect e la più brutale dark comedy, fa alla società Americana e ai suoi significati politico-comunicativi più o meno quello che Kevin Smith fece nei confronti della religione organizzata e della Chiesa con Dogma, ma con più rabbia in corpo.

Con molte similitudini, come un angelo sterminatore, e riferimenti (non ultimo il Bonnie and Clyde di Arthur Penn) Frank esplode e si trova davanti al dilemma morale che lo comprende ormai dentro di sé, perché lui fa parte dello stesso marcescente processo di de-civilizzazione in cui la nobiltà d'animo va estinguendosi e ogni sforzo di resistere passivamente è insopportabile, e trova nell'improbabile compagnia della sedicenne Roxy la spalla per attuare un disegno più grande, andando peraltro a comporre una delle coppie più deliranti che si possano riconoscere.

Fra gag feroci da vecchio burlesque ed un nativo contesto trash che trabocca di sarcasmo da sé, il film fa bella (e ovviamente ironica) mostra di immagini che sarebbe invece la dignità dominante a dover censurare, una sensibilità che è venuta a mancare; cresce e diventa, nella sua opera di destrutturazione, la realtà stessa che combatte al fine di mostrarne il decadimento e l'assurdità; rimescola nel torbido delle coscienze, ormai incapaci di purezza persino nei più innocenti elementi della propria comunità o supposti tali ed offre un panorama di sconforto morale e intellettuale che finisce con il giustificare la violenza e le sue implicazioni in un'inesorabilità narrativa molto spettacolosa e parodisticamente Americana, ma che va ben lontana dal voler trarre lezioncine o facili soluzioni espiatorie.

Ok, la violenza fa schifo, ma in una società anestetizzata, spietata e senza filtri, non ne è che la diretta (e conclusiva) conseguenza.
In questa folle rincorsa al clamoroso, l'unico modo per attirare l'attenzione ed offrire un punto di vista originale è quello di sottostare alle leggi del branco. "È la maggioranza, e vinceranno loro", sembra dire il film, "ma almeno prima si può combattere".


Non riguarda il salire in cattedra, o un'affermazione di superiorità. È semplicemente un urlo liberatorio, generato dalla solitudine e dalla sopraggiunta incapacità di riconoscersi nei riferimenti del posto in cui si vive.
È vero, c'è un codice, quindi non tutto va completamente a vuoto, ma è proprio nella regressione umana alle sue regole più primitive e agli istinti più viscerali che si perfeziona il cerchio: lì dove ogni genere di elevazione è impossibile e non resta altro che un triste distaccamento dal tutto, e quindi da se stessi.

Certo, man mano che avanza il plot scopre qualche debolezza nell'impianto narrativo e si stanca un po' troppo presto del proprio virtuosismo; e certo, nel procedere lo abbandona un po' in fretta quel compiaciuto senso di sé, ma l'esito è lo stesso obiettivamente esilarante.

Cos'altro chiedere ad un film che riesce ad essere così completamente onesto?


Scena scelta










martedì 18 novembre 2014

Locke


82 - Locke (novembre 2014)




Per la serie "grandi film a basso budget", c'è questo gioiellino britannico diretto da Steven Knight.

Si chiama Locke, come il suo protagonista che per tutto il corso del film si vedrà affrontare il viaggio da Birmingham, in cui ha una famiglia ed un lavoro di responsabilità, a Londra, città in cui vive Bethan che, si scoprirà, sta per avere il figlio da lui concepito al di fuori del suo matrimonio tempo prima.

Locke allora si lascia tutto alle spalle, la sua Birmingham, la moglie, la famiglia, la partita alla TV con i figli, l'impegno lavorativo mastodontico che solo lui è in grado di portare avanti.
Fugge, ma in realtà va incontro alle sue responsabilità, affrontando un senso di colpa di cui la precedente storia di suo padre ha alimentato lo spettro.

Questa piccola perla, recitata interamente a bordo di un'automobile con un Tom Hardy in modalità one-man-show e solo un apparecchio telefonico installato on board ad inserire nel film le voci dei personaggi secondari permettendo così i dialoghi di cui è straripante, è uno di quei lavori che alla fine, dopo averli visti, ti lasciano con grande soddisfazione.

Basta un'idea (semplice), una sceneggiatura scritta con ritmi ben scanditi, scambi di battute continui, salterelli da una vicenda all'altra ed un sottotesto a cui Hardy attinge da grande attore che sa lavorare da solo (come dimostrato anche in Bronson) con la sua presenza da palcoscenico nel dare vita ad un personaggio fra i più enigmatici, moralmente complessi e narrativamente coinvolgenti che si siano visti di recente, per fare dono a questo film di una spontanea tensione, capace di sostenerlo fino alla fine.

Ma quello che più è sorprendente è il risultato finale tenute in considerazione le limitazioni di uno script che prevedeva, come detto, l'impiego principale di un unico attore in camera e soprattutto quelle fisiche di uno spazio che rimane lo stesso per 90 minuti, proprio come a teatro. Se in Bronson quel palcoscenico era reale, qui si tratta del sedile di una BMW, ma il concetto è lo stesso.

Knight (che lo ha anche scritto) si avvale di tutta una serie di lunghe inquadrature fisse inframezzate solo da qualche scorcio visivo delle luci della strada intorno, primissimi piani claustrofobici e un movimento di macchina azzerato.
Come se fosse un invisibile passeggero di questo on-the-road movie che non ne ha per nulla i connotati, il regista gli punta la cinepresa in faccia e lo assilla come le telefonate che riceve, e che lui cerca di riportare alla calma della ragione.

In questo thriller urbano minimalista, ancora una volta notturno con l'oscurità ad avvolgere completamente il suo protagonista, proprio come a suggerire la simbiosi fra dentro e fuori, come a sostenere il suo contrasto interiore, il background che gli viene costruito è talmente riuscito, dopo una buona mezzoretta di preliminare caratterizzazione descrittiva (attraverso le parole scambiate al telefono) che, sebbene i dialoghi si facciano via via un po' più scialbi e la storia subisca un naturale inaridimento, il magnetismo non si esaurisce neanche per un minuto.

Una storia solitaria, di redenzione e di determinazione etica (non casuali i riferimenti alla filosofia razionale di John Locke, da cui prende il nome) che è emotivamente convincente, il cui storytelling saprebbe raccontare un trucco o due su come si mantiene la suspence e che, convenzionalità e mezzi di produzione a parte, non ha molto da invidiare a tante altre pellicole ingiustamente più famose.


Scena scelta











lunedì 17 novembre 2014

White bird in a blizzard


81 - White bird in a blizzard (novembre 2014)




Basato sull'omonimo romanzo di Laura Kasischke, White Bird in a Blizzard racconta la storia di Kat Connors, una ragazza la cui vita ordinario-familiare viene turbata dall'improvvisa e misteriosa scomparsa nel nulla della madre, oppressa e morbosamente oppressiva.

Araki scrive e dirige un film che è costruito tutto su superfici riflettenti e apparenze, che come al suo solito riprende le tematiche intimistiche e campy della gioventù post-adolescenziale della sua epoca, immergendole nelle atmosfere eteree e patinate in cui i suoi personaggi perdono se stessi un po' alla volta mentre tentano di venire a capo dell'intrico.

Il mistero è servito dalla perfetta attitudine di un'Eva Green bella quanto inquietante (tanto per cambiare) che assieme al sempre ottimo Christopher Meloni (Oz) dà credibilità ad un ritratto coniugale in lento disfacimento, sotto agli occhi della nichilista Kat, anche narratrice della storia.

Quest'ultima è interpretata da una sempre più convincente Shailene Woodley. L'attrice, che fa parte della stessa lega delle Jennifer Lawrence, ha ormai superato lo status di rivelazione per affermare prepotentemente il proprio indiscutibile talento che anche qui, come soprattutto nel recente The Fault in our stars, si palesa apertamente nel permetterle di compensare per larghi tratti ad un'architrave narrativa un po' vacillante.

Per gran parte del tempo, Araki sembra disinteressarsi degli eventi, distogliendo l'occhio dall'urgenza del misfatto che accoglie i primi minuti di pellicola; lo fa, in realtà, per addentrarsi più nel mondo della sua protagonista, di cui oltre allo spaccato familiare ci mostra tutte quelle influenze culturali appartenenti alla Generazione X che ricorrono nel suo cinema, fra onnipresenti walkmen, riferimenti all'omosessualità e alla sessualità esplicita, dialoghi spogliati di pudicizia e una ricercata colonna sonora severamente in debito con la new wave degli anni '80 a partire dai Cocteau Twins che monopolizzano le prime sequenze del film proprio come il suo chitarrista Robin Guthrie faceva dieci anni fa in Mysterious Skin.

La storia portante è così quella formativa e canonica che ricalca leggermente il suo ultimo film davvero riuscito (Mysterious Skin) pur senza possederne l'irriverente autenticità o la crudezza, ma ri-tracciando la grammatica dello spettro emotivo dei valori suburbani dei ragazzi con cui Araki era cresciuto.
Fra questi, i più evidenti sono sicuramente il pessimismo e l'incertezza del futuro, dietro alla traballante struttura familiare che non dà riferimenti ed una rottura con gli schemi tradizionali inculcati dalla società.

La peculiarità dell'opera del regista californiano, a prescindere che piaccia o meno, è quella di non perdere mai quell'invadente tocco formalista che lo contraddistingue e che, anche qui, finisce con il prendere il sopravvento su quasi ogni cosa, storia e attori compresi.
Anche se qui, va detto, siamo di fronte ad uno dei film meno trasgressivi e consapevolmente forzati della sua filmografia; ma le sue atmosfere rimangono la cosa più indimenticabile (o meno dimenticabile) e anche qui non tradisce le attese.

A tutto questo si aggiunge poi una trama snella, semplice e piuttosto lineare che si tinge di thriller dopo aver flirtato con il Melò in salsa surreale e che spiega se stessa dopo aver rimosso qualche velo di troppo anche da una cinepresa che riflette visivamente la sua personale prospettiva onirica e fantastica del cinema, dentro una sceneggiatura che si dimostra comunque non priva di frecce nella sua faretra.

Araki smarrisce un po' i ritmi narrativi, perdendosi un po' fra quelle stesse visionarie tormente in cui seppellisce le banalità di una superficie che ne nasconde altre al suo interno e del cui significato allegorico carica gli elementi in gioco, alternando la lucida fotografia delle scene quotidiane a quella più sfocata delle proiettive intromissioni del subconscio; si mostra un po' ondivago nel tenere insieme il suo film e non dà sempre la sensazione di sapere cosa vuole dirci.

Ma stordisce, affascina, incanta. Nel sottrarre ai suoi attori ne trova la solidità, anche grazie ad un cast particolarmente attraente.
Un'esasperante vaghezza di immagini sovrapposte che ci accompagna fino alla fine, e che si rivela dannatamente piacevole.


Scena scelta












domenica 9 novembre 2014

Boyhood


80 - Boyhood (novembre 2014)




Mason guarda in alto, verso il cielo, nella prima istantanea di questo meraviglioso film: è un bambino di appena sette anni, confuso come si può esserlo a quell'età, che con lo sguardo rivolto all'insù si domanda, probabilmente, fra le altre cose, cosa gli riserverà la sua vita in futuro.
Lo imparerà, a poco a poco nel corso di ognuno dei 166 minuti del film, al termine dei quali di anni ne avrà diciannove.

Linklater, come spesso gli accade, prende la cinepresa e ridefinisce i canoni cinematografici, sempre con il tempo come ingrediente principale: se nella trilogia dei "Before" una giovane coppia si vedeva attraversare le diverse fasi del proprio rapporto, ogni volta con gli anni a separarne e a maturarne i tratti differenziali, qui la macchina del tempo che costruisce è proprio l'idea portante di un film che rischia di passare per un capolavoro immediato già nelle potenzialità smisurate del concetto, andando a rappresentare un unicum.

Nel dilatare il tempo (anche della pellicola, non casualmente) proprio sotto ai nostri occhi ci immerge e ci fa riflettere sul medesimo, su quanto sia effimero cercare di dargli un significato, perché il significato è cristallizzato in ogni attimo che lo compone.

Il tempo come lo concepiamo noi, come lo concepiscono i personaggi del film, è così inconsapevolmente presente, incalzante ed inesorabile che quello che effettivamente siamo in grado di vedere ci cresce davanti, evolvendosi naturalmente come le prove dei suoi attori.
In un'ottica più distorta della vita reale, ma meno distorta del solito schematismo narrativo del cinema mainstream (la fabula segue pedissequamente l'ordine naturale), ci mostra cosa significhi cambiare, osservare, abbandonare i nostri sogni d'infanzia e venire a contatto con il mondo sì modificato, ma non dal tempo: dalle persone.
Il passato non è che un riavvolgimento dei ricordi; il presente è ciò con cui costruiamo il valore dei ricordi della nostra esistenza, in ogni momento, ma le cose, da sole, si limitano ad esistere. Siamo noi che cambiamo, è la nostra percezione che vaga e coglie il senso d'insieme.

E quale strumento migliore del Cinema, abituato ad immortalare e consegnare alla storia l'attimo, per affermare questo potente concetto?

Se il Cinema ha sempre rivestito questa funzione artistica e storica (funzione che condivide con la Fotografia, proprio l'hobby di Mason), quest'attimo che nient'altro è se non il presente, l'oggi, l'adesso, è in continuo divenire e si presta ad un confronto all'interno del film stesso.

Come il personaggio della Arquette avrà a dire alla fine, "credevo di avere più tempo". Noi l'abbiamo vista disporre di tutto quel tempo, come un Dio che osservasse quello che ha creato, o come uno spettatore che ne osservasse l'esito da un punto di vista neutrale.

Linklater riesce a regalarci questa soddisfazione, questa completezza, armonizzandola con poesia, sentimento, aggiungendo suggestioni, giocando con l'immaginazione e con la parola e coinvolgendo nel suo film la stessa figlia ed amici di vecchia data, come Ethan Hawke. Questo senso di film intimo si respira e si tocca.

Un film che parla di crescita, lo fa sì dalla prospettiva di un bambino (appunto, "infanzia") ma è un elemento che accomuna ognuno dei suoi personaggi, e non potrebbe essere diversamente: 12 anni sono stati impiegati, a periodi alterni, per girarlo. 12 anni in cui gli attori sono invecchiati, ovviamente, e cambiati come i loro alter ego nel film.
È cambiato anche il loro approccio al progetto, il loro modo di recitare.
Vincendo gli ostacoli tecnici, realizzativi, legali (per dirne una la legislazione statunitentese non ammette la possibilità per un attore di sottoscrivere un impegno contrattuale per più di 7 anni) il sapore di quest'esperienza è dei più dolci, proprio in ragione della forza rivoluzionaria che ha pervaso l'attesa, l'intenzione (artistica di per sé) di creare qualcosa di mai visto prima.


Linklater può non aver prodotto la miglior sceneggiatura della sua carriera qui, ma ha di sicuro prodotto il suo miglior film: se per Hitchcock, che incarnava il modo di pensare hollywoodiano, il cinema era "la vita con le parti noiose tagliate", Boyhood è cinema sperimentale, a tratti neorealista, personale, e riempito dell'esperienza umana, che è in grado di indurre una riflessione sul viaggio mostrandocene direttamente e delicatamente i segni.
Boyhood è proprio "le parti tagliate", è la vita stessa, da cui attinge l'ispirazione.

Boyhood è esattamente questo, pur nel suo sforzo di raccogliere i momenti cruciali (per un totale di 143 scene) o alcuni di essi nello sviluppo dei suoi personaggi: raramente punta alla drammatizzazione, l'atmosfera è del tutto comune, familiare.
Le parentesi apparentemente insignificanti, i dialoghi moderati, i momenti di imbarazzo, i silenzi inespressivi; è il mondo che cambia davanti a noi, mentre non riusciamo ad accorgercene, a carpirne l'essenza.

All'impressione esteriore di volti e corpi in progressiva trasformazione si sovrappone un'interiorità in divenire che modella le relazioni e muove le prospettive, che si risolve in un velo di quasi spiritualità.

Un lavoro incredibile da sostenere, appassionato, stimolante, originale.

Più sul sentire che sul pensare, più sul vivere che sul senso della vita.

Se ne parlerà ancora, e molto.
Da non perdere.


Scena scelta











martedì 4 novembre 2014

Frank


79 - Frank (novembre 2014)




Jon ama canticchiare in cerca dell'ispirazione, la melodia giusta. Ha discrete abilità musicali ma mediocri idee compositive, oltre ad una singolare ossessione per il successo.
Cerca una sua personale originalità e la trova invece in Frank, geniale musicista che ha comunque la stravagante abitudine di indossare costantemente una grande testa di cartapesta.

Ne fa l'incontro nella prima delle tante scene surreali ed iperboliche che delineeranno il ritratto di una band dal nome impronunciabile (quella di Frank, quella in cui Jon entrerà) che è come un piccolo e bizzarro cerchio protetto all'interno di uno molto più sconfinato, quello della normalità.
La voce interiore è (auto)isolamento, è ricerca dell'eccesso, è la maledizione degli stereotipi e la fuga dalle realtà fabbricate e dolorose del mondo contaminato ed omologante.
Così Frank conquista il giovane Jon, aiutandolo a scoprire se stesso. In cambio, ne viene blandito e sempre più conquistato dalla sua smania di sfondare, di piacere.


In perenne bilico fra la commedia nera (a tratti quasi slapstick) ed il dramma esistenziale, Frank è un film che si eleva sulla mediocrità dei film di oggi proprio per il suo rifiuto ostinato ad essa.
Dentro, c'è una storia complessa, che parla di malattie mentali, tendenze suicide, perdita di sé, sconvolgimenti in serie. Dell'incapacità di accettare e di accettarsi secondo le regole imposte.

Mette in discussione tutto quello che pensiamo di sapere (o pensiamo di voler sapere), rovescia cliché e prospettive; nella sua pretesa di lanciare un messaggio non è pretenzioso, nella sua implicita anaffettività si espande in una richiesta di affetto che è ben facile riconoscergli per empatia.
Frank è molti di noi, oggi, qui, in questo tempo.

Siamo circondati da una società normalizzante, che si nutre di numeri di visualizzazioni on-line, amici virtuali, hashtags e che ha un bisogno abnorme di socializzare con estranei in tempo reale per dare un senso alla propria esistenza.
In una diluizione sempre più evidente di significati ed invidualismi, e di perdita di contatto con la realtà, Frank sembra voler gridare con gentilezza la propria voce stonata all'interno dell'assordante vuoto creativo, ideologico, culturale che ci invade.

Con la (sorprendentemente buona) musica in un sottofondo farsesco e al contempo esilarante, quest'esperienza è una presa di coscienza interiore, un inno alla marginalità dell'essere, ma allo stesso tempo una condanna al lasciarsi giudicare con troppa facilità, sotto il rifuggire delle pressioni di quel grande cerchio che va stringendosi, pericolosamente ed inesorabilmente.
Allo stesso tempo riflette su se stesso, mette in guardia dal suo stesso entusiasmo, che può rivelarsi un inefficace filtro per orientarsi nelle insondabili profondità dell'animo umano, impedendoci di distinguere nella stratificata realtà.


Non c'è veramente elemento di questo film che non concentri su di sé un carico di ilarità e che non strida a contatto con gli altri esattamente nella stessa misura in cui disfunzionale è il suo gruppo musicale e, alle orecchie della normalità, inascoltabile è la loro musica (immancabile, poi, il Theremin per un tocco alternativo).
Tutto questo si traduce in un brusio, cacofonico o meraviglioso, opprimente o liberatorio, fine a se stesso o da aggiustare perché piaccia anche agli altri.

Ma l'imbarazzo non è tolto; quando la maschera vola via (effettiva o per metafora quella di uno schermo virtuale di un account youtube) ciò che resta è la nuda realtà ed una disillusione da scoprire persino fra i nomi di ipotetiche cittadine del Mid-West U.S.A.


Un film dal grande richiamo emotivo, che va ben oltre la mera affermazione di uno stato mentale e che deve alla sua originalità il merito principale della sua, totalizzante, bellezza.
Buffo senza essere ridicolo, toccante senza essere molesto, malato senza essere morboso, diverso senza sentirsi colpevole.

Fra le righe di un Frank interpretato con grande impatto da un nuovamente ottimo Fassbender ed ispirato (con faccia posticcia e tutto) al Frank Sidebottom di Chris Sievey, si muove uno strato di resistenza ontologica al cambiamento, all'imponderabilità di una grandezza travolgente e come ad accoglierne il risultato, prende forma il processo creativo dell'arte stessa e del pensiero che vi confluisce.

Una salvaguardia della sacralità di un Io Pensante, a volte decisamente ai limiti dell'eccentricità e del weirdo di cui questo film fa un edonistico sfoggio, limiti che però è sempre lasciato alla soggettività definire.

Si ride, si pensa, si è intrattenuti con sapienza; a volte si ha la tentazione di allontanarsene perché straniante, impenetrabile, confuso, ma il film di Abrahamson ha tutto per incantare qualunque tipo di spettatore sotto la sua scorza apparentemente hipster che lo inquadra in un certo tipo di cinema di cui altri esempi sono Dummy o Lars e una ragazza tutta sua.

Fra i tanti misteri che lo rivestono c'è quello di un cinema fresco, intimo, che racconta di un mistero ancora più grande dentro di sé: quello di fare film nel 2014 che non siano un vacuo spettacolo di energie profuse solo per stupire, ma che lasciano un solco dietro di sé e, in qualche modo, si servono della realtà piuttosto che il contrario.


Scena scelta












martedì 23 settembre 2014

Snowpiercer


78 - Snowpiercer (settembre 2014)




Il nuovo viaggio mentale di Bong Joon-ho ha inizio su un treno, diciassette anni dopo la glaciazione che ha colpito e decimato la Terra. Ciò che ne rimane è racchiuso fra i suoi vagoni, con un'umanità evidentemente distinta in classi sociali ma allo stesso tempo connessa dal bisogno di unitarietà per continuare a sopravvivere.

Lo spunto del regista Coreano, che altro non è che una metafora capace di offrire una nuova e fresca angolazione su un tema antropologicamente interessante, è talmente pregno di intrigo, di prospettive e di scenari su cui far girare l'immaginazione che riesce molto difficile non venirne catturati sin dalle sue, concitatissime, battute iniziali.

Come va di moda ultimamente nel genere fantascientifico-distopico (vedi Hunger Games) si parla di una rivolta, di disuguaglianze economico-sociali e si legge il tutto con la provocazione di una condanna allo status quo in cui il potere cessa di essere malefico o intimidatorio; riesce ad essere inquietante per contrasto e stravaganza, non si nasconde ma anzi si mostra apertamente, evidenzia nei suoi ruoli iconici una tratteggiatura al limite del caricaturale.

Le classi più povere, che devono fare i conti ogni giorno con la morte, ne conoscono la drammaticità e ne sono portatrici; quelle più agiate hanno accesso ad un maggior numero di informazioni ma sono calcolatrici e avide in un senso farsesco, compiaciuto.

Bong Joon-ho prende a prestito molto dal genio surreale di chi l'ha preceduto (ad esempio Gilliam), ma nella sua riverenza si permette di lanciare un messaggio che rischia di essere molto più rivoluzionario di quello dei precedessori, sfiorando il capolavoro.
Il problema è che lo fa timbrando il suo lavoro di un effetto pulp che fa molto "commistione fra più modi diversi di vedere il cinema", calando sul film una catarsi che richiama il Revenge-Movie di grande inflazione nel cinema asiatico, che non convince del tutto.

La mescolanza di genere non rende un grande servizio al film, in parte perché qualunque tipo di analisi o di riflessione ne esce un po' ridimensionata, annacquata e in parte perché le performances volutamente sopra le righe (su tutte Tilda Swinton) dei suoi attori finiscono spesso per cadere nell'assurdo, ben oltre l'effetto grottesco desiderato.

Tanti gli elementi di continuità stilistica da parte di Bong Joon-ho, che però a differenza di un buon horror con poche pretese com'era stato The Host era chiamato ad un salto di qualità nella sua prima produzione non rigorosamente Coreana, con finalmente la possibilità di dirigere attori di grande livello internazionale. Qualcosa che non gli riesce fino in fondo.

Ed in effetti il film non è uno di quelli che sarà ricordato in eterno. Per i tempi che corrono è abbastanza divertente e solido, ma accusa colpi man mano che avanza e si perde un po' sotto la sua stessa pesantezza prima di portare ad un finale comunque riuscito.
L'azione, onnipresente, non solo è invadente ma neanche particolarmente brillante nella sua resa.
Bong Joon-ho, tecnicamente a suo agio in quelle scene, le dirige con personalità ed offre un quadro visivo di grande effetto, ma perde di vista troppo spesso la fluidità del racconto ed il suo significato per dirci qualcosa che già non sapevamo, sul tema o sul suo modo di fare cinema.

Rimane un prodotto di buon livello, ma senza particolari picchi o echi da tramandare ai posteri.


Scena scelta







lunedì 3 marzo 2014

American Hustle


77 - American Hustle (marzo 2014)




Irving Rosenfeld da piccolo truffatore occasionale si ritrova ben presto e suo malgrado in un'operazione dell'FBI di portata nazionale escogitata dall'agente Richie DiMaso che ben presto si rivela fuori controllo. La vera storia dell'operazione Abscam andata in scena negli anni '70 e che ripercorre la storia di quell'America.

Sulla storia non c'è molto altro da dire, se non che è tragicomicamente aderente ai fatti e che i personaggi con le loro bizzarrie ne estremizzano ulteriormente i caratteri. Gli intrecci si reggono infatti tutti sul loro aspetto fisico e sulla loro tratteggiatura psicologica, su cui il film preme molto aggiungendo una narrazione fuori campo che, assieme all'argomento del film, ammicca al noir (la femme fatale della Adams) proprio di quegli anni.

Lo stesso fanno costumi e scenografia, oltre che musiche, assolutamente all'altezza. La regia di Russell non è priva di alcuni buoni momenti ed è essenziale, asciutta nel dare voce al cast, di prim'ordine, che è l'unica vera cosa che risalta.
La bravura di Bale non conosce limiti, se la cavano benissimo anche A. Adams, J. Renner e B. Cooper, mentre l'asso nella manica è Jennifer Lawrence la cui importanza attoriale oltre che evidente non è né sorprendente né marginale.

Gli acuti recitativi, che fra l'altro annoverano un'incursione di R. De Niro, riescono a sopperire in parte ai ritmi tutt'altro che impressionanti, con una sceneggiatura a tratti molto poco convincente e le cui stravaganze sortiscono l'effetto di distogliere l'attenzione dello spettatore, rapendolo e portandolo in una dimensione né prettamente drammatica né precisamente comica.

L'impalcatura narrativa è molto vecchia e pesante, poco sopportabile nel suo complesso e non basta qualche battuta per farcelo dimenticare, anzi semmai lo rende più evidente. Anche l'introspezione funziona poco e sembra più un riempitivo che un'effettiva necessità.

La conclusione è che il successo pubblicitario di cui ha potuto godere sta quasi esclusivamente nei nomi dei protagonisti (incluso un David Russell che perde qualcosa rispetto a The Fighter e Il lato positivo) e nella grossa spinta mediatica, perché anche se c'è una storia curiosa che è simpatica da ascoltare, attori bravi (ma non eccelsi) e la fattura del film sia più che buona, questo rimane un film che non raggiunge né una originalità né una profondità né un intrattenimento né una suspence tale da definirlo importante; cioè, un film di cui si poteva tranquillamente fare a meno.


Scena scelta










domenica 2 marzo 2014

12 anni schiavo


76 - 12 anni schiavo (marzo 2014)




McQueen sceglie l'odissea di Solomon Northup, basato sull'omonima biografia, per affrontare da regista di colore britannico qual è il tema dello schiavismo americano.
Una storia essenzialmente straziante che vede il suo protagonista, da un giorno all'altro, essere svuotato di tutto ciò che ha e quindi di tutto ciò che è.

Con questo atto introduttivo, McQueen inizia quindi la sua opera di messa a nudo (non solo dal punto di vista fisico): il suo film è inevitabilmente legato all'esperienza del dolore come lo sono stati prima Hunger e poi Shame; anche qui c'è tutta una esteriorizzazione della sofferenza che non è solo quella apertamente ostentata nella violenza delle torture e nelle punizioni corporali, ma che si trova anche fra esilii e lontananze, nelle lettere scritte e poi bruciate, nell'incapacità di trasmettere gioia ad un corpo che riconosce le note di un violino suonato.

In una cornice scenica ricreata ad arte dove è illustrata con dettaglio la condizione della schiavitù e dove si incastrano le vite che incontriamo lungo il cammino, la prospettiva che ci viene regalata è quella di un uomo ferocemente aggrappato alla propria umanità: un uomo che in 12 anni di segregazione è costretto a compiere atti disdicevoli per sopravvivere, ad ignorare i propri impulsi e sentimenti umani ma che cerca al contempo di non perderli del tutto.
È questa determinazione, racchiusa nella penosa compostezza del suo protagonista a parlare fra le righe di un film altrimenti amorfo.

Una prova non facile per Chiwetel Ejiofor che però si dimostra all'altezza di un cast che comprende Fassbender, Giamatti, P. Dano, B. Pitt e che dà all'insieme probabilmente la maggior ricchezza attoriale ed espressiva fra i film di punta di quest'anno.
Una recitazione notevole che ha il merito di oscillare fra bene e male senza ridurre il tutto ad una vuota rappresentazione manichea sul rapporto schiavo-padrone e senza soprattutto regalare sensazionalismo o retorica, prede facili nella trattazione di una realtà simile.

Anche la dicotomia bianco-nero non è gretta, superficiale nel suo corrispondere a male-bene; l'intento di McQueen sembra invece quello di cercare disperatamente, attraverso gli occhi del suo protagonista, proprio qualcuno che possa smentire questi stereotipi ed è a questo prezzo, a questo rischio implicito, che il regista vincola la difesa della propria dignità, la conservazione del proprio spirito.
Lavorando con la cinepresa, McQueen offre una vastità di cenni ai rituali, alla ripetizione (come in quell'atroce piano sequenza dell'impiccagione), in parte per trasmettere l'idea claustrofobica di un tempo che sembra non passare mai - la resa qui non è perfetta ed è fra i difetti del film - e in parte determinando una sorta di scissione fra materia e anima perorando in un certo senso l'ipotesi che la seconda possa sfuggire o anche sentirsi fortificata nell'afflizione inferta a ciò che la contiene solo se adeguatamente nutrita con la negazione della sottomissione.


In tutto ciò, a spiccare sono sicuramente le scene più brutali e truci, ma il film non se la cava con facili scorciatoie o morali. Tentare di rimuovere le falsità senza venire a compromessi e promuovendo allo stesso tempo qualcosa di diverso per raccontare di un lirismo simbolico disseminato ovunque è qualcosa che fa di questo film un film a suo modo audace, originale: impara la lezione dai suoi predecessori ma ci aggiunge un'angolazione fresca, personale e rimuove le censure così da compenetrare lo spettatore e renderlo partecipe di qualcosa che non si ferma ad una nuda narrazione schematica, ma che vuole lasciare il marchio indelebile in ciò che racconta.

Fra tutto quello che funziona in questo senso, da ricordare anche il ritratto offerto dalla performance di Lupita Nyong'o, che nella sua capacità di incrinare e agitare le coscienze, ha un'influenza importante su quello che per estensione ed intensità non può che essere un soverchiante sentimento di sopraffazione difficile da digerire che il film è molto attento a non sminuire e che porta con sé fino all'ultimo respiro, ansimante, del suo protagonista.

Scena scelta










sabato 1 marzo 2014

Dallas Buyers Club


75 - Dallas Buyers Club (marzo 2014)




Quando per una serie di cause fortuite Ron Woodroof riceve la notizia di avere contratto l'HIV, assieme ai suoi occhi si apre anche il sipario su una malattia, l'AIDS, che funge da soggetto di una vicenda personale a tinte fortemente drammatiche ma che è anche oggetto di indagine sociale, rivelatrice di un sostrato di omertà, collusione e sofferenza seppellito sotto alla normalità del pregiudizio.

Lo sfondo sociale, molto più che accennato, non è casuale: siamo nel Texas dalle idee conservatrici ed omofobe degli anni '80, dove la dimostrazione virile (evidente sin dalla prima scena) e mentalmente ristretta, nel suo semplicismo dogmatico con cui ricollega la malattia all'omosessualità (evidente nel riferimento a Rock Hudson), determina i tratti di un uomo che è figlio di un ambiente che è anche quello che lo scarica non appena viene a conoscenza della sua condizione.

McConaughey incarna, in una performance che gli è valsa il plauso della critica, questa figura prima machista e poi tollerante, perché forzato alla tolleranza prima di tutto verso di sé e perché la malattia rappresenta il momento fondamentale in cui ogni atto di ignoranza deve essere messo da parte.

Nell'evoluzione che l'attore sopporta sulle sue spalle, assieme al resto del corpo ridotte a poca roba dopo gli oltre 20 kg persi per la parte, c'è un percorso di comprensione del dolore e soprattutto delle logiche con cui si viene ad avere a che fare con esso che è un colossale atto di denuncia delle più minacciose pratiche di inciviltà e di ingiustizia sociale.

Da una parte, lo sbugiardamento del cliché trogloditico nei confronti di un tema evidentemente considerato con superficialità e dall'altra il parziale inseguimento di quello stesso ideale giustizialista già visto nell'Andrew Beckett di Tom Hanks in Philadelphia salvo che questa volta il bersaglio contro cui puntare il dito è quello delle case farmaceutiche e dell'FDA, oltre che più in generale del sistema assistenziale-ospedaliero americano, nell'attacco feroce del film, più orientato all'interesse privato che al benessere dei suoi malati.

Nasce così il Dallas Buyers Club, come tentativo di affermare il principio della lotta sociale, di una causa comune portata avanti con l'impronta di una disperazione legata al tempo che fugge che è fotografata nei corpi scarni e trasformati dei due protagonisti (dove anche il trucco lascia il segno).

È un film di attori, in cui l'aspetto che più risalta è proprio la recitazione, e che vuole sollevare questioni, riaprire ferite e continuare una battaglia che ha vissuto momenti peggiori di questo, ma che non è finita.
McConaughey e Leto si completano, si attraggono e si repellono allo stesso tempo, compiono qualcosa di artisticamente meritorio e specialmente il primo è una grande sorpresa. Il regista tende a non intromettersi nel loro stato di grazia ed evita il più possibile di togliere la cinepresa dalla faccia del suo protagonista, al punto che lo spazio ritagliato al supporting cast è così marginale che solo la recitazione qua e là impressionante di Leto riesce a farci dimenticare quale one-man show sia in realtà questo dramma (il che però allo stesso tempo la dice lunga sulla sua bravura).

La storia ritratta è, ancora una volta, infallibile nella sua raffigurazione, per quanto nei ritmi non sempre eccelsa e condizionata da quel genere di performance che riescono poche volte nella vita di un attore.
Un film comunque che pur distinguendosi non è eccezionale, che si tinge di verità nella sua denuncia ed entra nella sfera di un civil right movie con più prospettiva ancora.

Uno sguardo furioso e insieme pietoso raccolti in un'esperienza che ha molto di corporeo, di umano, di vero, di aderente ma a cui l'interpretazione caparbia, orgogliosa e trionfante di McConaughey regala una nuova dimensione; e al film una lontana grandezza.


Scena scelta










venerdì 28 febbraio 2014

Philomena


74 - Philomena (febbraio 2014)




Il dramma di Philomena Lee, rinchiusa in un convento Irlandese in giovane età a seguito del concepimento del figlio, portatole via con la forza, che da allora tenta affannosamente di ritrovare. Parallelamente, un giornalista appena colpito dal fuoco incrociato della politica perde il suo lavoro e trova, in Philomena, precisamente la storia che stava cercando per scriverne un libro.

Ci viene presentato un terribile sopruso che abbraccia un arco temporale di 50 anni, da una poco più che bambina ad una ormai anziana e tormentata donna che ha vissuto sulla sua pelle un'espiazione imposta per un peccato che in realtà ha compreso, accettato, sebbene sofferto, perché è parte della sua natura semplice, arrendevole, incontaminata.

Frears, da ottimo e navigato regista qual è, è pienamente consapevole del cast che ha a disposizione: la chimica fra un'amabile Judi Dench ed un caustico Steve Coogan è talmente forte da riempirne di colore i personaggi e, quindi, la storia intera.
Fra i due scatta una sorta di botta e risposta continuo che trae ispirazione dalle marcatissime differenze, sul piano sociale e filosofico pianeti lontani, ed alimenta quella sottile ironia molto british che scava nel terreno compatto di ricordi difficili da rimuovere; altri in attesa di ricevere una casa in cui abitare, un significato.

C'è una storia che è effettivamente trasportante (e a tratti veramente inquietante) ma c'è soprattutto lo scontro verbale, filosofico, ideologico fra due stati d'animo, due modi di convivere con se stessi, due sensi d'appartenenza diversi; e questo contraltare magnifico completa un film lucente, toccante, senza sembrare mai ipocrita, in cui la Philomena di Judi Dench riesce a far parlare più gli occhi della voce, non prende lezioni che non restituisca puntualmente svuotate di cattiveria (parola che aborrisce), conferisce ad un'immagine chiusa, isolata e segnata dal dolore in una mente avulsa da un certo tipo di mondo che non ha mai conosciuto tutta una serie di gradazioni che rendono il personaggio memorabile, ed ogni esitazione, ogni ostinazione sanata da una sensibilità che ha imparato a modellare sul tempo strappatole via dalle mani.

Oltre a questo, c'è anche la contrapposizione inevitabile fra chi vive e chi ha vissuto, come se una specie di flashback molto veloce rapisse e smarrisse gli anni; come se si avvertisse candidamente l'esigenza materiale di dare un valore al tempo, e non necessariamente tramite le risposte sulla carta rilegata di un libro.

La regia di Frears è minuziosa, graffiante e paternale insieme. Affida a Coogan (che è anche co-sceneggiatore assieme a Pope di una storia vera ed ispirata a The Lost Child of Philomena Lee di Martin Sixsmith) il ruolo provocatorio (e divertente) ma ordinato di chi tenta di accendere una luce fra le ombre proiettate con somma eleganza dalla Dench.

Potrebbe facilmente perdersi nella polemica, invece si raccoglie e trova in un ultimo barlume di finezza la sua ultima parola. Che è anche quella che resta nell'aria, mentre scorrono i titoli di coda.


Scena scelta










The wolf of Wall Street


73 - The wolf of Wall Street (febbraio 2014)




Jordan Belfort è un tipo che, resistendo alla sua provenienza dalla middle-class americana degli anni '80, alla sua prima esperienza da broker ai piani alti di Wall Street conclusasi in fretta con il crollo della borsa e all'insopportabile idea di essere solo una persona come tante altre nella folla, si fa largo e diventa esattamente la persona che ha sempre voluto essere.

Lui è un venditore "nel paese dove tutto è in vendita", dove la facciata conta più della sostanza, il ricco più del povero, l'ottimismo più della mediocrità; dove gli si offre il fianco, completamente fertile, di un'industria capitalista che avanza a gran passo e in cui trova una commisurazione della propria sfrenata ambizione, della propria capacità di vivere al limite.

Si trova nel posto giusto, al momento giusto. L'eccitazione, l'irriverenza, la voglia di prendersi tutto e subito non fanno che accompagnarsi ad uno stile di vita che è lì bello pronto, che sia lui o qualcun altro a raccoglierne l'eredità.

In questa vanagloriosa e spasmodica corsa beffarda, provocatoria e sempre destinata all'eccesso che ha come epicentro il dollaro (che è quello che trasforma la considerazione di sé ed è quello che può comprare anche un "no" come risposta) e che tocca inevitabilmente per vie traverse tutto ciò che esso corrompe, trova sedimento l'ascesa di Jordan Belfort, il quale non è poi altro - così come tutte le persone più care di cui si circonda - che un attore che sa recitare meglio di altri in un paese scarno, dalla morale decadente e la scala di valori distorta. Dove esiste un prezzo anche per l'umiliazione.

Regna il fasto, l'autocelebrazione, siamo in presenza di un viluppo di futilità convertito sul piano scenico in un'orgia di denaro, sesso, potere, magnificenza. Dove le droghe ingrossano le arterie di un corpo costretto a seguire ritmi e logiche, regole e misure assurde di un mondo assurdo, dove il teatro di ostentazione in cui i personaggi si muovono ha sempre un pubblico davanti a cui esibirsi. E con orgoglio (come la citazione a "Freaks" insinua fra le righe).

Il nuovo Scorsese è estremamente divertente, denso, dai ritmi impazziti, muove la sua camera all'unisono con il suo protagonista: non si sta letteralmente dietro ad un Di Caprio tirato a lucido che regala un'altra interpretazione da sogno, il quale ci guida lungo l'arco di una narrazione sicuramente intensa (per una sceneggiatura, mastodontica, dello stesso Terence Winter di Boardwalk Empire e Sopranos) anche se non impeccabile per ridondanza e che finisce un po' per strafare nel sottolineare il concetto, che costruisce e distrugge allo stesso tempo.

Tutto è vacuo, aleatorio; il film, a tratti anche sgraziato, è il primo a non prendersi sul serio (non a caso nel cast troviamo Jonah Hill - anche se perfetto - Rob Reiner, Jon Favreau, Ethan Suplee, cioè gente che viene dalla commedia) e a premere sul parossismo e sull'esagerazione continua, ma sta qui tutta la forza del suo film: è tutto così lontano dall'essere irreale! La risata, anche se decontestualizzata, anche se sempre conseguenza di un controllo incerto, è risonanza di un disturbo sul quale non si può che essere calcolatamente compiacenti per smascherarne l'ipocrisia.

È nell'iperbole che Scorsese individua il mezzo per giungere al punto di non ritorno, quel particolare punto in cui si capisce che una Ferrari spinta a tutta velocità prima o poi deve fermarsi e fare i conti con la scia di cadaveri che ha lasciato per strada; la morale è dietro l'angolo e per quanto fastidiosa è nettamente anticipata dalla catastrofe.


Sorretto da un cast invidiabile e come detto da un Di Caprio che alza il valore del film all'n-esima potenza ma la cui elettrizzante prova è sostenuta anche da un montaggio molto di mestiere e da una regia che al solito non ha nulla che non funzioni, da parte di Scorsese, questo è un film sicuramente più pop e apparentemente più "di pancia" rispetto ai suoi recenti. Apparentemente perché non è privo di critica e riflessione, ma è anche vero che, pur ricordando in piccola parte i suoi capolavori come "Goodfellas" o "After hours" e pur mantenendo un vigore nel racconto degno del miglior Scorsese, manca di una benché minima pretesa.

Ma il film è esilarante, esplode fra le mani di un pubblico probabilmente abituato ad altro con questo autore, disorientato nel ritrovarsi davanti una grande, maestosa, commedia dove si celebrano due funerali: quello della vita (vera) ai vertici di Jordan Belfort e dell'America in cui viveva e vive. E in entrambi i casi, udite udite: c'è da farsela sotto dalle risate.

Scena scelta










giovedì 27 febbraio 2014

Captain Phillips


72 - Captain Phillips (febbraio 2014)




La storia vera della Maersk Alabama, capitanata da Richard Phillips, che nell'aprile del 2009 fu presa d'assalto e dirottata ad opera di pirati Somali al largo del corno d'Africa, a sua volta trasposta sul grande schermo da Paul Greengrass e sceneggiata sulla base dell'autobiografia dello stesso Phillips "Il dovere di un capitano".

È la messa in scena degli eventi, con l'eroe Phillips (Tom Hanks) che spicca, per coraggio, astuzia e grande senso di responsabilità per la protezione del proprio equipaggio sulle feroci e disperate umanità dei suoi rapitori, con l'oceano a fare da sfondo a quello che è, in buona sostanza, la narrazione di un salvataggio.

Greengrass si prende qualche momento per fare il punto della situazione, tenta quantomeno - in modo impacciato - di contemplare i punti di vista in gioco, e poi preme a tavoletta sull'acceleratore per più di un'ora e mezza con un'intensità e ritmi mai visti che hanno il compito di far impennare la suspence. Con buon successo. Peccato solo perda di vista l'occasione di dare un significato all'insieme.

Si tratta infatti di un buon film d'intrattenimento (e assolutamente niente di più) che non si può dire fallisca nel suo intento primario; riesce ad imporsi subito con grande enfasi, frenesia, con il tempo che sembra volare mentre la situazione si evolve.
La regia è concitata, la fotografia efficace. L'alta tensione è portata in dote dall'elettricità dei suoi personaggi, ma è innegabilmente ben reso il contrasto psicologico fra l'agitazione e l'inquietudine degli uni e la calma ordinata dell'altro, maschera portata su di un volto probabilmente terrorizzato.


Però è un film che solleva tante riserve sulla sostanza: c'è il virtuosismo tecnico fine a se stesso, c'è l'interpretazione sopra le righe stampata a lettere cubitali nel melodramma dell'eroe che non perde mai la sua integrità, c'è in addizione il solito bagaglio di retorica che davvero non può mai mancare in storie come questa, la descrizione bidimensionale dei personaggi, lo sfoggio virile del grande arsenale militare americano a suggello della rassicurante opera di celebrazione di potere Americano.
E c'è il ritorno a casa.

Sarebbe ingeneroso accusare il film di essere un'Americanata nel senso più acre del termine. Ma si può senz'altro azzardare che se negli oltre 120 minuti di adrenalina di film, condensati in modo tale da portare allo sfinimento nervoso lo spettatore, anch'esso partecipe delle disavventure del suo paladino, il film avesse in qualche modo ottenuto di dedicare più di tre o quattro battute e qualche sottigliezza all'approfondimento della questione e alle condizioni inumane del popolo Somalo, alle vere motivazioni delle azioni dei pirati, comprese le implicazioni e le ripercussioni sul piano socio-economico legate alla guerra civile degli anni '90, allora avrebbe probabilmente restituito un film più sincero, più attento, e permesso al suo pubblico di prendere una posizione più consapevole e approfondita su un tema che, sicuramente, non merita di essere trattato con superficialità.

Non che del resto il film voglia essere smaccatamente patriottico (solo quel tanto che basta per alleviare i sensi di colpa nel guardarsi allo specchio) però sicuramente si fa prendere la mano e porta a casa un risultato tutto sommato fra i più prevedibili della storia del cinema, spingendo sul sano ottimismo americano che ce la fa sempre, e con un Tom Hanks che, sì, prova ad uscire dai ranghi del suo classico canovaccio ma che non convince mai del tutto, probabilmente perché la parte del bravo cittadino americano gli è cucita addosso alla perfezione.

Senza badare al contesto e a tutto quello che può dar fastidio accendendo il cervello, invece, buonissimo thriller (nel suo genere).


Scena scelta










mercoledì 26 febbraio 2014

Her


71 - Her (febbraio 2014)




Theodore vive un complicato rapporto con se stesso. Ipersensibile e solo, dopo la rottura e la prospettiva dell'imminente divorzio dalla moglie Catherine, consuma le sue giornate a scrivere lettere in cui manifesta i propri sentimenti per conto di altre persone che non hanno tempo né le sue capacità.

Il rimestio nostalgico dei ricordi, combinato alle difficoltà di adattarsi alle leggi di un mondo che sarà pure tecnologicamente avanzato ma resta fondamentalmente la stessa giungla che conosciamo, ci introducono alla visione di Jonze, che parte dalla promessa di una frontiera tecnologica in cui sia possibile interagire con un'intelligenza artificiale avanzata, in grado non solo di replicare un'intelligenza umana ma di sviluppare una propria coscienza, per affrontare l'irrisolto rapporto uomo-macchina, in chiave romantico-sentimentale.

Ma c'è molto di più, in realtà: nell'accettazione generale con cui questo ipotetico futuro recepisce a tutti i livelli le dinamiche e le interazioni fra uomo e realtà virtuale e pur nello scetticismo tutto sommato moderatissimo che fa da sfondo ai legami fra uomini e 'OS', si studia attentamente l'idea che l'interdipendenza fra di essi non sia altro che il preludio ad una accresciuta coscienza di sé, la quale porta quasi inevitabilmente però conseguenze diverse per le due entità, in progressivo allontanamento.

Così, l'A.I. non essendo vincolata ad un contenitore fatto di carne e ossa e quindi dispensata dalla minaccia del tempo che scorre, può travalicare le pieghe del tempo e dello spazio stesso; ciò che all'uomo non è concesso, ed oltre a questo, si percepisce chiaramente il timbro con cui Jonze nella sua sceneggiatura memorabile, cervellotica ed emotiva allo stesso tempo, ci chiede di ricordare per l'ennesima volta come l'uomo si approcci a qualcosa di potenzialmente più profondo e sconosciuto quasi sempre per gioco, perché effettivamente spaventato, disorientato, oppure perché limitato da un tipo di evoluzione che gli ha insegnato qualcosa che ancora non riesce pienamente a comprendere; perché ragiona ancora in termini di distanze fisiche, rapporti di biunivocità, perché ancorato ad una dimensione corporea che ne mina l'esplorazione individuale.

Il film di Spike Jonze, che nasce dall'esigenza fisica di confrontarsi in modo cerebrale, molto attraverso la parola, ma comunque riuscendo a trattare tematiche tendenzialmente legate alla commedia sentimentale senza chiederci di spegnere il cervello (tutt'altro), cosa già di per sé notevole, vuole in fondo a sua volta spaziare ed esplorare con una lettura più ambiziosa, provocante e a tratti surreale un fenomeno cui la nostra odierna società sta tendendo, indagando sulle cause dell'immobilismo e sulla parabola dell'esistenza in senso esteso, e su come sia l'insoddisfazione a generare la ricerca di risposte piuttosto che il contrario.

Lo fa sempre con una delicatezza di fondo indescrivibile, ma non certo sottraendo allo stimolo della fantasia il rovescio della medaglia; il taglio fortemente melancolico che riveste l'intero lungometraggio vive e risente degli stessi stati d'animo e dei cambi d'umore del suo (suoi) protagonista (i) - un Joaquin Phoenix la cui sagoma è infallibile per questo genere di ruoli e la voce, carica di espressività, di Scarlett Johansson - e in questa sorta di montagna russa assillante trova piena evasione la pulsante vena lirica che riempie le profonde sfumature di grigio in cui perdersi sembra essere il solo modo possibile per riacquistare la prospettiva di sé e permetterle di crescere.

Opera matura di Jonze, risolutiva, dal linguaggio diretto, che non si risparmia l'amara ironia di una sofferenza annunciata, eppure vive di una grazia rara da trovare, e si contornia di tutta una serie di elementi d'atmosfera, a cominciare dalla meravigliosa colonna sonora firmata nientemeno che da Arcade Fire e Karen O (degli Yeah Yeah Yeahs), che rendono l'esperienza non solo esteticamente valida ed inebriante ma anche tremendamente pragmatica. E necessaria.


Scena scelta










martedì 25 febbraio 2014

Nebraska


70 - Nebraska (febbraio 2014)




Da quando ha scoperto di essere il vincitore di un fasullo premio milionario da ritirare a Lincoln, Nebraska, Woody Grant percorre tutti i giorni a piedi la distanza da casa sua, nel Montana che solo la bontà d'animo e di presenza del figlio David gli impedisce di compiere completamente. Finché quest'ultimo non capisce che il padre non ha nessuna intenzione di lasciar perdere e decide di mettersi in viaggio per accompagnarlo di persona.

Il vecchio (un monumentale Bruce Dern), alcolista, credulone, tendenzialmente intrattabile, in ostinata ricerca di qualcosa che la sua vita non sembra avergli spiegato con la massima chiarezza, e bonariamente incapace di badare a se stesso si scontra con il proprio ruolo, evidentemente ormai ingestibile, in un mondo - e più in particolare nel microcosmo della sua famiglia allargata - che lo considera niente più che una persona di cui prendersi gioco, su cui si può fare poco affidamento, se non addirittura da sfruttare.

Il pretesto della presunta vincita funziona dunque perfettamente nel far tornare conti che Payne aveva mirabilmente previsto sin dall'inizio, in questa sua ennesima chicca che si va ad inanellare in quella serie di dramatic comedy che sembrano portare il suo marchio di fabbrica dopo Sideways.

Ed in effetti il regista è talmente bravo a caricare ogni singola situazione e personaggio di intelligente ironia che acquistano tutt'altra luce quei ricordi sommessi, a singhiozzo, che si fanno strada nella strada (on-the-road come da copione) creando familiarità con un personaggio forse difficile da inquadrare ma sicuramente impossibile da detestare, tanta è la tenerezza che ispira e la comicità che trasuda da ogni espressione, ogni sguardo lanciato, ogni risposta secca.

Al cliché dell'anziano brontolone e bisbetico, Payne implementa dunque la sua visione della vita estendendo il proprio raggio d'azione qui anche ad un confronto fra generazioni (i due figli proprio come lui sembrano entrambi ben lungi dalla felicità nonostante il divario mentale e culturale che li separa) in cui proietta un raggio di speranza, come a voler immedesimarsi in quel David Grant e a sottoscrivere con coraggio la sua testimonianza a non fregarsene, come a volerci dire che le buone intenzioni sono rare, ma quando sono sincere compensano e superano tutto il resto perché capaci di segnare un momento e forse una vita.

Giocando su piani diversi, il tempo scorre più velocemente di quanto sia possibile controllarlo ed il solo modo di appropriarsene sembra essere lasciare qualche segno di sé lungo il percorso.
L'irrequietezza di Woody lo porta continuamente alla ricerca di qualcosa, che sia qualcosa di fisico come la dentiera persa fra le rotaie o che sia simbolico come la strada da percorrere verso un premio da ritirare ma se il punto per altri rimane la compagnia durante l'attesa, per lui nessuna discussione può realmente valere la fredda concretezza di qualcosa di utile ed è curioso come a tratti questo cinismo si amalgami bene alla leggerezza dell'insieme; una sensazione indefinita che aleggia sopra le teste di tutti i personaggi, riconvertendo la malizia in stupidità e l'impellenza dell'azione in ilarità.

Non c'è una singola voce che non contenga in sé un tratto comico, ma la cosa bella è scoprire che c'è un finale lì ad aspettarti che supera le migliori attese.

Piccola curiosità: il film oltre ad aver preso in considerazione Bryan Cranston per il ruolo principale, condivide con Breaking Bad l'attore Bob Odenkirk che proprio nella serie lo citava.


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Gravity


69 - Gravity (febbraio 2014)



Spazio. Un incidente con un satellite provoca una pioggia di detriti devastante per lo shuttle e per l'equipaggio di cui fa parte la dottoressa Ryan Stone, assieme all'astronauta Kowalski l'unica sopravvissuta all'impatto e privata di qualunque possibilità di comunicare con la base.

Il panico che fa da sfondo a questi primi minuti, esploso in un crescendo assolutamente micidiale dopo una breve carrellata di personaggi e situazioni cui ci introduce Cuarón - la classica quiete prima della tempesta, verrebbe da dire - è ottenuto con rara maestria dal regista messicano, in totale controllo della cinepresa, del suo cast, delle immagini.

Se c'è una cosa su tutte che avvalora questo suo lavoro è proprio la sua capacità di rapire con immediatezza l'attenzione di uno spettatore che non è tenuto ad approfondire background e psiche dei personaggi, ma che impara a conoscerli nel corso degli eventi, facendosi strada fra ciò che la cronaca del film gli presenta con urgenza e scegliendo di dosare e calibrare le informazioni in suo possesso solo dopo essere già stato messo nella condizione di non poterne e volerne fare a meno.

In altre parole, questo ottimo film prima ancora che nella buonissima recitazione della Bullock, "costretta" a tenere su baracca e burattini praticamente da sola, e nella sceneggiatura (nel complesso non eccezionale anche se sicuramente non facile da riempire e in questo è da apprezzare anche la scelta di non spingere troppo sulla durata) trova nello strapotere delle immagini il suo vero atto di forza; una prepotente e insieme affascinante dimostrazione di come trasformare l'immaginario umano, con esso comprendendo anche i sogni e gli incubi più terrificanti, in drammatica realtà, pur se scenica.

Quello di cui ci convincono i protagonisti - soprattutto la dottoressa dato che la macchietta di Kowalski, un personaggio molto americano cui Cuarón forse deve pagar dazio sembra uscire da un film di Emmerich con tanto di faretra di spacconate e di freddure antipanico al seguito - è di essere lì con loro, in quel momento, in quella vista assolutamente meravigliosa e agghiacciante allo stesso tempo, come il confronto fra uomo (piccolo) e ignoto, o universo (immenso) che si reitera anche qui ci tende a ricordare spesso.

C'è tutta una sorta di ansia, ingenerata sì dagli eventi ma, come l'ossigeno che sembra mancare ai suoi personaggi, necessaria al film per potersi avviluppare e distendere con proprio agio lungo un percorso che via via perde qualche colpo, ma ha il merito oggettivo di determinare un tale livello di coinvolgimento da non permettere facili distrazioni e anche nei passaggi intermedi non si notano quasi mai forzature tali da gridare al falso.

Ci sono, inevitabilmente, alcuni tratti che giocoforza rendono il personaggio "troppo" umano, come se si insistesse a premere un tasto per tentazione, per automatismo. Ma Cuarón non è bravissimo in questo, e anzi, su quest'aspetto calca decisamente la mano finendo con il lasciare tutto il film all'espressionismo della Bullock, ma riuscendo tutto sommato a trovare un'impronta personale e genuina, evidente oltre che in certe macchinazioni anche nel suo cedere al richiamo affettivo (come i riferimenti a 2001: Odissea nello spazio o a Méliès), che gli consentono di produrre qualcosa di tecnicamente mostruoso ma ad un tempo tutt'altro che gelido o distaccato.

Lascia invece senza parole nel far parlare apertamente l'eloquente fotografia di Luberzki (già noto per la collaborazione con Malick, un altro che di estetica delle immagini se ne intende) ed estrae dal cilindro uno dei migliori film di quest'anno.
Nonché uno dei maggiori thriller degli ultimi anni.

La lode non ci sta, ed i canoni non troppo classici non sembrano lanciarlo verso la statuetta dell'Academy, ma al grande giudizio complessivo toglie nulla.


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domenica 23 febbraio 2014

Il sospetto


68 - Il sospetto (febbraio 2014)



Lucas, un insegnante d'asilo con passato nebuloso e rapporti pendenti incrinati con la famiglia viene messo in una fragile posizione quando una bambina, Klara, dà ad intendere di essere stata da lui molestata. Non fosse che, probabilmente per una piccola ripicca infantile e certamente nascondendoci qualcosa, la bimba si sia inventata tutto di sana pianta.

Ma la parola è seminata con una tale veemenza, propria dell'ingenua e naturale franchezza dei bambini, che immediatamente viene accolta all'interno di tutta la comunità, trasformandone i connotati.
E dato che con una adeguata cassa di risonanza anche il più piccolo sussurro può trasformarsi in un boato terrificante, nasce e si ingrossa, passando di bocca in bocca e di pregiudizio in pregiudizio il sospetto.

Il film di Vinterberg si focalizza su un argomento tanto delicatissimo quanto ricco di sfaccettature; sicuramente sociologicamente zeppo di spunti interessanti.
Assistiamo di fatto al progressivo inspessirsi di una metaforica lente, una lente che ogni membro della società adotta con Lucas e che ne determina via via la colpevolezza, attraverso la perdita o l'offuscamento della prospettiva opposta.

Non si tratta cioè propriamente della certezza della colpevolezza, non più dal momento in cui la pulce viene messa nell'orecchio e il ronzio, vero o presunto che sia, diventa reale. Diventa vero perché sentimento partecipato, condiviso, impossibile da rimuovere senza esserne emarginati a propria volta; il semplice aver preso in considerazione l'ipotesi fa dell'ipotesi, e quindi del ronzio incessante, una tortura a cui si può resistere solo permettendole di diventare verità.

Naturalmente la legge fa il suo corso, ma il giudizio popolare, quello della gente a stretto contatto della quale si vive viaggia su binari separati: la prima necessita di prove tangibili per emettere una sentenza certa; il secondo ha il "vantaggio" (discutibile) di formare il proprio (pre)giudizio indipendentemente da esse.

Al di là della vicenda, sicuramente in sé già trattata svariate volte, è la sovrapposizione delle facciate sul piano psicologico, e umano, che monopolizza l'attenzione del film, tingendosi inoltre chiaramente di metafora per tentare di approssimare il suo punto di vista (stilisticamente parlando molto precisi i riferimenti alla natura delle cose, generalmente intesa).

Partendo dal presupposto di avere a che fare con qualcosa di necessariamente invisibile, strisciante, indistinto, corroborato dai lunghi silenzi interiori ed indagatori che si mischiano a quelli delle languide boscaglie tardoautunnali in cui viene praticata la caccia (il film originale porta appunto questo titolo decisamente più centrato), il tutto fuso nell'interpretazione poco meno che perfetta di Mikkelsen nel ritrarre questo tipo di personaggio, tristemente demonizzato, ostracizzato, trascinato alla più totale infamia sulla base di un semplice pettegolezzo (poco rileva che l'intenzione non fosse questa e che il tema nella sua importanza meriti ben altro appellativo), il film riesce in maniera superba a comporre un ritratto autentico di una situazione autentica.

Ovviamente alcuni dei suoi personaggi arrivano a certi passaggi un po' forzati, però sono complessivamente efficaci alla rappresentazione di un controllo che sfugge a tutti i suoi livelli più essenziali, fino a giungere al buon senso; la recitazione di Mikkelsen come detto aiuta moltissimo in questa direzione. Il progressivo disfacimento interiore è scolpito nel volto consunto del suo Lucas e proprio nella sua perdita (definitiva?) di qualsiasi tipo di credibilità sta la forza granitica delle idee come quelle cui si riferisce il titolo, probabilmente impossibili da estirpare perché è dove ci conduce la collettivizzazione come meccanismo di difesa contro il singolo individuo, sia questi una reale minaccia per la comunità o sia solo il fantasma di un'angoscia sociale la cui ammissione è sempre preferibile alla convinzione della propria vulnerabilità.


Scena scelta